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19/10/2017

Renzi attacca Bankitalia mentre Bridgewater attacca Piazza Affari

Narra un vecchio aneddoto della storia dei partiti politici che, in Francia il primissimo premier espressione di un cartello delle sinistre, Édouard Herriot, fu ricevuto, una volta assolti gli obblighi per la presa in carica di primo ministro, dal presidente della Banca di Francia. Herriot non era uno sprovveduto, era già stato ministro in governi di coalizione, sarebbe stato presidente del consiglio altre due volte assieme a numerosi incarichi fino all’ultimo anno di vita. Bene, con suo stupore Herriot, ricevette dal presidente della Banca di Francia una vera e propria lezione su cosa, nel bilancio dello stato francese di allora, era di reale competenza della banca nazionale e cosa davvero del resto delle istituzioni. Di fatto, narra sempre l’aneddoto, Herriot si accorse di non governare più del cinque per cento del bilancio dello stato. Decine di anni di finanziarizzazione della vita pubblica francese, a partire dai boom di borsa sotto Napoleone III, avevano ridotto moltissimo il margine di manovra finanziario a disposizione delle istituzioni della sovranità popolare. Come è andata a finire è qualcosa di noto. Herriot, senza un reale bilancio dello stato a disposizione, provò a mantenere il consenso con misure sia simboliche che a costo zero per le casse pubbliche: il trasferimento al Panthéon delle ceneri di Jean-Jaurés (eroe socialista-pacifista), amnistia per gli scioperanti e per gli ammutinati della prima guerra mondiale, diritto di sindacalizzazione esteso ovunque, creazione di un consiglio nazionale dell’economia senza reali poteri.

Le ultime pagine del libro sono come ci si può immaginare: guerra finanziaria contro le istituzioni francesi, attacco al franco, impossibilità statuale di trovare le risorse per far fronte a questo attacco e caduta del primo governo francese di sinistra. Negli anni ‘20, come oggi, non c’era bisogno di un Pinochet per abbattere un governo di sinistra. Era, ed è, affare, nel senso anche di guadagno, delle piazze finanziarie. Perché abbattere i governi è un affare finanziario, per chi scommette al momento giusto, non dimentichiamolo.

Questo genere di lezione non è mai stato assimilato dalle sinistre italiane, infatti sono allo stato residuale, che hanno rimosso pure la vicenda Tsipras. Ma è, in qualche modo, è stata fatta propria da Matteo Renzi che, alla vigilia della scadenza del mandato di Visco a Bankitalia, ha fatto votare alla camera una mozione, di fatto, di sfiducia del governo proprio a Visco.

Ma cosa c’entra, nel quadro normativo odierno, una mozione di sfiducia del parlamento a Visco? Assolutamente niente. La legge 286 del 2005, quella attualmente in vigore, prevede una procedura di nomina del presidente di Bankitalia che passa da una serie di istituzioni - Presidenza del Consiglio, della Repubblica, Consiglio Superiore Banca d’Italia etc - ma non dal Parlamento. Non entriamo nel merito delle polemiche tra casi umani che traboccano sui media (Veltroni, Gentiloni, lo stesso Renzi) è evidente che quello che è accaduto, nel linguaggio istituzionale, è un atto forte. Di una istituzione, la Camera dei Deputati, che cerca di mettere i piedi nel piatto delle nomine che, formalmente, appartengono ad altre istituzioni dello Stato. Con un preciso mandante, Renzi, che dice una cosa chiara «di fronte a quanto sta accadendo nel mondo bancario le nomine non passano sulla testa mia e del gruppo dirigente del Pd». E’ così altrettanto evidente che Renzi è debole entro l’attuale procedura di nomina, altrimenti non si comporterebbe in questo modo.

Tra gli attuali osservatori del nesso banche-politica, ci riferiamo a quelli acuti e attendibili, ci sono quindi due filoni di interpretazione di questi fatti. Il primo sostiene che è solo propaganda elettorale, perché Renzi non avrebbe il tempo materiale e le sponde relazionali per preparare una propria candidatura; il secondo che l’atto irrituale fatto votare in Parlamento finirà, visto lo spessore dei poteri irritati da Renzi, per ritorcersi contro l’attuale segretario del Pd.

Anche perché chi difende Visco non è poco importante: l’Associazione Bancaria Italiana, miracolata dai venti miliardi messi a disposizione dal decreto Gentiloni, e tutto l’establishment politico-istituzionale che conta (al quale si è accodata la Cgil, parente ridotto sul lastrico, ma pur sempre parente, di questo establishment).

Solo che Renzi ha capito la lezione di Herriot, e lo ha fatto stando a Palazzo Chigi. Con un presidente, come Visco, eletto nei mesi difficili della crisi del 2011 dopo che Draghi era andato alla Bce, parte integrante della filiera Bankitalia-Bce un Presidente del Consiglio può fare poco. Se non vantarsi della ripresa economica quando, seppur a cifre basse, appare grazie alle (pericolose) politiche della Banca Centrale Europea. Oppure difendersi dagli attacchi dei media quando le cose vanno male ma senza attaccare la Bce. Un po’ poco per Renzi che ha bisogno di andare in deficit a fondo per la sua politica di «redistribuzione» alle grandi ditte committenti di appalti pubblici di ogni genere. E tanto più con il 2018 che, per le banche italiane, può annunciarsi di nuovo difficile. Per tutto questo ci vuole un presidente di Bankitalia che si allinei con il governo non con la Bce. Istituzione che si avvia, per motivi interni ed europei, a muoversi in modo diverso da quanto desiderato da Renzi. Per non parlare della Ue.

Certo c’è da chiedersi cosa controllerà il prossimo presidente della Banca d’Italia, con la prossima tornata di competenze di vigilanza che passeranno alla Bce, ma un punto per Renzi pare essenziale. C’è anche da chiedersi perché l’ABI difenda Visco e non Renzi. Ma sono, per quanto grossi, dettagli. Il punto è che Renzi, non più Presidente del Consiglio ma aspirante attore forte del prossimo governo, vuole una Bankitalia meno estranea alle proprie esigenze. Certo, i nemici che si è fatto stavolta sono seri, e pericolosi, non c’è da dubitarlo.

C’è anche da dire che Renzi, in questi anni, si è mostrato vicino sia a una rete di potere bancario italiano, territoriale (il caso Etruria non nasce sugli alberi...), che a settori di capitalismo di ventura londinesi (vedi Serra di Albertis che ha fatto bingo scommettendo al ribasso su MPS grazie a informazioni della presidenza del consiglio) che a qualche grande banca d’affari. Vedi JP Morgan che, comunque, nonostante gli sia stata offerta MPS si è vista interessata all’Italia ma è rimasta lontana (dallo scottarsi). E, fatto da non sottovalutare, è che il comunicato della sfiducia Pd alla Camera sia, per i media, stato redatto prima in inglese, e consegnato all’agenzia Reuters, e solo dopo tradotto in italiano. Segno, voluto, che si guarda prima ai movimenti finanziari verso l’Italia e poi a cosa accade nel nostro paese. E questi movimenti, al momento, sono destabilizzanti. Ma quanto?

Il conto è semplice, il fondo Bridgewater, il più grande del pianeta, gestisce asset per 160 miliardi di dollari, sta scommettendo contro l’Italia e sul crollo di buona parte di Piazza Affari. E su quali titoli ? Energia, tra cui l’Eni (che è un asset pubblico molto importante) e, guarda te il caso, titoli bancari. Ecco una mappa delle scommesse che Bridgewater ha fatto sui titoli italiani per guadagnare dal loro crolli, per puntate complessive di 1,4 miliardi di dollari. La ricostruzione è di Bloomberg. Ci troviamo la polpa sia del sistema energetico che di quello bancario-assicurativo del paese. Roba che se la scommessa andasse a buon fine il paese finirebbe a gambe per aria. Un tema un po’ più serio di quello della data delle elezioni, insomma.


Con questo non vogliamo dire che Renzi e Bridgewater fanno parte dello stesso complotto. Neanche che la scommessa andrà a buon fine, si chiama scommessa e i mercati finanziari sono fenomeni ad alta complessità. Oltretutto la massa di denaro investita, se confermata, è importante e magari, in qualche modo, potrebbe rientrare senza portare la scommessa fino in fondo. Solo che in Italia c’è una falla sistemica, nel comparto bancario, frutto di fattori globali e locali, sulla quale tutti si buttano. I segretari del partito di maggioranza e i fondi speculativi. E finché questa falla non verrà sistemata l’Italia sarà alla mercé di scorribande di ogni tipo, nazionali e globali. E per sistemare la falla il problema non è tanto, o solo, contabile. O di regolazione della Bce. La rivoluzione Fintech, l’ibridazione tra finanza e tecnologia che rende le banche sempre più obsolete, avanzerà nei prossimi anni rendendo più difficoltosi gli equilibri raggiunti dalle banche nella crisi. A seconda delle pieghe prese da questa rivoluzione la sua portata può essere pari a quella dell’Mp3 verso l’industria discografica. Bridgewater lo sa più di Renzi ma, per entrambi, questa quiete prima di una possibile tempesta va sfruttata.

Finiamo con un po’ di divertimento. Parliamo di quegli ascari in confusa ricerca di padrone, essendo senza più negus ma senza nemmeno il comando del governatore del duce, chiamati MDP. Il loro capo, in verità più capocomico che capobranco, sostiene, per sostenere Visco, che delle banche non bisogna parlare pubblicamente. A differenza di Renzi, duole dirlo, non ha afferrato la lezione di Herriot. Più la politica è silenziosa nei confronti delle banche più è facile che la sovranità popolare non abbia un centesimo a disposizione. Certo, a Renzi il centesimo servirebbe per le grandi ditte amiche, ma il fenomeno è qualcosa di elementare. Forse non per Bersani che è rimasto visibilmente ad oltre trenta anni fa. Quando la realtà, per lui, ha spiccato il volo fino a diventare irraggiungibile.

Redazione, 19 ottobre 2017

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