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13/12/2017

Yemen - La guerra è ancora lunga

di Chiara Cruciati – Il Manifesto

Dopo l’uccisione dell’ex dittatore Ali Abdullah Saleh, lo Yemen non ha tregua: i raid sauditi sono proseguiti tutta la settimana, a copertura dell’offensiva terrestre delle forze governative del presidente Hadi. L’ultima strage è di ieri: 23 civili uccisi nella provincia nord di Sa’ada, roccaforte Houthi.

L’escalation è realtà quotidiana. E in tale situazione stonano le parole dell’amministrazione statunitense, la stessa che a maggio firmò contratti di vendita con Riyadh per 110 miliardi di dollari in armi per dieci anni e la stessa che sostiene attivamente l’operazione militare contro il movimento Ansar Allah con intelligence e supporto logistico: negli ultimi due giorni, prima il presidente Trump e poi il segretario di Stato Tillerson hanno chiesto «moderazione» all’Arabia Saudita e la fine del blocco imposto su porti e aeroporti controllati dagli Houthi.

Nelle stesse ore faceva la sua prima apparizione pubblica Ahmed Abdullah Saleh, figlio dell’ex presidente, auto-proclamatosi suo successore alle corti del Golfo. Del ruolo di Emirati Arabi e Arabia Saudita e delle prospettive del movimento Houthi abbiamo discusso con Ali al-Ahmed, analista saudita tra i massimi esperti dei paesi del Golfo, fondatore e direttore del think tank Institute for Gulf Affairs di Washington.

Dopo la morte di Saleh e l’intensificarsi della reazione saudita, assisteremo alla fine del movimento Ansar Allah?

Non credo. Emirati Arabi e Arabia Saudita hanno compiuto gravi errori e gli Houthi hanno un eccezionale supporto popolare. Abu Dhabi ha tentato di trovare una via d’uscita dal conflitto coinvolgendo Saleh, ma ha impiegato del tempo a convincere Riyadh. Quando ci è riuscita, era troppo tardi. Nessuno ha compreso il radicamento dei ribelli nel paese, nemmeno gli Stati Uniti che fino a poco tempo fa non prendevano in considerazione il potenziale del movimento. Non hanno compreso la trasformazione popolare dello Yemen: le vecchie logiche tribali sono quasi del tutto scomparse, si è passati da una struttura sociale tribale a una dettata dall’ideologia, che sia politica o religiosa.

Gli Houthi hanno raccolto consenso sia tra le giovani generazioni sia tra gli adulti. Lo si è visto nel settembre 2014: hanno assunto il controllo dell’intero paese senza trovare resistenza. Lo Yemen sta tornando alla sua identità originaria, drogata nel secolo scorso dalla pesante interferenza del wahhabismo sponsorizzato da Riyadh.

Dunque non si assisterà a significativi cambiamenti sul campo di battaglia?

Al di là dell’escalation militare, che non è una novità, le milizie di Saleh non sono numerose, si sono ridotte con il crollo di consenso verso l’ex dittatore. Si dice addirittura che a tradirlo sia stato il figlio di uno dei suoi bracci destri. Le bombe saudite, poi, non fanno che aumentare il sostegno popolare a chi resiste all’aggressione, ovvero gli Houthi. Lo storico appoggio delle tribù a Saleh non è più determinante, nei fatti la sua influenza politica era evaporata da tempo. E gli Emirati lo sanno: quando il 2 dicembre Saleh ha annunciato la rottura con Ansar Allah, il movimento ha lanciato per la prima volta un missile verso Abu Dhabi. Un messaggio chiaro: il sistema missilistico è in mano agli Houthi, non a Saleh.

Perché macchine da guerra come quelle saudita e emiratina non riescono a piegare la resistenza Houthi?

Riyadh non vince perché non ha uomini sul terreno. Non ci sono miliziani in Yemen che combattono per Riyadh, eccezion fatta per le forze governative, buona parte delle quali è in cerca solo di un salario e non del raggiungimento di obiettivi politici. Lo Yemen è geograficamente un paese difficile, montagnoso: chi ci combatte deve conoscerlo bene. E gli Houthi lo conoscono.

La guerra potrebbe finire a breve visti gli alti costi per chi l’ha lanciata?

Non ci sono indicazioni in tal senso. La guerra non è iniziata solo per gli interessi strategici, politici e petroliferi del Golfo, ma anche su spinta di certe potenze occidentali. In primis Stati Uniti e Gran Bretagna, principali venditori di armi a Riyadh e interessati a destabilizzare la regione: un Golfo stabile sarebbe meno dipendente dalle armi occidentali.

L’Iran è davvero presente al fianco degli Houthi?

Nel 2009, nel corso della sesta guerra di Sana’a contro gli Houthi, Saleh chiese l’intervento saudita giocando la carta della minaccia sciita. All’epoca l’Iran aveva contatti minimi, se non inesistenti, con Ansar Allah. Ma da allora c’è stato un avvicinamento che si traduce oggi in sostegno in termini di logistica, intelligence, denaro. Non di armi e uomini, però: se si guarda alle armi usate dagli Houthi si vede che sono molto simili a quelle utilizzate in Siria dal fronte pro-Assad, ma non sono identiche. Perché Teheran non ne invia di proprie, ma addestra gli Houthi a costruirsi i missili, inviando sul posto i propri tecnici.

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