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01/08/2017

Giovani, era digitale e cambiamento mentale

Stimolata dalla lettura di Susan Greenfield (Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie stanno lasciano un’impronta sui nostri cervelli), Anna Angelucci torna a riflettere (su ROARS lo aveva fatto di recente il filosofo olandese Wouter J. Hanegraaff nel suo articolo C’è luce in fondo al tunnel) su uno degli aspetti più significativi legati alla nostra ormai irreversibile immersione nell’era digitale. In che modo la pervasività delle tecnologie digitali che accompagnano tutti i momenti della nostra esistenza sta trasformando il nostro modo di pensare e problematizzare la realtà nella quale viviamo? “Ammaliati dalle sirene della comodità, della rapidità, della facilità di chi prima ci ha venduto le nuove tecnologie digitali e di chi poi ha venduto noi ai padroni delle tecnologie digitali, non ci siamo resi conto della posta in gioco: la perdita diffusa della nostra intelligenza intesa come capacità di comprendere, di fare inferenze, di stabilire una gerarchia di significati, di formulare concetti astratti, di elaborare una visione del mondo articolata, complessa, critica. Ma anche la perdita della nostra possibilità di incidere nel reale, con azioni in grado di produrre un cambiamento. Ovvero, della nostra libertà.” A fronte di ciò, l’Autrice annota come in Italia si sia pervicacemente deciso di depotenziare gli anticorpi necessari a fronteggiare le conseguenze di questo processo cognitivo, dopo “vent’anni di pessime riforme della scuola e dell’università e dopo il colpo di grazia della cosiddetta ‘Buona scuola’”.

Non occorre essere scienziati, esperti, studiosi o addetti ai lavori per cogliere l’incessante dilagare della realtà virtuale nella nostra vita quotidiana. Basta l’esperienza, anche banale, di una qualunque giornata-tipo: smartphone, tablet, personal computer e innumerevoli altri strumenti digitali riempiono le nostre case, i nostri luoghi di lavoro, le scuole, le università, le nostre borse, le nostre tasche. Adulti, adolescenti, bambini.

E non solo. Facciamo moltissime cose on line, 24 ore su 24, per scelta, per necessità, per obbligo. Lavoro, acquisti, prenotazioni, comunicazioni, svago, informazione, controllo, dialogo, gioco: tutto ormai avviene prevalentemente davanti a uno schermo, seduti, soli e irresistibilmente attratti da questa dimensione immateriale che coltiva la nostra onnipotenza. O fagocitati, per chi – come me – avverte il timore, piuttosto che il fascino, della dematerializzazione.

Sento molte persone, anche notevolmente istruite, affermare che non bisogna demonizzare i nuovi strumenti digitali. Che sono il frutto del progresso, delle scoperte scientifiche, dell’avanzamento della tecnologia. Che non c’è differenza con quanto accaduto nel passato, con tappe altrettanto significative dell’evoluzione culturale o della storia umana, sempre considerate da qualcuno potenzialmente temibili (anche Socrate credeva che la scrittura avrebbe distrutto le abilità mentali, rendendo gli uomini ‘portatori di opinioni, invece che sapienti’). Che questi strumenti sono forieri di importanti miglioramenti nei nostri standard di vita, che la variabile fondamentale è l’uso che se ne fa, che bisogna insegnarne un utilizzo corretto. E così via, tra innumerevoli luoghi comuni.

E io penso che McLuhan si rivolti nella tomba, continuando a riformulare invano l’idea che “il medium è il messaggio” e che dunque questa presunta, invocata neutralità dello strumento rivendicata dall’uomo comune non è mai esistita nella storia della civiltà. Mentre la vera novità, forse non ancora sufficientemente esplorata, è un’altra: la pervasività di queste tecnologie digitali, sia nella diffusione capillare dei dispositivi, ormai a disposizione fin dalla più tenera età – si calcola che oggi sei miliardi di persone hanno accesso a un telefono cellulare, mentre solo quattro miliardi e mezzo hanno accesso a un bagno funzionante – sia nell’ampliamento progressivo e illimitato delle loro possibilità di utilizzo per ogni aspetto della nostra vita e in ogni momento della nostra giornata.

Non abbiamo solo oggetti e possibilità originali, dunque, come tante volte accaduto in passato, nel mondo. Le tecnologie digitali hanno creato, per la prima volta, un ambiente ‘altro’, nuovo, virtuale, alternativo a quello reale. Una vera e propria second life, parallela e contigua alla nostra esistenza corporea, che sempre più sembra destinata a prevalere, quantitativamente e qualitativamente, sotto la spinta della potentissima molla del denaro e del potere che chi fornisce questi prodotti e gestisce questi processi può illimitatamente accumulare nel contemporaneo mondo globalizzato, derubandoci del tempo, della cultura, dell’identità, dell’attenzione, della memoria, della realtà, e spingendoci all’autoconfinamento in insignificanti ridotte narcisistiche, ove ci illudiamo di interagire col mondo mentre ci limitiamo a dare voce – ed eco – al nostro piccolo io.

Irretiti dalle ‘magnifiche sorti e progressive’ dell’infosfera – ove internauti assai ingenui credono addirittura di esercitare forme di cittadinanza democratica diretta – cediamo ogni giorno pezzi di noi a chi ne fa business e strumento di controllo: i nostri dati personali, i nostri gusti, i nostri orientamenti culturali, politici, religiosi, sessuali, le nostre simpatie, le nostre idiosincrasie, le nostre scelte individuali trasformati in Big Data e metadati, profilati da algoritmi che definiscono modelli predittivi e comportamentali su cui aziende private, istituzioni pubbliche e decisori politici gestiscono il loro oligopolio, finalizzando i loro processi decisionali, tradotti in piattaforme, al controllo economico, politico e militare – ovvero al panopticon[1] foucaultiano prossimo venturo  – mentre anche il nostro cervello, e non solo la nostra mente, sta lentamente ma inesorabilmente cambiando.

Da questo punto di vista, l’attenta lettura del libro della neuroscienziata Susan Greenfield, Cambiamento mentale. Come le nuove tecnologie stanno lasciano un’impronta sui nostri cervelli è stata davvero illuminante, a partire dal semplice assunto suggerito da Greenfield: il cervello è un organo plastico, che si modifica costantemente nell’ambiente in cui è immerso. E dunque, la domanda è:
a quali modifiche stanno andando incontro i nostri cervelli, e soprattutto quelli dei giovani, tanto più plastici e sensibili, nel nuovo ambiente in cui siamo immersi?
Il pensiero è “un movimento confinato all’interno del cervello”, come ha affermato Oleh Hornykiewicz – il medico australiano che ha sviluppato il trattamento per la malattia di Parkinson – un movimento che rispetta tempi e modi di una catena sequenziale non casuale ma lineare, capace di effettuare collegamenti logici che arrivano anche a formulare concetti e parole astratte (e qui il riferimento allo splendido La specie simbolica di Terrence Deacon è d’obbligo[2]), dunque
“se mettiamo il cervello umano, con il suo mandato evolutivo ad adattarsi all’ambiente circostante, in un ambiente dove non ci sono sequenze lineari ovvie, dove i fatti possono essere accessibili in modo casuale, dove ogni cosa è reversibile, dove la differenza tra stimolo e risposta è minimale, e, cosa più importante di tutte, dove il tempo è breve, il treno dei pensieri può deragliare”.
Aggiungiamo anche le distrazioni sensoriali di un universo fatto di suoni e immagini onnicomprensive e vivide che incoraggiano una ridotta attenzione, e il risultato è che potresti diventare tu stesso un computer: un sistema che risponde efficientemente e che processa informazioni estremamente bene, ma che è privo di un pensiero profondo”.[3]

Guardiamoci intorno, osserviamo le persone che ci circondano: all’esigenza di una diffusa e libera energia sociale, che si opponga ai processi politici in atto – a partire da scuola e università – alla necessità di un dialogo reale, dunque dialettico e in corpore vili, tra una pluralità di soggetti che si incontrano e agiscono in una dimensione autenticamente collettiva e che non siano espressione di un’eccezionale minoranza, corrisponde oggi una risposta inerte, una passività diffusa, un adattamento flebilmente critico – e più spesso compiaciutamente acritico – all’ineluttabilità dell’esistente, una inettitudine collettiva generata anche dall’inazione prolungata, dalla delega pigra con cui abbiamo sostituito la voce, il gesto, l’espressione critica con un I like cliccato su una tastiera o con un emoticon che qualcun altro ha stilizzato per noi, con un linguaggio binario povero e polarizzato, prigioniero di una sterile contrapposizione tra tesi e antitesi ma incapace di qualunque sfumatura dialettica.

Ammaliati dalle sirene della comodità, della rapidità, della facilità di chi prima ci ha venduto le nuove tecnologie digitali e di chi poi ha venduto noi ai padroni delle tecnologie digitali, non ci siamo resi conto della posta in gioco: la perdita diffusa della nostra intelligenza intesa come capacità di comprendere, di fare inferenze, di stabilire una gerarchia di significati, di formulare concetti astratti, di elaborare una visione del mondo articolata, complessa, critica. Ma anche la perdita della nostra possibilità di incidere nel reale, con azioni in grado di produrre un cambiamento. Ovvero, della nostra libertà.

I nuovi strumenti digitali modificano la nostra mente e le nostre strutture cerebrali. Isolandoci davanti a uno schermo (dove giochiamo, comunichiamo, studiamo, guardiamo film e video, ci informiamo, amoreggiamo, litighiamo, mimando nella finzione del mondo virtuale ogni perduta esperienza reale) perdiamo attaccamento e comprensione dell’altro, perdiamo affettività, perdiamo interessi, e acquisiamo di contro una rappresentazione del mondo sempre più stereotipata e standardizzata.

Ci illudiamo di sapere più cose del mondo reale, mentre “ci aggiriamo dappertutto senza fare nessuna esperienza”.[4] E soprattutto, ci spiega Greenfield, perdiamo capacità di comunicazione e riduciamo l’empatia interpersonale; costruiamo e rifiniamo le nostre identità personali in base all’approvazione di un pubblico; riduciamo la nostra capacità di attenzione e aumentiamo la disposizione verso l’aggressività e la sconsideratezza; privilegiamo un’elaborazione mentale rapida e superficiale a svantaggio di una conoscenza complessa e profonda.

Dove possiamo trovare un antidoto? Dove possiamo creare gli anticorpi per difendere l’humanitas da questo fuoco incrociato in cui il digitale in tutte le sue forme appare il perfetto coagulo dell’interesse economico, politico e militare globale? Un tempo avrei risposto, con fiducia: a scuola e all’università, sui libri, tra i banchi, nel dialogo tra studenti e con gli insegnanti, nello studio, nell’approfondimento critico, nella riflessione collettiva, nella lettura e nella scrittura.

Oggi, dopo vent’anni di pessime riforme della scuola e dell’università e dopo il colpo di grazia della cosiddetta “Buona scuola”, in cui ormai le aziende e le tecnologie digitali la fanno da padrone, in cui le ore di studio in classe sono un mero avanzo dell’alternanza scuola-lavoro, in cui tutte le discipline e l’intero processo di costruzione dei saperi è un residuo subordinato al grande inganno dell’addestramento alle professioni, in cui l’incultura dei test a risposta chiusa prevale sulla rivendicazione di un pensiero liberamente critico e non conformista, e in cui gli insegnanti si aggirano come anime morte, incapaci di opporre una qualunque forma di resistenza fosse anche passiva al processo in atto di distruzione della scuola e di trasformazione della società, ai cambiamenti indotti dall’uso del digitale e funzionali all’uso del digitale, anche l’ottimismo della volontà si arrende al pessimismo della ragione: i cervelli dei nostri ragazzi cambieranno rapidamente.

E saranno molto presto perfettamente adattati al mondo dematerializzato e post-umano – popolato da droni, robot e indistinguibili replicanti – che si sta così velocemente stagliando davanti ai nostri occhi.

[1] Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino Einaudi 1993
[2] Terrence Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di cervello e capacità linguistiche, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2001
[3] Susan Greenfield, Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli, Roma, Giovanni Fioriti Editore, 2016, p. 9
[4]  Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Bologna, Nottetempo, 2016, p. 70

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