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13/12/2017

La rabbia palestinese non si placa, Giordania ed Egitto frenano l'ANP

di Michele Giorgio – il Manifesto

La partecipazione alle manifestazioni non è massiccia, fa notare qualcuno. Vero. Ma in ogni caso non cessa la protesta palestinese contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele fatto da Donald Trump una settimana fa. Nel campo profughi di Arroub, nell’università di Tulkarem, a Betlemme, Ramallah e in altre località della Cisgiordania, ieri dozzine di giovani palestinesi hanno affrontato con lanci di sassi i soldati israeliani mentre cortei attraversano i centri abitati.

I dimostranti feriti sono stati almeno dieci. E centinaia di palestinesi d’Israele hanno tenuto a Tel Aviv un sit in di fronte all’ambasciata Usa che Trump intende spostare a Gerusalemme. La protesta viene sottovalutata dai media israeliani che dedicano spazio in questi giorni soprattutto alla politica interna. Fa eccezione Gaza dove la tensione, tra raid aerei e cannoneggianti israeliani e lanci di otto razzi palestinesi (in una settimana) non si sa bene da parte di chi, sta scivolando verso il baratro. Ieri due palestinesi armati e in moto sono rimasti uccisi a Beit Lahiya in circostanze oscure. All’inizio da Gaza avevano denunciato un attacco di droni israeliani. Poi il Jihad ha diffuso un comunicato per precisare che due suoi uomini erano morti in “missione”. A quanto pare i due sono stati uccisi dallo scoppio accidentale dell’ordigno che trasportavano.

A differenza dei giornali, le autorità politiche e militari israeliane non sottovalutano affatto gli sviluppi della protesta palestinese. Lo conferma la decisione di confinare in isolamento Marwan Barghouti, segretario del partito Fatah in Cisgiordania, da 15 anni in carcere in Israele. Barghouti, 58 anni, è noto come il comandante della seconda Intifada (2000-2005) e il suo carisma è rimasto intatto nonostante la lunga detenzione. Israele, spiegano i palestinesi, teme che Barghouti possa rivolgere nuovi appelli alla rivolta. «Mio padre è stato messo in isolamento per il messaggio che ha inviato ai palestinesi in occasione del trentesimo anniversario della prima Intifada (8 dicembre)» ci diceva ieri Qasam Barghouti, figlio del leader di Fatah, «in quel messaggio ha esortato la popolazione a respingere la dichiarazione di Trump e a dare vita ad una Intifada popolare e pacifica come quella cominciata nel 1987».

Marwan Barghouti in quel messaggio sollecitava i palestinesi a ritrovare una piena unità nazionale. La riconciliazione tra Fatah e Hamas però è ancora lontana. Il 10 dicembre è saltata un’altra scadenza fondamentale fissata dalle due parti per completare il trasferimento del controllo di Gaza da Hamas al governo dell’Autorità nazionale di Abu Mazen di cui Fatah è la colonna portante. Il passaggio dei poteri non è avvenuto per il mancato pagamento dei salari dei dipendenti pubblici di Gaza, assunti in questi anni dall’esecutivo di Hamas. Il governo dell’Anp non ha versato il salario sui conti correnti degli impiegati in risposta alla decisione del movimento islamico di non trasferire nelle casse dell’Anp le tasse raccolte a Gaza. Gli islamisti si sono difesi spiegando di non aver avuto da Ramallah l’assicurazione che quei fondi saranno usati per pagare i dipendenti pubblici di Gaza.

Lo status di Gerusalemme dopo la dichiarazione di Donald Trump, sarà oggi al centro delle discussioni di capi di stato e di governo e alti rappresentanti politici di 57 Paesi musulmani attesi a Istanbul per il vertice straordinario dell’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic) che rappresenta 1,6 miliardi di musulmani nel mondo. A presiedere i lavori sarà il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che nei giorni scorsi è stato tra i più duri contro Trump e il premier Benyamin Netanyahu, al punto da definire Israele uno «Stato terrorista e assassino di bambini».

Oltre ad Abu Mazen sono attesi a Istanbul il re di Giordania Abdallah II e il presidente iraniano Hassan Rohani. I membri dell’Oic giungono al summit con posizioni diverse. «Sembra che alcuni Paesi arabi evitino di sfidare Trump» perché «gli fa paura» ha commentato il ministro degli esteri turco Mevlut Cavusoglu in riferimento, con ogni probabilità, all’Arabia Saudita e ad altre petromonarchie del Golfo impegnate in un lento ma costante processo di avvicinamento a Israele in funzione anti-iraniana. 

Il mistero intanto circonda il vertice trilaterale con il presidente egiziano el Sisi, Abdallah di Giordania e Abu Mazen che si è tenuto due giorni fa al Cairo. Non si è saputo molto sebbene il summit fosse stato presentato come una rinnovata alleanza tra i tre leader. Le indiscrezioni dicono che el Sisi e Abdallah avrebbero “suggerito” ad Abu Mazen di abbassare i toni delle accuse a Trump e che Egitto e Giordania non intendono danneggiare le relazioni con Washington.

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