Vista
da fuori, e senza alcuna intenzione di “dare consigli”, la vicenda
catalana assume l’importanza strategica di un esperimento dal vivo che
illumina e risolve problemi piuttosto complicati, al limite
dell’incomprensibile se si usano le categorie concettuali in modo
libresco e ripetitivo.
Non
stiamo guardando un film già visto. Nonostante tutte le somiglianze
possibili, infatti, non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume.
Figuriamoci poi se il fiume è un altro...
Nelle scorse settimane molta della discussione “comunista”
sulla Catalogna si è affannosamente concentrata sulla falsa
contrapposizione tra internazionalismo e autodeterminazione nazionale,
partorendo posizioni politiche spesso imbarazzanti o, all’opposto,
semplice tifo da stadio (come ai tempi dello “zapaturismo”).
La
lotta catalana, invece, parla di noi. Rivela meccanismi oppressivi e di
sfruttamento che agiscono quotidianamente ma sfuggono all’attenzione
dei più (soprattutto se per “farsi un’opinione” ci si abbevera alle
fonti del mainstream mediatico).
Al
di là delle diverse specificità di paesi comunque accomunati nella
qualifica di Pigs, il contesto è spaventosamente simile. La differenza
principale è però eclatante perché riguarda la soggettività
politica: in Catalogna si è selezionata e formata, nel corso degli anni,
una sinistra radicale capace di saldare insieme questioni sociali e
questione nazionale, collegando i temi classici (lavoro, pensioni,
occupazione, salario, ecc) con la dipendenza da uno Stato spagnolo mai
definitivamente uscito dal franchismo. Una sinistra tanto radicata,
oltretutto, da imporre una analoga radicalizzazione dell’agenda politica
catalana, da sempre in mano all’ala “autonomista” del centrodestra.
Questa
diversa dinamica politica ha evidenziato – nello scontro con lo Stato
centrale spagnolo – le diverse reazioni delle varie componenti di
classe. Il grande capitale multinazionale catalano (sia finanziario che
industriale, con le banche Caixa e Sabadell, il colosso delle
infrastrutture Abertis, la filiale iberica di Volkswagen, ecc.) ha
decisamente osteggiato ogni spinta indipendentista, prestandosi ad
operare lo strangolamento economico dell’eventuale Repubblica.
Piccola-media borghesia e ceti popolari si sono invece relativamente
compattati, dando vita alla straordinaria prova di popolo nei giorni del
referendum e della violenta repressione della Guardia Civil.
Questa
“unità di popolo” è l’obiettivo principale del governo Rajoy.
Spezzarla, frammentarla, farla “tornare a casa”, svuotare le strade... Per
questo rifiuta qualsiasi ipotesi di “trattativa”, procede
nell’escalation, alza il livello di scontro puntando a intimorire i
settori più moderati del fronte indipendentista.
I
rapporti di forza tra le parti, del resto, sono decisamente
squilibrati. Buona parte delle speranze dei moderati erano infatti
riposte “nell’Europa”, immaginata per decenni come la superstruttura
“civilizzatrice” in grado di far superare anche alla Spagna il sistema
di potere ereditato pari pari dal regime franchista. La stessa
illusione, in parte, aveva impregnato buona parte della cosiddetta
“sinistra perbene” italiana, che non riusciva a liberarsi di Berlusconi e
dei fascisti di ritorno.
L’Unione Europea – che è una struttura di governance sorretta da trattati, e che nulla ha a che vedere con l’idea astratta di Europa
– anche stamattina, ha chiaramente appoggiato Rajoy, rafforzato le sue
minacce garantendo che non sarebbe mai stato riconosciuto uno Stato
catalano, evocato i fantasmi greci (ricordiamo che la Bce arrivò a
bloccare l’erogazione del denaro dai bancomat, dopo la vittoria dell’Oxi
al referendum). L’Unione ha risposto che i franchisti vanno benissimo, per obiettivo che la Ue persegue.
L’unico appunto mosso è stato relativo all’“eccessivo uso della forza”.
E in effetti altrove si è un tantino più sofisticati nell’usarla...
Uno
scenario di guerra economica e non solo, da affrontare quasi in totale
solitudine, cui le forze indipendentiste moderate e soprattutto il
popolo catalano (ancora a maggioranza “europeista”) non erano preparati.
Vista
da fuori, insomma, il dopo-referendum ha squadernato gli ostacoli veri
da superare e il cammino ancora lungo da fare per raggiungere
l’obiettivo.
Il
primo riguarda proprio il rapporto con l’Unione Europea. Per la primo
volta, infatti, un movimento di autodeterminazione nazionale si è
manifestato come forza maggioritaria in un paese all’interno
dell’Unione. Improvvisamente, tutto il “senso comune” che per un quarto
di secolo aveva accompagnato la disgregazione dei paesi fuori dal
cerchio magico del capitale multinazionale occidentale è stato
cancellato e sostituito dall’antico frasario sugli “affari interni”.
Improvvisamente, anche la democrazia è diventata un lusso che non ci si
può permettere di rispettare. Fino al punto di definire il voto popolare
un golpe.
L’ha
spiegato con altra parole l’ex ministro delle finanze tedesco Wolfgang
Schaeuble, salutando l’Eurogruppo per diventare presidente del
parlamento tedesco. Ha infatti proposto una “riforma” dei trattati per
togliere alla Commissione Europea (il “governo” della Ue) il compito di
supervisionare il bilancio dei singoli Stati. In luogo di una struttura politica
– per quanto priva di legittimità democratica diretta – quindi troppo
“condiscendente” con le difficoltà dei singoli governi, dovrebbe
occuparsene l’Esm, il cosiddetto “fondo salvastati”, composto da
funzionari specializzati. In pratica, se l’idea dovesse essere
realizzata, l’unica pratica davvero “sovrana” di tutti gli Stati
aderenti alla Ue – scrivere la propria legge di bilancio per decidere
come distribuire carichi fiscali e redistribuire le uscite – passerebbe
nella mani di ragionieri obbedienti a logiche puramente finanziarie.
E’
con questi occhi – golpisti per davvero – che l’Unione guarda a ciò che
avviene in ogni paese. Non c’è istanza popolare che possa essere
neanche presa in esame. C’è un programma di “riforme” da realizzare e ci
si confronta-dirige solo con quei governi che sono disposti a
realizzarle. Tutte le esperienze anche leggermente “anomale” (il primo
governo Tsipras, l’indipendentismo catalano, le spinte anti-austerità
presenti in diversi paesi, ecc.) vanno stroncate con ogni mezzo. A
cominciare da quelli finanziari-economici. Per ora...
Vista
da fuori, dunque, l’esperienza catalana ci deve spingere non solo a
dichiarare la nostra solidarietà e vicinanza, ma a costruire qui da noi un
fronte sociale e politico all’altezza di questo livello politico e
conflittuale. Il migliore aiuto che si possa dare a chi sta lottando è
aprire altri fronti, indebolendo il nemico comune. Ognuno nel suo paese,
per forza di cose; ma ognuno prendendo il tempo in comune. I rapporti
di forza all’interno di un sistema tanto complesso, del resto, non consentono più a nessuno di coltivare illusioni da piccolo gruppo.
Abbiamo negli occhi quell’unità di popolo
e l’odio negli sguardi dei “leader europei”. I catalani debbono
lavorare per nutrirla e farla crescere di consapevolezza. Ma noi
dobbiamo cominciare finalmente a costruirla, abbandonando
definitivamente le logiche e le pratiche solipsistiche dei “piccoli
orti” destinati ad essere divorati dalla desertificazione.
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