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17/11/2017

Quando i migranti diventano lavoratori della filiera agroalimentare. Nuove schiavitù e diritti

Profughi, migranti o braccianti agricoli? Alcuni dati provano a fare chiarezza sulla situazione di migliaia di lavoratori “invisibili” nelle campagne del nostro paese.

Nel 2015 ci sono stati 244 milioni di migranti internazionali, rappresentando un aumento del 40% dal 2000. Di questi 150 milioni sono migranti lavoratori, un alto numero di migranti lavoratori provengono da zone rurali e vanno a lavorare in zone rurali. Questi dati provenienti dalla FAO evidenziano come la questione sia sempre più all’ordine del giorno. Sia presso la FAO, sia in un convegno in Messico organizzato da Via Campesina il connubio migranti/lavoratori agricoli sta interessando sempre più le istituzioni e le organizzazioni che si occupano di agricoltura.

In Italia il segretario della Federazione Sindacale Mondiale, George Mavrikos, in occasione delle iniziative di commemorazione del leader sindacale Giuseppe Di Vittorio, anche lui in passato segretario del FSM ed ancor prima bracciante agricolo delle terre pugliesi, ha voluto visitare, accompagnato dai rappresentanti del Coordinamento Lavoratori Agricoli dell’USB, il “ghetto” di San Severo, vicino Foggia.

A Bergamo, nel forum alternativo al G7, il tema del lavoro è stato affrontato con la giusta rilevanza.

A Salerno, all’Università un convegno promosso dalla Rete Rurale Nazionale ha trattato di migrazioni e rispetto dei diritti in agricoltura.

Questa attenzione, che sta giustamente crescendo, sposta finalmente l’attenzione alla figura del lavoratore agricolo e non del profugo migrante.

In realtà l’impiego di “migranti” al servizio dei latifondisti e dei proprietari di aziende agricole è un fatto ormai presente da più di vent’anni in Italia. Per molto tempo è stato tenuto nel dimenticatoio, proprio per l’incapacità delle parti politiche istituzionali, sia a livello internazionale sia a livello nazionale, di riuscire ad affrontare e regolamentare il gran numero di lavoratori agricoli,(sempre sfruttati e tenuti in condizioni disumane), da un punto di vista del diritto del lavoratore e non dal punto di vista dell’emergenza umanitaria.

Negli ultimi anni, con il ripetersi di tragedie, con la morte in pochi anni di decine di lavoratori agricoli, italiani e stranieri, avvenute proprio nei campi di raccolta o nei “ghetti” in cui sono confinati i braccianti stranieri, i media e parte della politica hanno cominciato a preoccuparsi del tema. La “legge sul Caporalato“ ha posto la questione, rimandando alla magistratura e alle forze di polizia la risoluzione del caso, limitando l’ampiezza della problematica ad un solo problema penale.

Tutti sappiamo che forze di polizia e magistratura non hanno le risorse adeguate, in termini di personale e presenza nei territori, per poter risolvere la questione dal punto di vista del Codice Penale.

Senza voler comunque entrare nei limiti contenutistici della legge stessa, è importante soffermarci su un problema che in Italia riguarda, tra lavoratori stagionali, lavoratori giornalieri, e lavoratori in nero, centinaia di migliaia di persone.

Come detto, il punto di vista di una forza sindacale deve in questo momento soffermarsi su quanto segue:

- il lavoro bracciantile nei campi va affrontato con l’interessamento del Ministero del Lavoro e non del Ministero dell’Interno. Delegare il contrasto del fenomeno sociale e lavorativo al Ministero dell’interno vuol dire non aver chiaro il fenomeno stesso. Nei “ghetti” e nelle zone dove stagionalmente si aggregano migliaia di lavoratori, il problema non è l’ordine pubblico, non è la mancanza del permesso di soggiorno, al contrario a questi lavoratori produttori di reddito per le aziende italiane,e che sono economicamente garantiti, viene negato ogni diritto previsto per altro, dalle leggi provinciali sul lavoro: alloggio e trasporto dovrebbero essere a carico del datore di lavoro, presidi sanitari dovrebbero essere garantiti dalle asl di zona, a garanzia della salute dei lavoratori; contratti corrispondenti al lavoro effettuato dovrebbero essere la norma ed invece da venti e più anni, anche nelle regioni che più sbandierano la propria gestione solidaristica, questi diritti sono sistematicamente negati, lasciando centinaia di migliaia di lavoratori della terra alla mercé di sfruttatori senza scrupoli, ed in totale assenza dei minimi diritti umani, luce, acqua potabile, servizi igienici.

- L’utilizzo dei Fondi pubblici statali in favore dell’accoglienza non deve andare sistematicamente a garantire enormi risorse economiche alle solite strutture: Protezione Civile, Croce Rossa, grandi associazioni umanitarie e professionisti del volontariato, ma dovrebbe essere asse centrale di una politica di miglioramento e di integrazione tra le comunità di lavoranti e le comunità locali, al fine di produrre ricchezza economica per la comunità locale, e inserimento dello straniero nel tessuto sociale locale abbattendo i rischi di crescita di politiche xenofobe e razziste. Evitare quindi grandi tendopoli o “ghetti” spontanei lontano dai centri abitati, ma favorire con una politica di sostegno e appoggio economico alle cittadinanze ospitanti la partecipazione del lavoratore agricolo straniero al tessuto economico e sociale locale.

Sono già diverse le esperienze che hanno portato alla giusta integrazione delle diversità culturali producendo miglioramenti delle economie locali, al contrario sono sempre più evidenti le presenze di fenomeni di corruzione o di malversazioni nella gestione dei grandi centri di accoglienza finanziati con denaro pubblico.

- Il sistema di sovvenzione pubblica all’agricoltura, che in Italia arriva attraverso la PAC, politiche agricole comunitarie, direttamente erogati dalla Unione Europea, e dai PSR piani di Sviluppo Rurale erogati anch’essi dalla UE ma distribuiti in concerto con le autorità locali, (regioni, comuni,) sono essenzialmente meccanismi di sovvenzione ed arricchimento delle grandi aziende e delle grandi confederazioni di categoria. Difficilmente i fondi PAC vanno a supportare i piccoli produttori agricoli o ad intervenire sul rispetto dei diritti dei lavoratori agricoli, lasciando che fondi pubblici comunitari vadano ad arricchire aziende e datori di lavoro che non si fanno alcuno scrupolo di alimentare sistemi di sfruttamento e discriminazione dei lavoratori agricoli.

- Il Coordinamento Lavoratori Agricoli USB sta ponendo con forza, ormai da alcuni anni, le rivendicazioni dei diritti dei braccianti stanziali o stagionali presenti nelle nostre zone agricole.

L’apertura di vere vertenze locali con le Regioni, le Prefetture e con i singoli Comuni sono i primi passi per un inversione di tendenza sulla modalità con cui vengono trattati i lavoratori agricoli.

Individuare i veri fruitori dei fondi pubblici europei ed italiani è il primo passo per smascherare attività che, come già dimostrato in alcuni casi dalla magistratura, vanno ad arricchire organizzazioni che nulla fanno per il rispetto dei diritti dei lavoratori. Riconsegnare dignità e rispetto ai lavoratori dei campi è obiettivo principale della nostra organizzazione sindacale.

E come ha recentemente affermato un bracciante in una intervista: I VERI “CAPORALI” HANNO GIACCA E CRAVATTA E NON STANNO NEI CAMPI, a noi tutti il compito di smascherarli definitivamente.

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