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08/12/2017

Vivono in macchina, lavorano per Amazon: ecco a voi i nuovi nomadi americani

Dopo il primo sciopero, in occasione del Black Friday, il governo ha deciso di dare un’occhiata a come si lavora all’interno dello stabilimento Amazon di Castel San Giovanni (Piacenza), inviando – solo ora – gli ispettori del lavoro. I quali, va ricordato, dovrebbero poter fare queste ispezioni di frequente, con mezzi aziendali (si tratta di girare in auto in posti più o meno irraggiungibili con il trasporto pubblico), senza guardare in faccia all’importanza strategica dell’azienda. Naturalmente dovrebbero essere più numerosi di quanti non ce ne siano davvero e un certo numero di assunzioni in questo campo non avrebbe neppure effetti sui conti dello Stato, visto che le multe comminate in più basterebbero ampiamente a pagare gli stipendi e le spese di trasporto, visto come si lavora in certi settori.

Comunque sia, lo strapotere della multinazionale dell’e-commerce comincia a ricevere qualche segnale che, nelle intenzioni del duo Gentiloni-Poletti, dovrebbe significare più o meno “fate quello che volete, ma non esagerate troppo; mica siamo in America, qui!”

L’Ispettorato del lavoro rende noto di aver impegnato una squadra di 11 persone «allo scopo di verificare l’osservanza, nei confronti del personale occupato, delle norme di tutela dei rapporti di lavoro e di legislazione sociale».

L’altro avviso recapitato ad Amazon Italia è venuto – con tempi decisamente tardivi! – anche dall’AgCom, autorità di controllo nel settore delle comunicazioni, che ha imposto alla multinazionale di applicare il contratto del settore postale, visto che è quello il suo lavoro effettivo.

Piccole cose, che segnalano la difficoltà di far accettare supinamente – in questo paese – pratiche omicide nei confronti dei lavoratori abitualmente applicate nei paesi anglosassoni. Qualche giorno fa avevamo tradotto un’inchiesta dell’inglese Sunday Mirror sullo stabilimento nei pressi di Londra. Oggi è la volta di un altro giornale inglese, il progressista The Guardian, che invece segnala come vivono i lavoratori di Amazon “in patria”. Ossia quelli che dovrebbero esser trattati meglio rispetto a noi “colonizzati”.

Buona lettura.

*****

Mentre nel nostro paese qualche sciocco se la prende con gli scioperi dei dipendenti di Amazon in Italia, gli Stati Uniti ci mostrano qual è il destino di questi lavoratori: una vita da nomadi sottopagati alla mercé delle esigenze delle multinazionali. Mentre una ristrettissima classe privilegiata diventa sempre più ricca, i componenti di quella che una volta era la classe media sono costretti a rinunciare, un pezzo alla volta, alla possibilità di vivere dignitosamente.

di Jessica Bruder, * The Guardian, 2 dicembre 2017

Traduzione di Malachia Paperoga per vocidallestero.it

Milioni di americani lottano con l’impossibilità di sostenere un normale stile di vita da classe media. In tante case nel Paese il tavolo di cucina è sommerso dalle bollette da pagare. Nella notte le luci restano accese fino a tardi. I conti vengono fatti e rifatti, sempre gli stessi, fino all’esaurimento e alcune volte alle lacrime.

Dallo stipendio, togli gli scontrini del supermercato. Togli le spese mediche. Togli gli addebiti sulla carta di credito. Togli le fatture delle utenze. Togli le rate del prestito per gli studi e quelle della macchina. E togli la voce più grossa di tutte: l’affitto.

Nel mezzo del sempre più ampio divario tra entrate e uscite, si fa strada una domanda: a quale parte di vita sei disposto a rinunciare, per poter continuare a vivere?

Durante i tre anni di ricerca per il mio libro La terra dei nomadi: come sopravvivere in America nel ventunesimo secolo, ho frequentato centinaia di persone che erano arrivate alla stessa risposta. Hanno rinunciato a una casa tradizionale e sono passati all’”immobiliare su ruote”. Camper, rimorchi, furgoni, pick-up e perfino una Prius recuperata e altre auto. A molti di loro rinunciare al comfort materiale ha permesso di sopravvivere, e di recuperare nel frattempo un piccolo grado di libertà e autonomia. Ma ciò non significa che la vita sulla strada sia facile.

Il mio primo incontro con un gruppo di “nuovi nomadi” è avvenuto nel 2013, nel parcheggio per camper del deserto Rose, a Fernley, in Nevada. Era abitato da appartenenti al mondo del “precariato”: lavoratori temporanei che svolgevano lavori di breve durata con stipendi bassi. I suoi cittadini erano girovaghi a tempo pieno, che dimoravano in camper o veicoli simili, anche se almeno uno di loro aveva solo una tenda in cui vivere. Molti avevano più di 60 o 70 anni, vicini o già nel mezzo della tradizionale età della pensione. La maggior parte non poteva permettersi di smettere di lavorare o di pagare l’affitto.

Fin dal 2009, l’anno dello scoppio della bolla immobiliare, gruppi di lavoratori di questo tipo si sono spostati ogni autunno nei parcheggi per case mobili che sorgono intorno a Fernley. Molti avevano viaggiato per centinaia di chilometri – e subìto le consuete umiliazioni del controllo dei precedenti penali e del dover urinare in una tazza per il test antidroga – per avere la possibilità di guadagnare 11,5 dollari all’ora più gli straordinari lavorando in magazzini temporanei. Avevano intenzione di rimanere fino all’inizio dell’inverno, benché molte delle loro case su ruote non fossero progettate per viverci in zone a temperatura sottozero.

Il loro datore di lavoro era Amazon.

Amazon ha reclutato questi lavoratori all’interno del cosiddetto programma Camperforce: un’unità di lavoro composta da nomadi che lavorano come dipendenti stagionali in molti suoi magazzini, che la compagnia chiama “centri di adempimento”.

Così come migliaia di altri lavoratori temporanei, vengono assunti per far fronte al picco di richieste di spedizioni durante la “stagione di punta” – l’ubriacatura di consumi che si verifica nei tre – quattro mesi prima di Natale.

Anche se altri datori di lavoro si rivolgono a questa forza lavoro mobile – i lavori a disposizione vanno dalla manutenzione dei campi, alla vendita degli alberi di Natale, alla conduzione di attrazioni dei parchi divertimenti – Amazon è stato il reclutatore più aggressivo. “Jeff Bezos (fondatore e presidente di Amazon NdVdE) prevede che, entro il 2020, un lavoratore nomade su quattro negli Stati Uniti avrà lavorato per Amazon”, secondo una slide di presentazione per i nuovi assunti.

Amazon non rilascia alla stampa numeri precisi sul suo staff, ma quando ho chiesto di passaggio a un manager presso un CamperForce in un centro reclutamento Amazon in Arizona quanto fosse ampio il programma, la sua stima era di 1.400 lavoratori.

I turni dei lavoratori durano 10 ore o più, ore durante le quali alcuni devono camminare per più di 25 chilometri su pavimenti di cemento, chinarsi, accovacciarsi, allungarsi, salire scalette mentre scansionano, catalogano e impacchettano la merce. Quando finisce il periodo caldo delle feste, Amazon non ha più bisogno della CamperForce e pone fine ai contratti dei lavoratori. Questi se ne vanno, in quella che i gestori chiamano allegramente la “sfilata delle luci posteriori”.

Il primo membro della CamperForce con cui ho intrattenuto una lunga corrispondenza, per un periodo di diversi mesi, è stato un uomo che chiameremo Don Wheeler. Don aveva passato gli ultimi due anni della sua carriera come dirigente di una ditta di software, viaggiando tra Hong Kong, Parigi, Sidney e Tel Aviv.

Andare in pensione nel 2002 gli aveva finalmente permesso di vivere stabilmente in un posto: la casa coloniale spagnola degli anni ’30 che condivideva con sua moglie a Berkeley, in California. Inoltre, gli aveva dato il tempo di dedicarsi alla sua passione di una vita per le macchine veloci. Aveva comprato una Mini Cooper S bianca e rossa e l’aveva spinta fino a 210 CV, esercitandosi alla guida, fino a quando non era arrivato terzo assoluto nella gara USA di Touring nella categoria professionisti.

I bei tempi non sono durati a lungo.

Quando ho iniziato a scambiare mail con Don lui aveva 69 anni, era divorziato e si era stabilito nel parcheggio per camper nel deserto Rose, vicino al magazzino di Fernley. Sua moglie era riuscita a tenersi la casa. Il crollo del mercato del 2008 aveva vaporizzato tutti i suoi risparmi, Era stato costretto a vendere la Mini Cooper. Nella sua vita precedente spendeva circa 100.000 dollari l’anno. Nella nuova aveva imparato a sopravvivere con appena 75 dollari la settimana.

Per la fine della stagione invernale 2013, Don prevedeva di lavorare per il magazzino Amazon cinque notti la settimana fino all’alba, in straordinario, con turni di 12 ore, con 30 minuti di pausa per il pasto e due pause di quindici minuti. Avrebbe passato la maggior parte del tempo in piedi, ricevendo e scansionando i carichi di merce in arrivo. “Il lavoro è duro, ma la paga è buona”, mi spiegò.

Don mi raccontò che faceva parte di un fenomeno in aumento. Lui e la maggior parte di CamperForce – così come un ventaglio più ampio di lavoratori itineranti – si autodefiniscono “workampers” (dall’unione della parola work – lavoro – e camper, NdVdE). Anche se mi ero già imbattuto in questa parola, non avevo mai sentito da nessuno la definizione piena di fascino che me ne ha dato Don. In un messaggio diretto su Facebook mi scrisse:
“I Workampers sono i moderni viaggiatori che accettano lavori temporanei spostandosi negli Usa, in cambio di un posto gratuito per il camper – in genere con energia elettrica, acqua e connessioni alla fogna incluse – e forse uno stipendio. Potresti pensare che il workamping sia un fenomeno moderno, ma viene da una tradizione molto, molto lunga.

Seguivamo le legioni romane, affilando le spade e riparando le armature. Giravamo le nuove città dell’America, aggiustando orologi e macchinari, riparando le pentole, costruendo muri di pietra per un centesimo ogni 30 centimetri e tutto il sidro che riuscivamo a bere.

Abbiamo seguito l’emigrazione verso il West nelle nostre carovane con i nostri attrezzi e le nostre capacità, affilando coltelli, aggiustando qualunque cosa si rompesse e aiutando a ripulire la terra, a mettere un tetto alle baracche, ad arare i campi e a immagazzinare il raccolto in cambio di un pasto e di qualche soldo in tasca, per poi passare al lavoro successivo.

I nostri antenati erano i tuttofare. Siamo passati dai carri dei tuttofare a confortevoli mezzi granturismo o a rimorchi.

Per lo più pensionati, abbiamo aggiunto al nostro repertorio le competenze di una vita intera nel business. Possiamo aiutare a condurre un negozio, sistemare la parte anteriore o posteriore della casa, guidare camion o carrelli elevatori, ritirare e imballare la merce per la spedizione, riparare i macchinari, sistemare i computer e le reti, raccogliere le barbabietole, sistemare il giardino o pulirvi il bagno.

Siamo tecno-tuttofare.
Altri workampers con cui ho parlato avevano modi diversi di auto-descriversi. Molti dicevano di essere “in pensione”, anche se prevedevano di lavorare ben oltre i 70 o 80 anni. Altri si definivano “viaggiatori”, “nomadi”, “barboni di gomma” o, ironicamente, “zingari”.

Gli osservatori esterni danno loro altri soprannomi, da “migranti della Grande Recessione” a “rifugiati americani”, a “senzatetto benestanti”, perfino “barboni dei tempi moderni”.

Non esiste un calcolo preciso di quante persone oggi vivano da nomadi in America. I viaggiatori permanenti sono l’incubo della demografia. Statisticamente si diluiscono col resto della popolazione, dal momento che la legge richiede loro di mantenere una residenza fissa – in altri termini, fasulla.

Nonostante l’assenza di numeri attendibili, l’evidenza aneddotica suggerisce che le file degli americani itineranti abbiano cominciato a ingrossarsi con il collasso del mercato immobiliare, e poi abbiano continuato a crescere.

La causa dell’impossibilità di gestire la contabilità familiare che spinge le persone a diventare nomadi non è un segreto.

La paga minima a livello federale è ferma a 7,25 dollari all’ora. I costi degli affitti continuano a crescere. Ci sono ormai solo una dozzina di contee e una sola area metropolitana in cui un lavoratore a paga minima può arrivare a un appartamento di una sola stanza da letto a un affitto che può permettersi.

Nello stesso tempo, l’1% più ricco della popolazione ora guadagna 81 volte di più di coloro che stanno nella metà meno fortunata, se confrontiamo i guadagni medi. Per gli americani adulti che stanno nella metà più bassa della scala del reddito – ce ne sono circa 117 milioni – i redditi sono fermi a partire dagli anni 70.

Non si tratta di un divario retributivo, ma di un abisso.

La misura più comunemente accettata per calcolare la disuguaglianza di reddito è una formula vecchia di cent’anni: il Coefficiente di Gini. Quello che ci dice è incredibile. Oggi gli Stati Uniti sono la società più diseguale tra tutte le nazioni sviluppate. Il livello di disuguaglianza in America è comparabile a quello della Russia, della Cina, dell’Argentina, e della Repubblica democratica del Congo – un paese in guerra.

E per quanto oggi la situazione economica sia già brutta, probabilmente peggiorerà. Il che mi fa chiedere: quali altre distorsioni dell’ordine sociale appariranno negli anni a venire? Quante persone verranno schiacciate dal sistema? Quanti troveranno un maniera di cavarsela?

Nonostante le crescenti pressioni – incluso un giro di vite a livello nazionale per chi vive in macchina – i moderni nomadi d’America mostrano un grande resilienza. Ma quanta resistenza dovrebbe richiedere la nostra cultura per fare semplicemente parte della società? E quando tutte queste scelte insostenibili incominceranno a fare a pezzi la gente – insieme alla società stessa? Le file che continuano a ingrossarsi delle persone che vivono sulla strada suggerisce che la risposta potrebbe essere: prima di quanto non si creda.

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