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05/12/2017

Quanto sta male il giornalismo? Intervista a Roberto Ciccarelli

Terza puntata dell’inchiesta #obiettivoinformazione, ovvero “quanto sta male il giornalismo?”.

Intervista a Roberto Ciccarelli, redattore de il manifesto, tra i non molti ad occuparsi di mutamenti sociali, movimenti, forme di organizzazione non mainstream.

Eccoci in studio per il nostro spazio di approfondimento dedicato alla campagna #obiettivoinformazione, lanciata la settimana scorsa da Radio Città Aperta per fare un po’ il punto sullo stato dell’informazione e del giornalismo in Italia. Ne parliamo oggi con Roberto Ciccarelli. Ciao Roberto.

Ciao, buongiorno a tutti.

L’esempio da cui siamo partiti riguarda i fatti di Ostia, con la “testata” di cui si è parlato moltissimo. Negli stessi giorni, quel venerdì in tutta Italia c’era uno sciopero generale, a Roma – sabato – c’è stata una manifestazione nazionale con circa 10 mila persone, convocata dalla piattaforma Eurostop. Nessuna delle due iniziative ha avuto alcun tipo di rilevanza. I due fatti non sono collegati, però – se non altro per una questione numerica – diciamo che la partecipazione a Roma era decisamente superiore rispetto a quella della manifestazione antifascista di Ostia; ma il trattamento è stato profondamente diverso. Da qui ci siamo un po’ chiesti quale è la situazione. Tu come la vedi?

Su Ostia dici? O su Eurostop?

Tutte e due le cose...

Partendo da Ostia diciamo che il racconto giornalistico, soprattutto negli ultimi anni, ragiona come sempre su frame, su cornici. La connessione tra l’avanzata dell’estrema destra in un contesto che viene descritto come mafioso – essendo il municipio di Ostia commissariato da molto tempo e tra l’altro anche oggetto di fiction che hanno un ruolo decisivo nell’immaginario contemporaneo – ha condizionato fortemente anche la descrizione dell’aggressione di Spada contro il giornalista della Rai. Il fatto che non dovrebbe stupire è il fatto che poi sul caso di Ostia cali nuovamente il silenzio, dentro la logica della cornice, che è una logica descritta fin dagli anni ’50 dagli psicologi, e che trovo particolarmente interessante da applicare anche al racconto mediatico e giornalistico nello specifico. C’è un’assoluta continuità. Si è deciso, per condizionamenti culturali, per motivazioni anche politiche, che il disagio, la crisi, economica, sociale, psicologica, può avere un unico rappresentante: la destra. La destra che distribuisce pacchi di pasta, la destra che viene in molti scandali chiamata in televisione per rilasciare interviste. in un contesto di trasmissioni “progressiste”, fa notizia. Perché alla base, ripeto, c’è questa idea che oggi – con la sinistra che non esiste, o comunque è in una profondissima crisi di identità e tra mille contraddizioni – ci sia solo questo soggetto, vero o presunto, ad interpretare il disagio, la crisi, la povertà assoluta e quella relativa dei lavoratori poveri, i cosiddetti “working poors”. Che questo sia vero o meno è tutto da discutere... Bisognerebbe poi – è un’altra parte del discorso – discutere a fondo se questo innanzitutto sia un dato di realtà e se corrisponde al vero, e se sul territorio di Ostia (ma questo evidentemente riguarda tutte le periferie delle grandi città italiane), non esista tutt’altra situazione. Come ad esempio è successo a Tiburtino III, per restare sempre a Roma, in cui una sinistra di base, plurale, dai sindacati di base ai centri sociali, all’associazionismo, dai lavoratori al ceto medio riflessivo, si è da tempo attivata; ma che non riesce a “fare notizia”. E quindi la lotta politica, l’aggregazione e l’organizzazione socio-politica da sinistra oggi deve fare i conti non solo con le obiettive difficoltà a organizzare un’azione politica e sociale sui territori, ma anche affrontare il discorso della narrazione mediatica che, tendenzialmente, la esclude fino al punto di cancellarla. E questo è un problema sia politico sia giornalistico di grande rilievo, che andrebbe affrontato.

E’ un po’ quello che ci proponiamo di fare. Tu hai citato, per esempio, la forte presenza sui mezzi di informazione, spesso in televisione, di esponenti dell’estrema destra, in particolare di Casapound, nell’ultimo periodo. Quello che dicevi tu è: loro riescono a fare notizia. Ma non credi che siano anche notizie che in qualche modo si alimentano da sole? La volta dopo se ne parla perché se ne è già parlato la volta prima, perché Mentana ci va a fare i dibattiti e Formigli li invita in studio. Fino dove arriva l’esigenza di informare, quindi presentare tutto lo scenario politico e tutte le formazioni che ci si affacciano, e dove invece vince il bisogno di imporre che certe opinioni non devono trovare un riscontro e uno spazio su mezzi così potenti come uno show in prima serata su La7?

Mi sembra evidente, alla luce del ragionamento che facevo prima, che le notizie si creino. I personaggi, siano essi a X Factor così come in un talk show politico, si inventano. La questione diventa più interessante, e allo stesso tempo preoccupante, quando viene scelto in questa lotteria mediatica un soggetto politico come quello dell’estrema destra. E’ chiaro che si vuole incanalare la narrazione, effettivamente anche la realtà della crisi, su un canale predeterminato. Naturalmente, non bisogna nascondersi il fatto che a livello anche di base – non soltanto istituzionale e parlamentare – le sinistre, da intendere in senso plurale, nella maniera più estesa possibile, abbiano effettivamente un problema di individuazione sociale e politica. Ma questo non esclude il fatto che esistano soggetti, associazioni, cartelli, piattaforme sindacali, politiche, militanti, attive, e che abbiano anche un ruolo nei singoli territori e che siano anche visibili attraverso le azioni che hanno compiuto in mettiamo 5 anni, 7 anni, 8 anni. Si va dai movimenti di lotta per il diritto all’abitare ad altre esperienze territoriali, ma anche da reti nazionali, che esistono e che continuano ad agire. Ma loro non fanno notizia, almeno a quel livello. Quindi alla base c’è un orientamento... Obiettivamente c’è un orientamento culturale che ha deciso, ripeto, che la crisi, quando si parla di opposizione, deve essere interpretata solo da alcuni determinati soggetti, piuttosto che altri.

Questo però non lascia pensare ad un giornalismo in salute. Un giornalismo che si regola secondo le logiche di cui parli tu, forse, ha parecchie cose da migliorare.

Io non ho mai creduto al giornalismo che ragiona sulle verità oggettive e non ho mai creduto al giornalismo che dà semplicemente la notizia. E’ chiaro che siamo in un ecosistema informativo in cui l’oggettività della notizia è accompagnata da altri fattori soggettivi, industriali, immaginari e anche di lettura politica diffusa nel senso comune dei giornali e delle televisioni; il che rende la notizia in sé un oggetto molto complesso da comprendere e da decostruire successivamente. La storia poi del giornalismo in Italia, sia della carta stampata che televisivo, per non parlare poi della rete, non mi sembra sia stata mai caratterizzata da questo senso comune anglosassone; cioè l’idea che il giornalismo sia il prodotto delle famose domande del giornalista modello perfetto. Quando c’è la notizia devi spiegare innanzitutto chi, come, perché, dove e quando. Sì, va bene, ma questo è semplicemente l’inizio di un processo che porta alla notizia. Dall’inizio al termine della lavorazione della notizia subentrano tutti quei fattori che rendono molto spesso la notizia molto diversa da quella che sarebbe, se fosse solo un singolo fatto. Il fatto è un accadimento, la notizia è il risultato di questa complessa lavorazione in cui subentra l’ideologia dominante, i linguaggi, il lavoro, la cultura diffusa del singolo come della testata; e poi le testate che si parlano tra di loro e creano un senso comune molto più diffuso. Questo è evidentissimo nelle televisioni e anche per chi, come me, lavora per la carta stampata è la stessa cosa. Siamo in un ecosistema informativo molto permeabile e soggetto a condizionamenti e ideologia dominante molto pesante. Per cui il ruolo del giornalista, soprattutto quello critico, radiofonico, televisivo, di carta stampata o anche in rete, è innanzitutto – sembra strano – quello di decostruire la narrazione dominante; non per tornare al fatto oggettivo in sé, ma per offrire un punto di vista, se possibile, il più vicino a quello che considera la realtà dei fatti; e anche i soggetti che vivono sul territorio o, a livello più ampio, che sono interessati a quella notizia che magari vorrebbero anche interagire – politicamente, culturalmente, esistenzialmente – con quella stessa notizia. Ecco, il giornalismo, soprattutto alla luce della storia del giornalismo in Italia, non ha un contenuto assiologico. La sua verità non è mai ontologica, messa lì una volta per sempre. Si dà nel processo e questo processo è tanto più ricco se sul territorio, a livello nazionale, sui vari media, c’è un pubblico che interagisce; e magari agisse politicamente anch’esso... Vista la vita civile intellettuale, culturale e politica in questo paese, non si può dire che sia esattamente vivacissima, quindi questo è un aspetto che manca. Però ciò che rimane è questo tipo di lavoro del giornalista, che innanzitutto deve costruire la narrazione dominante offrendo un punto di vista. Mi sembrerebbe questo, in termini di giornalismo critico, una lettura possibile da proporre per fare, come sempre, nuovo giornalismo e sperando di costruire un nuovo tipo di racconto.

Chiaro. Chiarissimo Roberto. Io ti ringrazio per il tuo tempo e per il tuo intervento.

Grazie a voi.

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