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07/12/2017

Il Fiscal Compact in regalo al prossimo governo

Scrive la Commissione Europea nel documento inviato ai governi a proposito della “legalizzazione” del Fiscal Compact: “la proposta di direttiva si basa sull’osservazione che non ci può essere un’applicazione efficace del quadro di regole fiscali dell’Unione Europea senza un approccio top-down”.

Ormai abbiamo tutti imparato che quando la classe dirigente parla inglese ci sta fregando, ma per darvene l’assoluta certezza vi proponiamo la traduzione fattane da Il Fatto Quotidiano: “Bruxelles ordina, i singoli Stati eseguono”.

Di cosa stiamo parlando? Di una quisquilia come la trasformazione di un trattato intergovernativo – il cosiddetto Fiscal Compact, appunto – in legislazione europea. Un cambiamento di status legale pensato, come spiega la Commissione (il “governo” della Ue), per rendere più stringente, assolutamente certa, l’efficace applicazione delle direttive.

Perché si rende necessaria – tra le altre cose – questa stretta legale? Perché molti partner europei, a cominciare dalla Germania, stanno pressando da anni la Commissione e soprattutto il suo Presidente, Jean-Claude Juncker, ritenuti troppo morbidi nell’imporre ai paesi in difficoltà (Italia, Spagna, Portogallo, e persino la devastata Grecia) il rispetto dell’obbligo di ridurre il debito pubblico.

Questa pressione si inserisce in un gioco più complesso, che riguarda sia la distribuzione dei poteri all’interno delle istituzioni della Ue, sia la scelta delle persone che devono andare ad occupare quelle posizioni, sia l’“approccio” che la Ue deve privilegiare nei prossimi anni: “comunitario” o “intergovernativo”? Nel primo caso si va verso una Ue-stato federale, con chiare gerarchie (top-down, per l’appunto) che valgono per ogni Stato nazionale. Nel secondo, invece, si prosegue nella strada “pragmatica” o “funzionalista” seguita finora; ossia con accordi che vengono fissati in dure trattative tra gli Stati e che dunque consentono agli Stati più “pesanti” (Germania, e in misura minore la Francia) di far valere i propri interessi e punti di vista più degli altri.

La Commissione, naturalmente, cerca di accrescere il proprio ruolo e nella “riforma complessiva” che sta proponendo suggerisce per esempio di trasformare l’Eurogruppo – composto dai ministri finanziari dell’Eurozona, potentissimo ma sfortunatamente illegale, perché non previsto da alcun trattato – in una struttura regolare della Ue, presieduta da un vicepresidente.

Juncker propone anche di trasformare il meccanismo operativo che dovrebbe scattare in caso di crisi interne, rendendo il cosiddetto fondo salva-stati (Esm) in un vero e proprio Fondo monetario, con un budget e una qualche forma di “condivisione dei rischi”, argomento tabù per le orecchie tedesche e di altri paesi nordeuropei.

Sta di fatto che questa proposta verrà discussa nei prossimi giorni dal Consiglio Europeo (che riunisce i capi di stato e di governo dell’eurozona). E già si sa che la Germania non farà passare nulla, eccezion fatta per la “legalizzazione” del Fiscal Compact. Se anche Paolo Gentiloni darà il suo assenso – e non si vede come possa tirarsi indietro, dopo aver ottenuto ancora una volta un po’ di “flessibilità” sulla legge di stabilità – dal prossimo anno l’Italia dovrà mettere in cantiere ogni anno delle “manovre” per ridurre il debito almeno del 3% annuo. Per 20 anni. Tradotto in cifre, dovrà tagliare ogni singolo anno almeno 50 miliardi di spesa pubblica (non essendoci molto spazio per aumentare ancora le tasse indirette come Iva, accise, ecc), prima ancora di cominciare a pensare a come gestire il paese.

Come spiega Federico Fubini nel suo editoriale sul Corriere della Sera, “noi italiani rischiamo di non capire quello che si sta aprendo in questi giorni nell’area euro. Sarebbe un peccato, perché ci riguarda e finirà per condizionare qualunque governo emerga dalle prossime elezioni”.

Lo stiamo dicendo da anni, soprattutto ai tanti compagni che ancora non riescono a fare i conti con la realtà politica dell’Unione Europea. Concentrarsi sui cosiddetti “programmi elettorali” o sugli “obiettivi di lotta” è importante in un solo senso: stabilire una relazione forte, continuativa, organizzata con pezzi più o meno consistenti del nostro blocco sociale. Ma se non si guarda dall’altra parte della strada, ovvero al luogo vero dove si concentra il potere decisionale sulle nostre vite, si continua a giocare un gioco morto da anni, contro un avversario-fantoccio che deve soltanto applicare in modo “efficiente” le direttive che vengono da Bruxelles (e Francoforte) “secondo un approccio top-down”.

Insomma quel gioco dove, se anche finisci su uno strapuntino di governo, ti tocca solo la parte down. Come a Tsipras, peggio che a Tsipras...

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