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11/07/2017

Turchia in marcia per la giustizia


La lunga marcia kemalista ha avuto successo. Quasi un mese di tragitto a piedi, partendo dal cuore anatolico della capitale per finire con un’immensa manifestazione sul Mar di Marmara. Sulla pur decentrata spianata di Maltepe, nella Istanbul asiatica ben lontana dal centro storico, l’omino bianco leader dei repubblicani, l’alevita Kılıçdaroğlu, ha arringato non solo i propri attivisti. Ha parlato a una componente eterogenea di cittadini: senza partito, cani sciolti come i trascorsi contestatori di Gazi park, laici e comunisti. Secondo fonti governative mescolati c’erano anche militanti del Pkk e gülenisti, ma l’affermazione sembra viaggiare a metà strada fra denuncia e paranoia. Questi soggetti politici, che esistono, risultano, i primi da due anni in reciproco conflitto armato con le forze turche della repressione; i secondi da dodici mesi al centro delle purghe, attive tuttora a quattro giorni dal fatidico 15 luglio, primo anniversario d’un golpe provato e fallito. Invece il contraccolpo delle epurazioni ha portato in galera cinquantamila cittadini, ne ha emarginati centotrentamila, attuando licenziamenti, pensionamenti, spingendo a dismissioni volontarie e fughe. Di fatto il presidente Erdoğan, l’ingombrante avversario che Kılıçdaroğlu non nomina mai, non solo resiste all’interno controllando Parlamento, magistratura, forze armate e stampa, ma ha riacquisto credito internazionale e centralità nelle varie crisi mediorientali, con un’ultima mano tesa all’emiro al-Thani. Ha pure la capacità di riunire un gran numero di oppositori. I più vari.

In quest’occasione, snobbandoli, li ha fatti sfilare, controllati a vista da migliaia di poliziotti. Ciascuno nel proprio ruolo appare soddisfatto. I protestatari, partiti in sordina quindi cresciuti nelle adesioni attive, hanno realizzato una marcia gandhiana senza incidenti. Hanno mostrato la forza e il coraggio di cittadini soffocati da un anno di stato d’emergenza che cuce bocche, blocca gambe, soffocando finanche i pensieri. Questo pezzo di Turchia non è entrata nelle case dei turchi islamisti, perché emittenti e testate filogovernative non hanno acceso i riflettori sull’evento. Quel che trapela proviene da fonti esterne e social media. Il governo dell’Akp si vanta della propria tolleranza che, a suo dire, conferma una democrazia presente nel Paese con la sola negazione di detrattori, filo golpisti e terroristi. Eppure il deputato del Chp Enis Berberoğlu resta in galera. Un Tribunale gli ha affibbiato venticinque anni di reclusione per aver fornito notizie secretate al quotidiano Cumhuriyet, avrebbe potuto rischiare l’ergastolo o peggio, per tradimento e attacco alla sicurezza della nazione. Ma in galera restano in migliaia, compresi i deputati della Repubblica, fra cui un nutrito numero di onorevoli dell’Hdp, il partito filo kurdo, i cui presidenti Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, arrestati nello scorso novembre, sono accusati di terrorismo. In questi giorni Demirtaş, che poteva essere ascoltato dalla Corte, non è stato ammesso in aula perché si rifiutava di farsi ammanettare durante il tragitto dal carcere al Tribunale. Dichiarava: “Sono ancora un membro del Parlamento turco in servizio attivo con tanto d’immunità. Trovo che la pratica sia illegale e immorale”.

Taluni attivisti kurdi, che hanno partecipato alla marcia, ricordano che quando i loro leader furono arrestati, troppi democratici non si mobilitarono né proferirono parola. Non vogliono sollevare polemiche, ma ricordare che la repressione è generalizzata e distinzioni di partito diventano capziose. Nell’ordinata protesta di questi giorni sigle e simboli di parte sono stati esclusi, ci si ritrovava sotto la mezzaluna stellata della bandiera nazionale, che a certi marciatori sta stretta seppure non hanno rotto le file. Ovviamente la domanda di cosa accadrà dopo se la pongono in tanti. Dal palco l’omino dalla camicia immacolata che lanciava fiori ha definito la mobilitazione “il passo della rinascita, per rompere il muro della paura”. Eppure già il solo isolamento mediatico pesa come un macigno e difficilmente il governo, che sottolinea d’aver permesso la protesta, prenderà in esame i punti in questione. Inoltre nella sfida delle piazze, che già in altre circostanze ha visto Erdoğan ricercare con ostinazione il confronto, si prepara la manifestazione dell’orgoglio liberatorio e della fedeltà allo Stato che dovrebbe tenersi a giorni. Lì l’odierno padre putativo, che non è più l’Atatürk scongelato dai kemalisti e condotto per via quale unico simulacro, sarà il presidente stesso, rappresentato, stilizzato, fotografato e materializzato su un altro palco. I fedelissimi della Turchia erdoğaniana fremono per pareggiare l’adunata e mostrare ostinatamente una forza contraria e superiore.

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