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01/08/2017

La guerra di Google ai siti progressisti

Si chiude definitivamente l’epoca dell'“anarchia” in Internet. Anarchia relativa, perché comunque stiamo parlando di una Rete che ha da sempre proprietari molto oculati.

Comunque sia, per qualche decennio è potuta sembrare – e in qualche misura essere – un luogo dove esercitare liberamente il proprio estro, riversare la creatività e in qualche misura metterla anche economicamente a frutto, fare informazione anche politica (persino antagonista!). Un po’ di tutto.

Quando però l’innervamento globale della Rete è arrivato a compimento (manca qualche area di Africa, Asia e America Latina, ma insomma... è fatta) è venuto alla luce anche il problema della libertà d’azione. Formalmente – a parte i casi di propaganda jihadista – nessuno vieta (ancora) nulla.

Non ce n’è bisogno. La natura della tecnologia e la sua immensa diffusione bastano e avanzano per decretare l’irrilevanza di ogni sforzo di comunicazione individuale o di piccolo gruppo. Di fatto la situazione è la seguente: ogni individuo o collettivo o multinazionale costruisce il suo sito (pagina, blog, ecc) come meglio crede. Metaforicamente, getta la sua bottiglia in mare e spera di esser trovato-visto-letto da un sacco di gente.

Ma ci sono decine di bottiglie in questo oceano. A parte l’inquinamento crescente, diventa praticamente impossibile essere “visti” e trovati. Perché ciò sia possibile bisogna fare affidamento sugli algoritmi dei motori di ricerca e dei social network. Che a loro volta sono proprietà di qualcuno, hanno sedi fisiche in alcuni paesi (i principali negli Stati Uniti). Quindi hanno interessi diversi da quelli dei milioni di potenziali utenti e subiscono le pressioni del governo dominante, collaborando quasi sempre con autentico entusiasmo.


Una volta consolidato l’intreccio tra interessi proprietari (commerciali) e interessi politici imperiali il gioco diventa obbligato. Senza toccare apparentemente la “libertà” di buttare la tua bottiglia in mare, parte da un lato la schedatura massiva totale di tutti gli “utenti” (che diventano a loro volta merce commercializzabile, con i “profili” delle preferenze ben strutturati), dall’altra si perfezionano nel tempo altri algoritmi che sulla base di quei profili inseriscono “ostacoli” alla possibilità di essere trovati e letti.

Politica imperiale e denaro non hanno mai interessi divergenti. Ma in nessun altro luogo questo può diventare dominio assoluto come nella Rete.

Qui di seguito l’analisi condotta da IlSimplicissimus.

*****

Fate una prova: andate su Google, cercate una qualunque parola, memorizzate i risultati della prima e seconda pagina e copiateli in una cartella. Poi quando vi capita di poter mettere le mani su un altro computer ripetete esattamente l’operazione e vedrete che i risultati sono completamente diversi. Gli algoritmi di ricerca che hanno reso famoso Google e ne ha fatto un golem del web hanno un rovescio della medaglia ovvero si adattano a quello che il sistema pensa che voi stiate cercando non a quello che cercate e dunque mostra cosa diverse a utenti diversi. E’ un sistema che pare facilitare di molto le cose all’inizio, ma che a lungo andare vi crea una bolla di navigazione che può essere quanto mai riduttiva e che in definitiva si rivela l’ideale per la diffusione di contentuti publicitari di ogni genere, espliciti o nascosti.

Sono sistemi adottati anche da vari social che alla fine producono ricavi giganteschi da questa trasformazione del web in prateria di vendite e di spot: una cosa a cui siamo abituati, ma che diventa nefasta quando dal piano puramente commerciale si scivola in quello politico come è accaduto nella primavera scorsa, quando Google è scesa in campo a fianco dell’informazione maistream decidendo di utilizzare un nuovo e particolare algoritmo per rendere più difficile agli utenti l’accesso a siti considerati portatori di fake news o di complottismo, mentre si è reso possibile agli utenti istituzionali “segnalare” contenuti non in linea con la narrazione corrente, ovvero di far vincere sempre “contenuti più autorizzati” come scrisse la major in un comunicato che è un capolavoro di pensiero unico. I risultati sgraditi non vengono eliminati, ma messi alla quarta o quinta pagina in modo che soltanto i certosini sappiano rintracciarli. Insomma la forma principale del controllo dell’informazione nelle società cosiddette libere, dove non ci si affanna a cancellare, ma a marginalizzare.

Già questo dovrebbe provocare almeno un po’ di disgusto in chi è ancora in grado di pensare, ma la cosa diventa molto più grave nel momento stesso in cui non viene data alcuna definizione di complottismo o di falsa notizia, per cui il tutto si sostanzia in una generica e variabile possibilità di censura sul mercato dell’informazione, secondo le stesse linee di azione utilizzate da Google nel manipolare le ricerche e orientarle verso il suo servizio di shopping. Si è presa una multa da 2,7 miliardi per questo, ma di certo nessuno la sanzionerà per la censura politica che anzi è la benvenuta.

Infatti in appena tre mesi dalla messa in funzione della nuova “filosofia” si riscontra una drastica diminuzione di nuovi accessi a siti della sinistra e del progressismo, come è saltato fuori con la polemica durissima del World Socialist Web Site, un portale che esiste da vent’anni e che in tre mesi da fine aprile e fine luglio, ha visto diminuire i nuovi accessi del 70 per cento. Più o meno la stessa cosa è accaduta con altri 14 siti messi in una lista nera dal Washington Post e dal New York Times, con la partecipazione della stessa Google. Visto il periodo si tratta sempre di pagine che contrastano la verità ufficiale di Trump come agente di Putin e si tratta di WikiLeaks, Alternet, Counterpunch, Global Research, Consortium News et Truthout. Anzi non c’è dubbio che la neo censura conclamata del web sia nata sotto l’assillo di dimostrare l’indimostrabile e di evitare il deterioramento di assiomi, essi sì di uno sconcertante complottismo ciarlatano, costruiti per impedire che la generazione di caos e di guerra prodotto dal nuovo medioevo multinazionale, possa subire una battuta di arresto. Naturalmente le organizzazioni che dicono di difendere i diritti democratici come l’Unione americana per le libertà civili e la ormai famigerata Amnesty international, non si sono accorte di nulla, prova che si tratta di estensioni improprie del potere Usa sia bianco, grigio o nero.

Ma che questa fosse la strada segnata appare chiaro da anni e basta andarsi a rileggere le parole brevi, enigmatiche e imbarazzate di Robert Boostin inviato di Google al simposio internazionale sulla libertà di espressione, organizzato dall’Unesco nel 2011: una sequela di elusioni, di vacuità e di vanterie sul ruolo di Google in Cina e nell’Iran nella tutela dei dissidenti. Possiamo facilmente immaginare, ma purtroppo nessuno gli domandò se la definizione di “dissidente” si attagliasse anche a un americano sotto il Patriot Act che fosse fatto oggetto di indagini sulle proprie opinioni da parte dell’FBI e non della polizia cinese o iraniana. Del resto cosa avrebbe potuto dire visto che appena pochi giorni prima Google aveva chiuso l’account su Youtube di Cubadebate e cancellato i 400 video-confessione del terrorista Luis Posada Carriles, un ex agente della Cia che aveva chiesto “il pagamento per i servizi che comprendevano l’attentato in pieno volo sull’aereo di linea della Cubana de Aviacion nel 1976, e un’ondata di attentati in località turistiche dell’isola nel 1997”?

Per carità, già allora non le piacevano le notizie scomode.

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