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12/11/2017

Cina/USA - La vittoria del "piano" contro il "mercato" (?)

di Pasquale Cicalese per Marx21.it

Si è appena celebrato l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre e tutti i media parlano di cortei nostalgici di un mondo che, per fortuna, dicono loro, non c’è più. Fallito, consegnato alle ceneri della Storia. Ironia della sorte il giorno dopo, l’8 novembre, durante la visita di Stato di Trump in Cina, i soliti media parlavano di Xi Jinping come nuovo “Imperatore” che sovrastava di gran lunga il Presidente americano. Cosa era successo? Trump utilizzava la questione coreana per far pressioni sui cinesi sulle tematiche commerciali. Prontamente loro offrivano concessioni, già peraltro stabilite nel vertice di Mar de Lago in Florida mesi fa, stringendo accordi per circa 250 miliardi di dollari. Precedentemente, Xi aveva avuto incontri personali con amministratori delegati della Silicon Valley, quale Apple e Facebook. Il giorno dopo l’incontro con Trump il ministero del commercio cinese comunicava che la Cina toglieva le restrizioni alla maggioranza delle società finanziarie, di venture capital e assicurative: d’ora in poi le società estere possono detenere il 51%. Si comunicava altresì che la decisione era stata presa durante il vertice Xi-Trump. La Cina inaugurava la politica dell’”Open the door” finanziario. Un segno di debolezza o cosa? Una resa agli americani e agli occidentali?

Per capirlo occorre ritornare al 19° Congresso del PCC del 18 ottobre scorso: lì Xi comunicava una maggiore apertura di mercato agli operatori esteri ma al contempo faceva capire che gli organi del Partito dovevano avere più peso nelle società estere e cinesi, maggiormente in quelle di maggior successo imprenditoriale.

Dunque, dà la possibilità di detenere quote di maggioranza ma la presa del Partito sarà più forte. Si tratta dunque di uno scambio Partito - finanza mondiale. La partita è quella di dare la possibilità alla finanza estera di penetrare nel mercato finanziario cinese, gestire parte del colossale risparmio cinese ma in cambio il partito dà gli indirizzi operativi su dove collocare il risparmio.

Lo scambio è: risparmio cinese contro internazionalizzazione dello yuan, soprattutto nel nuovo mercato del petro-yuan.

250 miliardi di dollari di accordi commerciali possono sembrare enormi, ma sono una goccia rispetto al colossale deficit accumulato dagli Usa nei confronti della Cina durante gli ultimi 16 anni. Per anni i cinesi lo hanno convertito in t-bond americani, ma come sottolinea Salerno Aletta (La lunga marcia di Trump in Asia, Milano finanza, 11 novembre 2017) dal 2016 è fermo alla cifra di 1200 miliardi di dollari, da allora la Cina non ha più acquistato. Per Trump o la Cina finanzia l’enorme deficit estero americano o apre le porte alle aziende Usa. La Cina opta ora per la seconda soluzione ed è probabile che nei prossimi mesi ci saranno altri colossali accordi con le corporate statunitensi. Oppure, ma poco si sa al riguardo, opti per l’infrastrutturazione degli Stati Uniti, venendo incontro al desiderio di Trump di investire in infrastrutture. In effetti tra gli accordi raggiunti uno è dei più misteriosi è quello che China Silk Road Fund, braccio finanziario della banca centrale cinese impegnato nei finanziamenti lungo la via della seta, ha raggiunto con un fondo americano per gestire masse finanziarie dedite agli investimenti. Ma nulla ancora si sa se in territorio americano o lungo la via della seta.

Potrebbe sembrare, quindi, che i cinesi abbiano abdicato di fronte ai diktat di Trump. Ma la storia è ben diversa. Xi durante il Congresso ha posto soprattutto l’accento sullo squilibrio in Cina tra lo sviluppo delle forze produttive degli ultimi decenni e il benessere della popolazione. E’ uno squilibrio per Xi che deve essere risanato.

Le concessioni alla controparte americana, per quanto colossali possano sembrare, hanno come obiettivo guadagnare tempo e spazio.

Tempo: la Cina si è data un periodo di circa 15 anni per raggiungere standard di benessere collettivo. Per 4 decenni hanno buttato tutti i loro sforzi finanziari per le marxiane condizioni generali della produzione, cioè l’infrastrutturazione completa del Paese. Lo spettacolare aumento della produttività totale dei fattori produttivi conseguente ha permesso nell’ultimo decennio un’altrettanto spettacolare reflazione salariale lato monetario. Ora per loro si tratta di allargare la sfera del salario per giungere ad un quadro completo di salario sociale, sul modello francese o italiano degli anni ’70. Per questo motivo hanno necessità assoluta di non giungere a nessuna guerra commerciale o guerreggiata: guadagnano tempo.

Non solo, guadagnano spazio: le concessioni agli americani sono un pegno per pagare dazio alla proiezione cinese lungo la via della seta, tant’è che parte dell’establishment americano vi vorrebbe partecipare. Sono previsti colossali investimenti, circa 8 mila miliardi, che non possono saltare in aria a causa di guerre o attriti internazionali. Concessioni in cambio di pace, concessioni in cambio di tempo e spazio.

Qualora la Cina raggiungesse minimi standard sociali da società del benessere, e non ci vorrà tanto tempo, assieme al quadrilatero governo-banca centrale-imprese e banche pubbliche-fondo sovrano, proietterebbe tutta la sua forza finanziaria, commerciale, politica e d’immagine lungo i continenti, anche grazie alla straordinaria rete di 60 milioni di espatriati. A quel punto il modello risulterebbe vincente.

Trump invece non governa l’economia, le multinazionali vanno per conto loro e spesso contro il governo, vedi il fisco, non può mobilitare colossali risparmi a fini pubblici come fa la Cina.

Che dire: si prospetta la vittoria del Piano contro il Mercato. Ironia della storia, a 100 anni dalla rivoluzione d’ottobre, che i media occidentali vogliono buttare nel cestino della storia.

Fonte

Conclusioni a parte, decisamente troppo a senso unico, la materia in oggetto è certamente da seguire con attenzione.

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