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13/12/2017

Gentiloni inchioda l’Italia al Fiscal Compact

Con la decisione del governo Gentiloni di appoggiare la “proposta Juncker” – domani al Consiglio Europeo – si chiude per sempre la possibilità teorica di modificare i trattati europei su due punti chiave: l’obbligo al pareggio di bilancio (peraltro già inserito addirittura nella Costituzione, all’art. 81) e la riduzione del debito pubblico al 60% del Pil entro 20 anni (per l’Italia, ferma al 133%, si tratterebbe di fare una manovra correttiva da almeno 50 miliardi ogni anno, tra tagli di spesa e aumenti di tasse).

Il silenzio che circonda questa decisione è direttamente proporzionale alla sua importanza perché l’inserimento del Fiscal Compact nella “legislazione europea” lo rende di fatto operativo – dal 2019 – e obbligatorio, pena sanzioni pesantissime ed esposizione del paese al “rischio mercati” (aumento dello spread, difficoltà nel rifinanziare il debito, ecc).

Fin qui il Fiscal Compact era stato infatti soltanto un “trattato intergovernativo”, dunque sottoposto annualmente a deroghe, flessibilità, sfilacciamenti in parte autorizzati dalla stessa Commissione Europea, in parte strappati furbescamente dai singoli governi per “attenuare” il rigore dei conti in misura compatibile con la conservazione del consenso sociale.

Non mancano infatti le perplessità anche tecniche sul funzionamento di un meccanismo automatico di riduzione del debito che si affida a parametri decisamente sfuggenti come l’output gap (lo scostamento tra la crescita reale e quella “potenziale”, di fatto impossibile da determinare con certezza). Proprio questa indeterminatezza rendeva necessaria la “flessibilità” che paesi come l’Italia hanno sfruttato fino – e oltre – i limiti della pazienza tedesca.

La trasformazione in “regola comunitaria” elimina – eliminerà, tra 12 mesi – anche quel margine di elasticità, rendendo tutta la procedura di scrittura della legge di stabilità (la legge più importante dello Stato, perché decide la distribuzione di spese e carichi fiscali per tutta la popolazione) un puro esercizio contabile, con limiti fissi e invalicabili anche a prescindere dall’andamento del ciclo economico.

E’, su una dimensione infinitamente più grande, la “lezione” impartita dalla Troika alla Grecia. Una volta fissati i confini quantitativi, infatti, sarà direttamente la Commissione Europea a stabilire quali voci del bilancio nazionale dovranno subire i tagli maggiori e quali dovranno invece essere aumentate. Già sappiamo – è un’altra decisione europea – che il bilancio della Difesa va aumentato rapidamente, per avvicinare quel 2% del Pil indicato come obiettivo minimo per la costruzione di un sistema militare continentale. E già sappiamo che (spesa militare esclusa) le voci più consistenti del bilancio statale sono sanità, pensioni, istruzione. Non serve insomma un genio per capire che qui si abbatterà, con maggior forza di quanto non sia già accaduto da 25 anni a questa parte (il “trattato di Maastricht” è non a caso del 1992), la mannaia di Bruxelles.

Ne consegue che i prossimi governi saranno di fatto dei puri prestanome per decisioni economico-sociali su cui non hanno più alcun potere (salvaguarderanno, con difficoltà, soltanto quei margini che consentono di tenere in vita un po’ di sistema clientelare, decisivo al momento delle elezioni). Era così anche prima, lo abbiamo scritto centinaia di volte. Ma ora si passa dalle trattative in posizione svantaggiosa all’obbedienza pura e semplice.

Fa ridere chi pensa si possa “disobbedire ai trattati”, o che un eventuale governo un po’ più progressista (e persino uno “populista di destra”) abbia la possibilità di “battere i pugni sul tavolo”. Con questa trasformazione del Fiscal Compact la stessa discussione politica sulle misure di austerità diventa praticamente impossibile: tutto è già deciso, fissato in regole immodificabili (servirebbe infatti l’unanimità di tutti gli Stati membri, come quando vengono firmati).

Per questo diciamo con forza crescente che l’elemento decisivo, discriminante, per qualsiasi schieramento politico-sociale o anche elettorale, è la posizione rispetto all’Unione Europea. Quei vincoli non si possono “riformare”, possono soltanto essere rotti.

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