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06/07/2017

Siria - Il 40% di Raqqa strappata all'Isis. Si incrina l'accordo di Astana

di Chiara Cruciati - il Manifesto

Nessun accordo ad Astana: il nuovo round negoziale sulla Siria si è chiuso ieri con un nulla di fatto. Russia, Turchia e Iran avrebbero dovuto definire i dettagli sul funzionamento delle zone di de-escalation su cui le tre potenze si erano accordate all’inizio di maggio.

L’accordo «va finalizzato», ha detto il capo negoziatore russo Lavrentiev. Ovvero l’intesa non è definitiva. Non lo è perché Teheran, Mosca e Ankara non riescono a decidere quali forze dovranno garantire la sicurezza e il coprifuoco nelle «zone di sicurezza» e in quelle «a bassa tensione» (o di de-escalation), una doppia separazione che tenga lontano le parti in conflitto – opposizioni e governo – e garantisca maggiore sicurezza ai civili e alla consegna degli aiuti umanitari.

Le quattro zone individuate dall’accordo di Astana del 4 maggio comprendono la provincia di Idlib (quasi del tutto controllata dai qaedisti dell’ex al-Nusra e da gruppi islamisti satellite); parti delle province di Homs, Hama, Aleppo e Latakia; Ghouta est alla periferia di Damasco e porzioni delle province di Daraa e Quneitra, al confine con la Giordania.

Tutte zone strategiche soprattutto alla luce dell’avanzata lenta ma continua delle forze governative e delle milizie sciite alleate che mettono in serio pericolo le mire del fronte anti-Assad: la creazione di zone cuscinetto ai confini nord e sud da affidare alle opposizioni affiliate alle potenze avversarie del cosiddetto asse sciita.

Tra queste c’è la Turchia a cui ieri la delegazione di Damasco presente in Kazakistan ha attribuito la responsabilità del fallimento del vertice a tre: «Il risultato è molto modesto – ha commentato Bashar al Jaafari, capo delegazione siriano – A differenza della visione positiva condivisa da tutte le parti», l’atteggiamento di Ankara è «negativo».

Mentre ad Astana si discuteva, a Raqqa infuriavano gli scontri: la «capitale» dell’autoproclamato califfato è quasi per metà in mano alle Forze Democratiche Siriane (Sdf), federazione di kurdi, arabi, assiri, turkmeni sostenuti da cielo e terra dalla coalizione a guida Usa.

Coperti dai jet statunitensi i combattenti sono riusciti a portarsi in città vecchia, oltre le linee Isis, e a strappare ai jihadisti il 40% dell’intera città: le Sdf hanno aperto due brecce nelle mura di Rafiqa, vecchie di tredici secoli.

Con la battaglia di Mosul agli sgoccioli, è Raqqa la prossima preda. Ma, a differenza della città irachena, in quella siriana gli islamisti rimasti (Washington ne stima 2.500) sono circondati.

Unica via di fuga è quella meridionale dove però scorre il fiume Eufrate, rendendo quasi impossibile una ritirata verso zone più sicure come Deir Ezzor. Gli scontri avvengono ormai casa per casa, una battaglia durissima per i circa 100mila civili ancora intrappolati, esattamente come lo è quella di Mosul.

Sullo sfondo resta la Turchia che alla battaglia di Raqqa ha apparentemente rinunciato per proseguire nella sua personale guerra alle Ypg kurde nella parte occidentale di Rojava.

Dove si segnalano le prime faide: un gruppo di opposizione affiliato ad Ankara (i kurdi anti-Pkk dei Liwa Ahfad Salahaddin, membri dell’Esercito Libero Siriano) ha denunciato la confisca delle armi consegnate in precedenza da parte delle truppe turche.

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