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20/11/2017

“Potere al Popolo”. Impediamo che il morto afferri il vivo

L’assemblea di ieri a Roma ha mostrato le grandi potenzialità di ciò che si muove fuori dai circuiti della politica servile, quella mainstream, indifferente e ostile alla popolazione, obbediente solo agli input dei “mercati” e delle istituzioni da questi formate.

Merito dei compagni di Je So’ Pazzo, che non è solo un “centro sociale” ma un soggetto politico e sociale attivo nella città di Napoli e dintorni.

La proposta di formare una lista “dal basso” per ricostruire una rappresentanza istituzionale, è stata immediatamente raccolta da soggettività molto diverse, com’era ovvio. Specie le formazioni politiche “storiche” si sono trovate “alleggerite” dal rischio di presentare l’identica proposta e vedersela magari respingere dai mille veti incrociati che sopravvivono a dispetto della logica e, soprattutto, dell’efficienza.

L’attenzione sollevata dal loro appello è stata superiore a quella che avrebbe ricevuto qualsiasi altra analoga chiamata a raccolta. Il che significa sostanzialmente due cose:

a) c’è una fortissima esigenza – diffusa in mille ambienti del conflitto sociale – di avere una rappresentanza politica e istituzionale capace di rappresentarne gli interessi comuni e, al tempo stesso, di mantenere aperti alcuni spazi democratici vitali per il conflitto stesso;

b) c’è una altrettanto forte diffidenza verso i partiti della “sinistra storica”, che hanno dilapidato nel corso di un quarto di secolo la fiducia popolare verso quelli che, a vario titolo, venivano comunque considerati dei “dirigenti”; chi vendendosi al nemico (ma non era ovviamente presente ieri), chi facendosi usare come straccio “progressista” in governi già reazionari perché europeisti (nell’unica accezione reale di questo termine: esecutori, per quanto incerti, delle direttive dell’Unione Europea). A meno di non voler considerare “meno peggio” il pacchetto Treu, la riforma delle pensioni (Dini e non solo), lo smantellamento dell’industria pubblica civile, l’accettazione della logica “maggioritaria”, ecc...

Del resto, basta vedere il successo elettorale di un movimento senza alcuna caratteristica politica (i Cinque Stelle), il cui unico punto “identitario” è costituito dal rifiuto di contaminarsi con “i partiti”. Anche la cosiddetta “sinistra radicale” è in questo senso socialmente “bruciata”.

Chi ha visto altre assemblee di questo tipo, nel corso degli ultimi decenni, si è subito chiesto se – questa volta – si riuscirà ad evitare che il morto afferri il vivo, trascinandolo agli inferi.

Tutte le metafore hanno un fascino, ma servono solo se si riesce ad identificare con chiarezza il morto. Il vivo, infatti, si riconosce subito: attivisti giovani e vecchi che vengono dalle lotte territoriali, lavoratori pubblici e operai, esperienze del Sud, dell’immensa provincia italiana, disoccupati, precari, persone in via di licenziamento o licenziate, sindacalisti e – perché no? – indomiti militanti comunisti di origine ed età anche molto differente.

Quello che chiamiamo il morto non va identificato in modo “sociologico”. Certo, si sono presentati molti fantasmi, autocertificati esponenti di organismi o organizzazioni che non esistono più (semmai sono esistite), tronfi sparacazzate abituati a dare lezioni non richieste, recitatori di citazioni prese a caso e utilizzate “a pene di segugio”, e anche di peggio. Ma questo tipo di morto non fa troppa paura. E’ zavorra che prova a non far partire un treno. Ma quando questo si mette in moto, la zavorra si sgancia da sola.

Il morto vero è infatti una logica, non una persona o un’organizzazione o un partito. E’ la logica per cui ciò che conta è conquistare qualche seggio, avere una presenza purchessia, e poi vedere... E’ la logica per cui “i programmi” sono lunghi elenchi di promesse (che nessuno legge...) che torneranno utili solo alle elezioni successive, mentre intanto – se hai avuto la fortuna di avere un seggio – voti pro o contro le singole leggi in base a un calcolo esclusivamente politicista (“cosa ce ne viene se...”). E’ la logica per cui con una mano fai manifesti con su scritto “anche i ricchi piangano” e con l’altra voti il pacchetto Treu, aprendo la diga della precarietà come condizione tipica del lavoro.

Questa logica è strutturalmente strabica. Prende i meccanismi della legge elettorale esistente – in questo momento il rosatellum – come l’alfa e l’omega di ogni ragionamento che dovrebbe essere politico. E allora il voto unico per il candidato nel collegio uninominale, che si trasferisce automaticamente alla lista, diventa il “marchingegno segreto” per (sognare di) scavallare le soglie di sbarramento. Da qui ne discenderebbe una caccia al “candidato non divisivo”, capace di convogliare su di sé voti al di là dei limiti fisiologici della lista.

Va da sé, naturalmente, che quel candidato – una volta eventualmente eletto – risponderebbe a se stesso, non alla lista o all’organizzazione che lo ha proposto. Tantomeno ai comitati, ai collettivi, ai circoli, ai gruppi di lavoratori e individui che l’avessero votato.

Dettagli, certo. Ma è lì che si nasconde il diavolo, ossia il morto. E’ banale che, dovendo partecipare a una competizione, se ne studino e capiscano le regole. Ma una cosa è esserne dominati, subordinando tutto alla “vincita”, tutta un’altra è giocare nel miglior modo possibile per affermare interessi sociali antagonisti all’ordine esistente. E’ un antico dilemma del movimento operaio, del resto, quello che oppone “il rischio di perdere” e “la certezza di perdersi”.

Cosa fare, allora? Quello che anche nell’intervento introduttivo è stato detto: “fare tutto al contrario”.

Che significa certamente individuare i punti su cui il nostro blocco sociale può riconoscerci come interprete non ipocrita di determinati bisogni. E altrettanto certamente significa mettere al centro le situazioni di lotta rispetto agli apparati (già abbastanza malconci, in ogni caso), sia nella gestione di una battaglia comunque difficile da fare in mezzo alla nostra gente, sia nei momenti “hard” di ogni “coalizione elettorale” (la scelta dei candidati, ecc).

Diciamo però che questi “punti”, per quanto chiari e semplici, sono comunque l’alter ego del “programma”. Più leggibili, certo, ma facilmente accantonabili post festum, insomma dopo il voto. Già ora, del resto, persino i Bersani e i D’Alema sono pronti a parlare di “revisione del jobs act”, della legge Fornero, di un nuovo articolo 18 (spesso chiamato anche “17 e mezzo”), ecc.

Il punto chiave è aver chiaro l’avversario, il “nemico” di tutti noi e contro cui ogni lotta va concentrata. Proprio per avere una visione realistica e politica, sia della situazione che della strada da fare. La nostra insistenza nell’indicare, in questo ruolo, l’Unione Europea, non ha nulla di “ideologico”. Non è insomma la “bandierina distintiva” di un certo raggruppamento politico-sociale, ma il soggetto istituzionale concreto che detiene il potere decisionale, svuotando di fatto e di diritto ogni sovranità popolare. E’ la sovranità del capitale multinazionale, che esclude per “costituzione” la possibilità che si formi nuovamente una sovranità popolare.

Facciamo un esempio pratico, anche se giocato “per assurdo”. Mettiamo che si riesca a fare una lista “vera”, con punti così semplici che ogni lavoratore o abitante delle periferie li riconosca al volo come propri. E mettiamo che, alla faccia dei pronostici, questa lista prenda il 51% e quindi possa formare un governo popolare “monocolore”, che ovviamente metterebbe subito all’ordine del giorno la realizzazione di quei punti, scrivendo e approvando le leggi relative.

Cosa pensiamo che accadrà in quei giorni? Chi è che cosa proverà ad impedircelo? Senza neppure andare a pescare nell’immaginario geopolitico militaresco (abbiamo un esercito che obbedisce alla Nato e servizi segreti gestiti dalla Cia o “agenzie” Usa equivalenti), basta ricordare le parole con cui Yanis Varoufakis ha descritto la sua esperienza come ministro dell’economia, nel primo governo Syriza. Oppure ricordare come, a una settimana dal referendum poi vinto dall’”Oxi”, i bancomat della Grecia avessero smesso di erogare banconote ai cittadini-correntisti. Oppure ancora l’atteggiamento avuto dalla Ue nei confronti della Catalogna. Persino il moderatissimo Puigdemont dovrebbe nutrire ormai meno illusioni su questo fronte...

Si dice a volte che l’argomento Unione Europea sia “divisivo”. Secondo noi, al contrario, dovrebbe essere fondativo di una qualsiasi strategia politica di classe. In fondo si tratta “solo” di riconoscere dove risieda oggi il potere politico. Ben pochi credono ancora che stia a Palazzo Chigi. Quelli che lo sanno meglio sono probabilmente proprio quelli che lì dentro ci lavorano...

Se comunque lo si vuole considerare divisivo, allora sarà bene sapere che proprio lì passa la distinzione tra il morto e il vivo. E quindi la possibilità/necessità di costruire una rappresentanza politica della classe che abbia anche la forza di darsi una rappresentanza istituzionale.

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