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05/08/2017

Quel lato “eversivo” della didattica per competenze

Da alcuni anni la scuola italiana, conformandosi ad alcuni orientamenti europei, ha avviato un processo di rivisitazione dell’impianto complessivo dell’azione didattica. Il processo è stato naturalmente accelerato nella formazione primaria, per poi andare a coinvolgere i successivi gradi di istruzione. Oggi la didattica per competenze ha sostanzialmente completato il suo percorso di affermazione formale nell’intero ciclo scolastico, ma non ancora quello di penetrazione reale. Spesso, infatti, la certificazione delle competenze è una mera compilazione aggregata alla pagella tradizionale, che non si accompagna alla trasformazione didattica attesa. 

Per i non addetti ai lavori, occorre semplificare il concetto, che è assai complesso e tutt’altro che condiviso. L’obiettivo di lungo periodo è quello di superare la didattica per discipline, e approdare alla sola valutazione di competenze. Troppo lungo e articolato sarebbe ricostruire il quando e il perché di questa dinamica. Molti fattori vi hanno preso parte, tra i quali le aspettative del mondo del lavoro (soprattutto quello destinato ad accogliere i diplomati) – auspicante uno scarico sulla collettività di costi e tempi per la formazione del personale –, alcuni impulsi emulativi di tecnici e pedagogisti ministeriali nei confronti di modelli stranieri, ma pure una giusta e motivata istanza di rinnovamento di alcune stanche reiterazioni di metodi didattici poco efficaci. Non molti sanno, però, che in alcuni paesi europei ci stanno già ripensando, abbandonando l’idea delle competenze trasversali per un’effettiva rivalutazione delle competenze strettamente disciplinari (probabilmente in Italia ce ne accorgeremo tra un decennio).

Non è vero che la didattica per competenze riprenda e formalizzi cose “che abbiamo sempre fatto”, così come non si tratta di un mero riaggiustamento burocratico del lavoro dei docenti. Come Mario Castoldi mette in evidenza in apertura del suo ultimo libro (Valutare e certificare le competenze, Carocci 2016), occorre cogliere la “potenzialità eversiva” (p. 17) di quel costrutto, poiché esso implica un cambiamento “profondo e globale, che modifica i paradigmi e gli assunti di valore dell’esperienza scolastica” (id.). Naturalmente nessun ministro sarebbe in grado di intervenire sul metodo didattico dei docenti con atteggiamento perentorio, autoritario e immediato; ciononostante, le nostre istituzioni educative mirano a porre la classe docente di fronte a una trasformazione graduale, alla quale però è impossibile sottrarsi. Occorre leggere in questo senso l’insistenza sulle prove Invalsi, sul curricolo verticale e sull’alternanza scuola-lavoro. Passo dopo passo, si intende rimuovere la scuola di ieri, e trasferire nelle aule un impianto didattico completamente differente. Per questa ragione, è obbligo di ciascun operatore scolastico studiare questo fenomeno e formarsi un’opinione a riguardo.

Non è la didattica per competenze in sé a essere rivoluzionaria. Né in senso positivo, né negativo. Tutte le prassi didattiche, anche tra loro divergenti, se dominate e gestite con serietà e buon senso, hanno un impatto positivo sui discenti. Ma ciò che assume effettivamente un carattere “eversivo” è proprio il tentativo dei governi, o meglio, di un team di tecnici ministeriali, di imporre – di fatto, e senza diritto – un metodo di lavoro.

Insieme a Castoldi, proviamo a fare ordine nel ragionamento, e cominciamo a chiarire il significato di “competenza”. Il dibattito su questo semplice costrutto è talmente confuso da mettere in condizione chiunque si avvicini al tema, di dover “scegliere” una delle possibili accezioni. Castoldi riprende quella fornita da Pellerey nel 2004: una competenza è una capacità di far fronte a un compito, o a un insieme di compiti, riuscendo a mettere in moto e a orchestrare le proprie risorse interne, cognitive, affettive e volitive, e a utilizzare quelle esterne disponibili in modo coerente e fecondo. Scomponendo questa articolata concezione, possiamo intendere che la competenza si riferisce a un certo grado di padronanza nell’affrontare problemi (quindi un sistema di conoscenze grazie al quale orientarsi, unito a una serie di abilità cognitive per elaborare le informazioni a disposizione), l’impiego di risorse interne, anche affettive (ad esempio il controllo dell’ansia) e volitive (capacità di concentrazione e perseveranza), nonché delle risorse esterne (riferito, ad esempio, a compagni con cui cooperare). 

La prima questione che potrebbe urtare la suscettibilità del lettore, può consistere nella valutazione delle risorse affettive e volitive. Infatti, aggiunge Castoldi, “l’analisi della competenza richiede di andare oltre i comportamenti osservabili e di prestare attenzione alle disposizioni interne del soggetto e alle modalità con cui esso si avvicina allo svolgimento di un compito operativo” (p. 26). Non dovrebbe impressionare questo passaggio, perché in fondo qualunque insegnante con un po’ di mestiere tiene costantemente in considerazione tali variabili. Naturalmente non è del tutto chiaro come questo elemento estremamente soggettivo possa esser ponderato adeguatamente nelle tanto sostenute prove standardizzate. 

Castoldi si rende perfettamente conto di questo salto logico, e precisa che in realtà lo scopo dell’Invalsi è diverso, ed è finalizzato all’armonizzazione della produttività del sistema di istruzione. Se la didattica per competenze ha come fine interno una personalizzazione dell’atto valutativo “in quanto giudizio riferito alla complessità della persona” (p. 37), evidentemente le prove standardizzate mirano ad “alcuni traguardi astratti, socialmente riconosciuti come irrinunciabili” (id.). Come si esce da quella che pare una non trascurabile contraddizione?

Secondo l’autore, le verifiche omologanti non valutano il singolo studente ma le istituzioni scolastiche. Se tutti comprendono il valore formativo della valutazione di un allievo, non è del tutto evidente, invece, il fine della cosiddetta “armonizzazione” del sistema scolastico. A cosa serve? Quale risultato ci si attende?

Le prove standardizzate vengono formulate in modo da produrre un fallimento in quelle classi o in quelle scuole dove il metodo d’insegnamento tende a resistere a una politica di cambiamento e non accoglie in tutto e per tutto il nuovo sistema. Non importa se questi test siano costruiti bene o male – non si vuole fare una polemica nel merito, perché ad esempio le prove Invalsi di matematica sono per certi versi molto interessanti – ma è lo spirito quello che conta. Si tratta di una questione eminentemente politica, perché è in gioco l’impianto liberale delle politiche educative, garantito dalla nostra Costituzione.

Riflettendo sullo scopo dei test Invalsi, Castoldi esplicita con molta chiarezza il loro fine intrinseco: essi mirano a rispondere a “una istanza formativa nei confronti delle scuole e degli operatori scolastici” (p. 40). Provano dunque, gradualmente, a piegare la didattica in una direzione prestabilita. Si dirà: ma questo è ciò che lo Stato si è sempre riservato di fare con gli esami di fine ciclo. Non è esattamente così. Nella prova d’esame, infatti, viene sempre fornita dal Ministero la possibilità di scegliere la traccia e la tipologia di prova. Le verifiche scritte nelle varie discipline sono generalmente congegnate in modo tale da poter essere affrontate a prescindere dal metodo didattico scelto dal docente. Con le prove standardizzate, invece, la tipologia dei quesiti è molto stringente, e induce alla ristrutturazione del metodo d’insegnamento. È inevitabile. 

La proposta didattica potrebbe anche essere buona, ma è accettabile che lo Stato eserciti pressioni tanto forti nelle scelte didattiche dei singoli docenti?

Torniamo però al costrutto di “competenza”. Quali sono le conseguenze di questa proposta eversiva? Scrive Castoldi: “ciò comporta uno spostamento di attenzione dalla cultura scolastica, tendenzialmente formale e decontestualizzata, alle situazioni reali di vita, come contesti nei quali verificare il possesso delle competenze indagate” per approdare a “un concetto di educazione comprensivo anche delle esperienze extrascolastiche” (p 42). E questo spiega bene la deriva didattica degli ultimi anni, dal moltiplicarsi dei progetti fino all’alternanza scuola-lavoro. Naturalmente questo discorso avrebbe forse qualche significato se si riservasse lo spazio adeguato alla formazione intellettuale e si aggiungessero sporadici momenti esperienziali. Al contrario, purtroppo, si tratta per lo più di una sostituzione, in cui il “vivere” precede sempre il “pensare”. E questo non sempre è un bene.

L’autore difende l’istanza di una certificazione delle competenze socialmente condivisa e riconoscibile, come risposta all’indebolimento del prestigio sociale della valutazione scolastica, le cui indicazioni sono tendenzialmente ignorate in molte prove d’ingresso delle università e nel mondo del lavoro, mentre assai più riconosciuti sono i punteggi ottenuti nell’ambito delle certificazioni linguistiche o informatiche, offerte da soggetti privati. Ciò tuttavia non dipende dalla mancanza di serietà del sistema scolastico, ma da una trasformazione culturale globale della società, che tende alla semplificazione, e che ritiene di poter capire da un’arida certificazione ciò che una persona è in grado o meno di fare. Ma è un’illusione in cui la scuola non dovrebbe inciampare. Gli enti che rilasciano certificazioni linguistiche sono legittimamente indifferenti alla formazione della persona e del cittadino. In modo secondo me poco interessante, quegli enti attestano il grado di competenza nella comunicazione in una lingua straniera. Punto. La scuola, invece, struttura un lavoro assai più profondo, che concerne la trasmissione di un patrimonio scientifico e culturale, un senso del vivere sociale e la capacità di creare e immaginare nuovi mondi e possibilità future. Obiettivi difficilmente osservabili attraverso la lente delle prove standardizzate, e poco descrivibili in una rubrica per la certificazione.

D’altro canto, lasciando da parte il discorso sui test Invalsi, nella scuola italiana è ormai un obbligo la compilazione di certificazioni di competenze, utilizzando le apposite rubriche. Tuttavia, affinché si possa parlare di certificazione, occorrerebbe un soggetto terzo, neutrale, che non abbia mai avuto relazioni didattiche con lo studente, e dovrebbe riferirsi a degli standard universali. Quando si impone ai docenti di certificare le competenze, di fatto si chiede una sorta di duplicazione della valutazione sommativa, scritta però con formule lessicali alternative. Ecco perché nessuno la tiene in seria considerazione. Castoldi questo lo spiega molto bene: “occorre sottolineare con chiarezza che la certificazione affidata agli insegnanti dei diversi ordini di scuole non possiede nessuno dei due requisiti: non è affidata a un soggetto di parte terza, in quanto l’insegnante è implicato nella relazione formativa e non può sdoppiarsi nella gestione separata di una funzione educativa e di una valutativa; non si basa su standard assoluti” (p. 48). E allora a cosa serve? Secondo Castoldi si tratta di una “valutazione a valenza certificativa”, che detto in altri termini, è un ridondante duplicato della pagella, semmai utile a ricordare al docente che prima o poi dovrà decidersi a modificare la propria didattica. 

Spiace constatare che quando entra più strettamente nel merito del discorso docimologico, purtroppo l’autore si smarrisce in una serie di luoghi comuni sulla scuola e sul corpo insegnante. Il suo proposito è annunciato come rivoluzionario: “per costruire un modo diverso di valutare bisogna smontare quello attualmente egemone, senza sconti e senza mezze misure!” (p. 53). Egli immagina ancora il docente come il frustrato bacchettone che si limita miseramente a fare un’arida media matematica al momento della valutazione sommativa, perso nel mito dell’imparzialità. Beh, questa è una caricatura dell’insegnante francamente inaccettabile. Egli ne attribuisce la responsabilità al metodo didattico, che andrebbe provvidenzialmente ristrutturato: “l’orientamento verso compiti di realtà spinge verso prove valutative più complesse e articolate” (p. 56). Ma rimangono del tutto oscure le ragioni per le quali un compito di realtà dovrebbe essere più complesso e articolato di un compito puramente logico o compositivo, e soprattutto occorrerebbe avere la precisione metodologica di definire cosa sia la realtà, perché non è un concetto semanticamente univoco. Castoldi insiste nel definire “inerte” il sapere che non si connette a situazioni di vita, ma la natura di questa inerzia resta completamente indefinita: perché mai lo studio approfondito di un argomento storico costituirebbe un’attività meno “significativa” di un’azione di cooperative learning legata all’organizzazione di un itinerario turistico (tanto per citare uno degli esempi relativi ai “compiti di realtà” proposti dall’autore)? 

Intendiamoci, è vero che lo sforzo cognitivo può trarre giovamento da un potenziamento esperienziale, ed è vero che una didattica realmente inclusiva debba saper utilizzare strumenti differenziati, in modo da consentire alle diverse intelligenze di interagire con il patrimonio scientifico e culturale per appropriarsene, partecipando all’accrescimento del nostro bagaglio conoscitivo. Castoldi ha perfettamente ragione quando sottolinea come le parole chiave del processo educativo non debbano essere termini come “riconoscere”, “riprodurre”, o “rispondere”, ma “inventare”, “ricercare” e “rielaborare”. Ma su questo la didattica delle competenze aggiunge qualcosa solo in senso obliquo. Dalla notte dei tempi la scuola non si limita al mero dettato. Scrivere temi e riassumere, come si faceva una volta (e che ora si tende a rimpiangere), sono modalità attive e creative. I cosiddetti “compiti di realtà”, aggiungono elementi forse più accattivanti e maggiormente inclusivi, ma non sostituiscono certo una didattica passiva con una attiva. Sarebbe intellettualmente scorretto sostenerlo.

Tuttavia, non esiste – e non è lecito pretendere che esista – un’unica metodologia didattica di qualità.

Castoldi è apprezzabile e sicuramente in buona fede quando insiste nella difesa del valore soggettivo della valutazione e della sua funzione formativa, se capace di una vera personalizzazione. Ma lo sforzo ministeriale per la standardizzazione della metodologia, perseguita attraverso l’Invalsi o altri vettori della didattica per competenze, e che Castoldi prova comunque a rendere compatibili con la propria prospettiva, sembrano stridere in più punti. Il suo è un invito a conciliare una logica di controllo, necessaria per rispondere a criteri di credibilità sociale, con una logica di sviluppo, più centrata sulla formazione dell’allievo. “Per l’insegnante – egli conclude – si tratta di conciliare le due logiche e modularle nella propria azione professionale” (p. 267). Su questo ha ragione, però sarebbe bene lasciare ai docenti e ai singoli istituti, nella loro autonomia, la responsabilità di cercare un equilibrio, mentre la pressione delle prove standardizzate parrebbe inserire in modo troppo invadente un soggetto estraneo al processo educativo, nella dialettica allievo-insegnante.

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