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07/09/2017

Le truffe del linguaggio occultano le stragi dei migranti


“Io non sono mai stato crudele” (Hermann Wilhelm Göring, A G.M.Gilbert, psicologo del carcere di Norimberga, 1946)

“Nel quadro della soluzione finale, un apposito organismo dirigente provvederà ad avviare gli ebrei al lavoro, con le opportune modalità, nei territori orientali. Suddivisi in grandi colonne e separati per sesso, gli ebrei abili al lavoro verranno condotti in queste zone e impiegati nelle opere stradali, tenendo conto ovviamente dei vuoti che via via si creeranno per decimazione naturale in gran parte del contingente. Gli elementi che alla fine resteranno ancora integri, trattandosi sicuramente di quelli più resistenti, dovranno essere trattati come meritano, perché sono il frutto di una selezione naturale, e nel caso fossero liberati diventerebbero la cellula embrionale di una nuova generazione ebraica.”

E’ questo un passaggio cruciale di uno dei più noti verbali della storia, il protocollo di Wannsee.

In un’elegante villa di primo Novecento, a Wannsee, sobborgo di Berlino, il 20 gennaio 1942 si tenne una “colazione di lavoro”. Il padrone di casa era il capo dell’Ufficio centrale per la sicurezza nazionale e della Gestapo, Reinhard Heydrich.

La fabbrica della morte, in verità, funzionava da tempo a pieno ritmo, sia pure in modo “caotico”, ma in quella riunione, durata meno di due ore, l’intensificazione dello sterminio fu precisata attraverso uno “sforzo” burocratico che serviva a ottimizzare i passaggi, a coordinare le operazioni, a nascondere innanzitutto a se stessi, attraverso un linguaggio tecnocratico, privo di condizionamenti psicologici, freddo e impersonale, l’abisso finale.

Il termine “sterminio” si tramuta così in “soluzione”, espressione che, nel suo significato originario, richiama accezioni positive, ma che in questo caso subisce uno slittamento semantico. I comandi della macchina della morte, come “reinsediamento” erano parole asettiche, espressioni burocratiche, dunque neutre, che trasformavano esseri umani in dispacci, azioni, esecuzioni di ordini.

“Ogni società ha il suo proprio ordine di verità, la sua politica generale della verità: essa accetta cioè determinati discorsi, che fa funzionare come veri” (Foucault), ma non possiamo non cogliere, tornando ai nostri giorni e al punto dolente, nelle scelte politiche fatte sulla pelle dei migranti, inquietanti affinità tra dispositivi di potere e le loro emanazioni.

Nelle “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché per il contrasto dell’immigrazione illegale”, collegate al decreto Minniti, il linguaggio iper-burocratico diventa indispensabile strumento narrativo e garanzia di sopravvivenza del regime stesso. Il vocabolario securitario utilizzato enfatizza gli obiettivi, riconduce ogni azione a un generico “nemico” interno che, tramite una narrazione epurata e burocratizzata, viene continuamente rievocato e reificato.

L’uso delle parole e delle narrazioni non riguarda astratte dispute linguistiche, ma rispecchia gli effettivi rapporti di forza tra le classi.

Espressioni come “decoro” e “sicurezza” pianificano di fatto la guerra di classe dall’alto, definiscono e organizzano con razionalità scientifica repressione e odio verso i migranti e i marginali, ne stabiliscono la sorte finale, per quanto ben nascosta da formule impersonali.

Pertanto, se vale l’affermazione “la sicurezza è di sinistra” (Minniti) e quella sicurezza di fatto conduce alle atrocità consumate nei lager libici, allora non meravigliamoci se prima o poi sarà riabilitata anche la dichiarazione “Io non sono mai stato crudele”.

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