Nazione, Stato e imperialismo europeo
Le ragioni dello scetticismo nei confronti della nazione
La
diffidenza verso il concetto di nazione e la tendenza europeista,
entrambe diffuse in diversi settori della società italiana, sono il
prodotto della nostra storia recente e meno recente. L’imperialismo
italiano, tra gli anni ‘80 dell’Ottocento e gli anni ‘40 del Novecento,
ha fatto della nazione, nella forma ideologica estremistica del
nazionalismo, il substrato della sua politica espansionistica. Lo stato
liberale e lo stato fascista, senza alcuna soluzione di continuità tra
di loro, hanno generato una serie di guerre, dalle prime spedizioni
coloniali in Eritrea, Somalia e Libia, alla Prima guerra mondiale, alle
guerre d’Etiopia e di Spagna e, infine, alla disastrosa partecipazione
alla Seconda guerra mondiale. L’esito di questa tendenza espansionistica
è stato devastante sia per le condizioni delle masse popolari sia per
le ambizioni dell’élite capitalistica. L’Italia, precedentemente
annoverata fra le grandi potenze, subisce nel ‘43 una sconfitta
pesantissima e umiliante, che ne declassa il rango internazionale. Si è
così prodotto un diffuso rigetto verso ogni forma di nazionalismo, che
si è esteso al concetto stesso di nazione anche all’interno della
sinistra, nonostante la Resistenza contro il nazi-fascismo fosse in
primo luogo una lotta di liberazione nazionale.
Ma
le ragioni dello scetticismo nei confronti della nazione sono più
lontane e collegate allo scetticismo nei confronti dello Stato. L’Italia
fu, tra XII e XVII secolo, la culla del capitalismo e il paese centrale
del sistema economico dell’epoca, malgrado l’assenza di uno
Stato-nazione unitario o, secondo alcuni, proprio per quella ragione1.
Però, i limiti della mancanza di uno stato nazionale, che sostenesse
gli interessi del capitale italiano, finirono alla lunga per farsi
sentire negativamente. A partire dalla seconda metà del XVII secolo
l’Italia entrò in una lunga fase di decadenza economica, cedendo
l’egemonia internazionale prima ai Paesi Bassi e poi all’Inghilterra,
che si erano dotati di una forma statale nazionale ben strutturata e
poderosa. Invece, in Italia la forma statale prevalente fu prima quella
della repubblica comunale e poi quella della signoria locale o, al
massimo, regionale. Inoltre, in Italia, tra il XIV e il XV secolo si
sviluppò il Rinascimento, che, espressione delle corti delle
città-stato, ebbe un carattere culturale cosmopolita e non nazionale.
Gramsci ha dedicato molte pagine a spiegare come storicamente la
funzione degli intellettuali italiani e le stesse tradizioni culturali
siano state cosmopolite2. L’Italia è stata il centro
dell’impero più cosmopolita della storia, quello romano, e sede della
sua erede, la Chiesa cattolica, la cui dottrina è universalistica per
definizione. La presenza in Italia del potere temporale cattolico, lo
Stato della Chiesa, fu una delle cause principali del ritardo della
unità nazionale italiana, completata soltanto con la conquista militare
della Roma papalina da parte delle truppe italiane nel 1871. A seguito
di questo episodio, il Papa si confinò nel Vaticano e i cattolici si
tennero fuori dalla politica del nuovo stato unitario, entrandovi con
una loro formazione politica autonoma, il Partito popolare, soltanto nel
1919. Ma è dopo la Seconda guerra mondiale che essi, attraverso la
Democrazia cristiana, saranno per quasi mezzo secolo il perno della
politica italiana e uno dei motori della integrazione europea. Un’altra
importante causa dello scetticismo verso la nazione è collegata alle
modalità con cui si è realizzato in Italia il processo di costruzione
dello stato unitario nazionale. La direzione del movimento di
unificazione fu monopolizzata dall’espansionismo della monarchia
piemontese, e non si pose l’obiettivo del coinvolgimento delle masse,
all’epoca soprattutto contadine, nell’unico modo in cui potesse farlo,
cioè con la riforma agraria3. Alla fine, il Risorgimento fu
egemonizzato dalla élite borghese del nord, alleata con i latifondisti
del Sud, e in opposizione alle masse subalterne. Il Mezzogiorno venne
definitivamente unito al resto del Paese solo dopo una lunga guerra
contro il brigantaggio, in realtà una guerra civile, che costò
all’esercito italiano più caduti della III Guerra d’indipendenza contro
l’Austria. La sfiducia verso la nazione da parte degli italiani, che
hanno oggi, a un secolo e mezzo dall’unità, una identità culturale e
linguistica definita e omogenea forse più di quella di altri popoli
europei, rientra nel generale senso di sfiducia verso lo Stato, che, per
ragioni diverse (genuine ma anche strumentali), investe sia le classi
inferiori e subalterne sia quelle superiori e dominanti della società
italiana.
Nella
classe dominante il trauma della sconfitta della Seconda guerra
mondiale, la consapevolezza di non poter portare avanti una politica di
potenza nei nuovi rapporti di forza internazionali nonché il
peggioramento dei rapporti di forza all’interno (forte presenza di un
partito comunista e rapporti di forza sindacali e politici favorevoli
alla classe operaia) hanno generato la convinzione della insufficienza
(non certo della inutilità) dello stato nazionale e una tendenza ad
avvalersi anche di forze esterne, sovrannazionali (Nato e Ue), per
riequilibrare i rapporti di forza esterni e soprattutto interni. A tutto
ciò si aggiunge, come Marx ha fatto notare più volte, l’avversione
tradizionale della classe capitalistica per lo Stato in quanto fonte di
spese, che, dal suo punto di vista, sono faux frais, cioè spese superflue, specialmente allorché si traducono in imposte sui profitti e sulle proprietà mobiliare e immobiliare.
Infatti,
l’avversione verso le spese statali in Italia si è tradotta in una
diffusa elusione fiscale da parte delle imprese fino alla rivolta
fiscale di cui la Lega si è fatta espressione negli anni ‘90, ed è stata
particolarmente accesa, essendo motivata dalla dilatazione e dalla
corruzione della Pubblica amministrazione (Pa), giudicate come anomale
rispetto al resto d’Europa. Tale presunta anomalia è stata enfatizzata
sin dagli anni ’70, allo scopo di favorire le privatizzazioni del
welfare e delle partecipazioni statali e ridurre l’autonomia del ceto
politico ad esse legato. Inoltre, le inefficienze e la dilatazione della
Pa registrata in certe aree del Paese dipende dalla incapacità del
settore privato di generare una sufficiente occupazione, dalla mancanza
di un adeguato reddito di disoccupazione e da un divario economico tra
Nord e Mezzogiorno molto più profondo di quelli presenti negli altri
stati europei. A ciò si aggiunge il fatto che la Pa nel passato è stata
utilizzata per rafforzare la stabilità sociale e politica, mediante
l’inglobamento di alcuni settori di piccola borghesia all’interno del
blocco politico-sociale che la Democrazia cristiana e altri partiti di
governo avevano costituito in funzione anti-comunista. Ad ogni modo,
oggi, dopo anni di blocco del turn over,
gli occupati nella Pubblica amministrazione (Pa) in Italia risultano,
in assoluto e in rapporto alla popolazione, inferiori a quelli di
Francia, Germania e Spagna4.
Infine, non possiamo non ricordare, sia pure di sfuggita, che il
rigonfiamento del debito pubblico è stato dovuto non a un eccesso di
spese sociali in rapporto a quelle di altri Paesi, bensì al basso
livello di imposizione fiscale (in primis alle imprese), alle spese di
socializzazione delle perdite delle imprese private, e soprattutto, a
partire dai primi anni ‘80, alla crescita della spesa per interessi,
dovuta alla separazione tra Banca d’Italia e Tesoro, avvenuta sempre con
l’obiettivo di ridurre l’inflazione per poter ridurre i salari5.
In
ultimo, ma non per importanza, la necessità, dopo la Seconda guerra
mondiale, di un adeguato mercato di sbocco alle merci della manifattura
italiana e poi la globalizzazione negli anni ‘90 si sono aggiunte a
rafforzare, agli occhi dell’élite capitalistica italiana, l’utilità
dell’Europa e dell’integrazione economica e valutaria, che ha
trasformato o sta compiutamente trasformando le imprese maggiori da
prevalentemente nazionali a internazionali. In sintesi, l’Europa è stata
vista (o venduta così all’opinione pubblica) come un necessario fattore
esterno di costrizione all’efficientamento della Pa, alla
moderazione del bilancio e della esagerata spesa statale, che gli
italiani da soli avrebbero avuto difficoltà a realizzare. Il punto,
però, è che né l’euro né la Ue rappresentano un correttivo alle carenze
dello Stato, tantomeno in direzione del suo efficientamento e
contro la corruzione. Al contrario, l’Europa rappresenta la riduzione
degli aspetti “pubblici” e redistributivi dello stato e una
accentuazione del suo carattere di dominio di classe, al servizio dei
privati, che, anziché eliminare i vecchi sprechi e corruzioni, ne
determina di nuovi, proprio a causa dell’aumento della commistione tra
pubblico e privato a seguito delle privatizzazioni e delle
esternalizzazioni dei servizi pubblici.
Il problema dell’euro non solleva la questione della nazione ma la natura di classe dello Stato
La
questione dell’uscita dall’euro non è una questione inerente alla
difesa della nazionalità bensì inerente alla democratizzazione dello
Stato e, più precisamente, alla modificazione del rapporto tra Stato e
classi subalterne al capitale. In qualche modo, gli oppositori di
sinistra all’uscita dall’euro vengono rafforzati nelle loro convinzioni
dai cosiddetti sovranisti nazionali, che pongono l’accento sul recupero
della sovranità nazionale anziché sul recupero della sovranità popolare
o, meglio ancora, democratica. Per la verità, una certa confusione tra i
due aspetti si ingenera in modo abbastanza naturale. Infatti, visto che
il problema è rappresentato dall’esistenza di organismi sovrastatali
europei, il loro superamento implica necessariamente il ritorno allo
stato. E, dal momento che lo stato territoriale classico è quello a base
nazionale, ciò che risulta, almeno in apparenza, è che “si ritorni alla
nazione”. Ciononostante, il nodo della questione dell’uscita dall’euro
continua a non risiedere nella nazione ed è bene che lo si ribadisca.
Sarebbe facile considerare che alcuni stati europei non sono stati
nazionali nel senso puro, ad esempio la Spagna e il Belgio, che
riuniscono nazionalità diverse con lingue a volte di ceppo diverso
(castigliano, catalano e basco, oppure francese e neerlandese). Più
importante è chiederci verso chi la Ue e la Uem svolgono una funzione di
oppressione o di sfruttamento. Se, cioè svolgano una tale funzione
verso una o più nazioni, intese come l’insieme delle classi di un dato
Paese, oppure se svolgono tale funzione verso una o più classi sociali
di tali nazioni, ma non verso l’insieme delle classi ossia della
nazione.
In
effetti, in Europa non c’è una nazionalità oppressa in quanto tale.
L’azione della Uem colpisce alcune classi, che rappresentano la
maggioranza della popolazione, ma non tutte con la stessa intensità.
L’euro è diretto, in primo luogo, a neutralizzare la capacità di
resistenza della classe salariata, in particolare di quella direttamente
impiegata dal capitale (soprattutto nella manifattura), che subisce la
deflazione salariale come conseguenza dei tassi di cambio fissi. Certi
settori stipendiati o salariati ne sono colpiti di meno o meno
direttamente, ad esempio il lavoro salariato non dipendente dal
capitale. Tuttavia, anche il settore pubblico ha subito, attraverso il
blocco dei contratti e del turn over,
conseguenze negative dall’austerity europea. Secondariamente tende a
colpire anche alcuni settori piccolo-borghesi intermedi, nel commercio e
nell’artigianato, e persino settori di imprese capitalistiche, quelle
piccole e medie, che non riescono a inserirsi nelle catene
internazionali del valore, dominate dalla grande impresa globalizzata, e
sono state penalizzate dal crollo del mercato domestico a seguito di
deflazione salariale e austerity. Invece, i grandi e medi rentier
generalmente beneficiano dell’euro. Soprattutto, per lo strato
capitalistico di vertice, le grandi imprese industriali e le banche
internazionalizzate, l’introduzione dell’euro ha rappresentato un
vantaggio enorme. Alcuni hanno posto in rilievo, giustamente, il ruolo
egemone della Germania in Europa e i benefici che, come Paese, ha
ricavato dall’euro. Tuttavia, per quanto la Germania abbia beneficiato
dell’euro, non è possibile parlare di oppressione nazionale di questo
Paese sugli altri. I benefici dell’euro si estendono, anche se non in
modo uniforme, a tutta l’élite capitalistica europea, anche a quelle dei
Paesi cosiddetti periferici. In Italia, sebbene in un contesto di
contrazione non solo del Pil ma soprattutto della base produttiva
manifatturiera, il margine operativo lordo delle imprese manifatturiere
esportatrici è cresciuto e, in rapporto al fatturato, risulta superiore a
quello di Germania e Francia6.
Del resto, come ho avuto occasione di far notare altrove,
l’integrazione valutaria rende più facile l’azione di quelli che Marx
chiama i fattori antagonistici alla caduta del saggio di profitto
(riduzione del salario, esportazioni di merci e capitale, concentrazione
delle imprese, ecc.)7.
Infatti, non è un caso che tra le classi dominanti di Spagna, Francia e
Italia le posizioni a favore di una uscita dall’euro non trovano
udienza presso i media controllati dalle élite economiche “nazionali”.
Ad esempio, il confindustriale Sole24ore, per quanto ospiti interventi
critici verso gli “eccessi” rigoristici tedeschi, contrasta decisamente
ogni ipotesi di fine dell’euro come fosse una catastrofe.
In
ogni caso, le imposizioni della Uem non sono dirette contro
l’autoderminazione “nazionale”, in quanto gli stati nazione non sono
aboliti. Per la verità alcune loro attribuzioni sono state rafforzate e
lo sono state proprio in funzione nazionale. Sono solo alcune
attribuzioni il cui controllo è delegato, mediante i trattati
europei (Fiscal compact, Six e Two pack),
alla Ue o alla Uem. Infatti, la questione di fondo è che a essere
indebolito non è il carattere di classe dello stato, inteso come
perseguimento degli interessi specifici del capitale che ha base o opera
in quel dato territorio. Anzi, tale carattere, per quanto possa
sembrare paradossale, si rafforza e, del resto, né la Ue né la Uem
assomigliano neanche lontanamente a uno stato in senso compiuto. A
questo punto, però, è necessario fare un passo indietro e chiederci: che
cos’è, nella sua essenza, lo Stato? La definizione più diffusa è quella
data da Max Weber: lo stato coincide con il monopolio dell’uso della
forza entro i confini di una certa area geografica. Quindi, organismi
statali per eccellenza sono quelli preposti a tale monopolio: Forze
Armate, polizia, magistratura e il loro apparato immateriale di leggi e
materiale di armamenti, caserme, tribunali, prigioni, ecc. Marx ed
Engels aggiunsero a tale definizione che il monopolio della forza è
esercitato in difesa dei rapporti di produzione dominanti. Pertanto, lo
Stato, dal punto di vista di classe, non è mai neutrale, compreso quello
formalmente più democratico, essendo sempre l’organismo della classe
dominante. Nella società divisa in classi, lo Stato rappresenta, per
usare le parole di Marx “la violenza concentrata e organizzata della
società”8.
Tuttavia, Marx ed Engels dissero anche altro: lo Stato non è solo
oppressione mediante la forza fisica di una classe sulle altre ma anche
mediazione tra le classi, per evitare che la lotta tra di esse giunga
fino al punto di far collassare l’intero edificio sociale. In tal senso,
sempre secondo Marx e Engels, la repubblica democratica rappresenta
l’involucro migliore per l’esercizio del potere borghese9.
Con il tempo, sia per l’evolversi di tale mediazione sia per
l’evolversi e il rendersi più complessa dell’economia e della società,
nuove funzioni si sono aggiunte alla macchina dello Stato, creando,
accanto a Forze Armate e corpi di polizia permanenti e professionali,
enormi apparati burocratici e amministrativi. Ma la combinazione dei due
aspetti, forza e mediazione, è sempre centrale. L’analisi di tale
dialettica fu approfondita da Lenin e da Gramsci, nel concetto di
egemonia, e poi da altri come Althusser e Poulantzas10.
Chi studia oggi Gramsci dovrebbe porsi la questione di attualizzare i
suoi insegnamenti e mettere in pratica il suo metodo, che oggi non può
prescindere dall’analisi della forma dei sistemi politico-istituzionali e
di riproduzione del consenso, nel quadro della globalizzazione,
dell’ideologia del cosmopolitismo e, in Europa, dell’integrazione
economica e valutaria. Quindi, la forma che lo Stato assume è decisiva,
perché la forma non è un mero involucro bensì un principio di
organizzazione dei rapporti sociali. Detto più chiaramente, la forma che
lo stato assume definisce i rapporti e le modalità di mediazione tra le
classi vigenti in un certo periodo storico.
Dopo
la seconda guerra mondiale, la sconfitta militare del fascismo e della
classe dominante italiana e il protagonismo dei partiti legati alla
classe operaia avevano modificato i rapporti di forza, che furono
cristallizzati, in Italia (e nel resto dell’Europa occidentale), in una
nuova Costituzione antifascista e nella definizione di una forma di
stato repubblicana e democratico-parlamentare. Lo stato non aveva perso
il suo carattere di classe ma la forma che assumeva garantiva alla
classe lavoratrice un terreno di lotta più favorevole. Con gli anni, il
confronto competitivo con l’Urss e le lotte di classe interne, combinate
con una fase espansiva del capitalismo, portarono all’allargamento
della democrazia e del welfare. Il grande capitale, però, non poteva
accettare i nuovi rapporti di forza a lungo, soprattutto quando si
ripresentò la caduta del saggio di profitto con la prima grande crisi
strutturale del ’74-’75. Da allora, infatti, i think tank
e le organizzazioni dell’élite del capitale occidentale, come la
Trilaterale, cominciarono a riflettere su come ridurre l’“eccesso di
democrazia” che ormai, dal punto di vista delle classi dominanti,
affliggeva gli stati europei11.
Bisognava modificare i rapporti di forza e, per farlo, bisognava
neutralizzare le Costituzioni e subordinare il Parlamento, eletto con un
sistema elettorale proporzionale puro e presidiato da partiti di massa e
organizzati, al governo, che era più facilmente influenzabile dalla
classe dominante. La controffensiva neoliberista cui si assiste in tutto
il mondo capitalistico avanzato dall’inizio degli anni ‘80 si basava,
sul piano politico, su questa strategia. In Italia, si ricorse alla
modifica in senso maggioritario delle leggi elettorali e, anche grazie
all’operazione “mani pulite”, alla modificazione/distruzione dei partiti
di massa tradizionali, cercando di adottare il sistema bipartitico
anglosassone. In tale sistema i due partiti principali agiscono sui temi
di fondo in base al cosiddetto bipartisan consensus,
cioè come ali di uno stesso partito, impedendo qualunque alternativa
reale. Ma fu l’integrazione europea e in particolare l’introduzione
dell’euro a fornire lo strumento decisivo per ribaltare i rapporti di
forza. Il Parlamento, in questo modo, viene bypassato dagli organismi
sovrastatali e i meccanismi oggettivi dell’euro costringono alla
disciplina di bilancio e alla compressione dei salari, permettendo
l’imposizione di controriforme (come quella delle pensioni della
Fornero) che in condizioni diverse non sarebbero mai passate. In questa
trasformazione, a essere rafforzati sono gli esecutivi nazionali, che,
infatti, sono le uniche istituzioni statali ad avere un ruolo diretto
negli organismi sovrastatali europei, affermando così quel principio di
“governabilità”, ovvero la libertà dell’esecutivo di agire senza essere
vincolato dagli altri poteri dello Stato, tanto auspicato dal capitale
dagli anni ’70 a oggi. Come ha ben spiegato Agamben e come abbiamo visto
con il commissariamento europeo dell’Italia, all’epoca del governo di
Mario Monti, tale trasformazione si è realizzata, evocando lo stato di
emergenza o di “eccezione”, sotto il ricatto del default e dello spread.
Col tempo si è così passati da un sistema parlamentare, basato sulla centralità del Parlamento, a un sistema di fatto (anche se non formalmente) governamentale,
cioè basato sulla centralità dell’esecutivo e, all’interno di esso, del
premier, il quale governa con un uso massiccio della decretazione
d’urgenza (decreti legge)12.
Considerando, però, che, attraverso l’esecutivo, il potere politico è
influenzato più direttamente dalle élite capitalistiche, possiamo
definire la nuova forma di governo, forse più precisamente malgrado
l’ossimoro, come democratico-oligarchica.
Dunque,
non assistiamo all’indebolimento dello stato nazionale. Viceversa,
assistiamo al rafforzamento del carattere di classe borghese dello
stato. La “governabilità” è il prodotto dello spostamento di certe
decisioni a livello europeo e della subalternità ai meccanismi
dell’euro, ma anche delle modifiche intervenute a livello
statuale-nazionale. Infatti, mentre alcune funzioni sono delegate a
organismi esterni, altre funzioni decisive non solo rimangono monopolio
dello stato nazionale, ma vengono rafforzate e adattate alle esigenze
delle imprese maggiori. Negli ultimi anni gli apparati burocratici,
polizieschi e militari degli stati europei occidentali non solo si sono
rafforzati, ma, per quanto riguarda le Forze Armate, hanno assunto un
ruolo sempre più interventistico all’estero. Del resto, le Costituzioni
antifasciste europee sono state bypassate o modificate non solamente sul
piano dei meccanismi di governo e sul piano economico, in particolare
su quello del bilancio pubblico (introduzione dell’articolo 81
sull’obbligo del paraggio di bilancio). Lo sono state anche sul piano
dell’uso della guerra come strumento di politica internazionale,
soprattutto in Italia, ma anche negli altri Paesi sconfitti della
Seconda guerra mondiale, Germania e Giappone. L’aspetto del monopolio
della forza, che, come abbiamo visto, caratterizza lo Stato nazionale,
non solo non è messo in comune, ma viene esercitato, seppure non nella
forma di scontro armato diretto, in modo funzionale a una competizione
tra Stati nazionali e tra capitali. Esempio lampante ne è l’aggressione
contro la Libia, che è stata voluta e preparata dalla Francia non solo
contro Gheddafi ma indirettamente anche contro l’Italia, con lo scopo di
sostituire le sue imprese a quelle italiane nello sfruttamento dei
ricchi appalti e delle ampie risorse petrolifere. Del resto, la vicenda
libica è solo l’ultimo episodio di una secolare competizione tra Italia e
Francia in quell’area del Mediterraneo, che è proseguita anche in
epoche più recenti, dando luogo a più di una guerra per procura13.
Eppure, l’Italia e la Francia fanno parte della Ue e della Uem. Anzi,
sono proprio l’euro e l’austerity a accentuare le tendenze
imperialistiche e la competizione inter-imperialistica, già innescate
dalla sovraccumulazione e dalla conseguente caduta del saggio di
profitto. Infatti, l’integrazione europea comprime i salari reali e la
domanda interna riducendo i mercati domestici europei. Ciò accentua la
contrazione della base produttiva domestica, rafforzando la spinta
espansionistica all’estero, per la conquista di sbocchi alle merci e ai
capitali eccedenti, oltre che di materie prime a basso costo.
L’espansione economica estera è sostenuta, come nel passato, dal potere
statale, con la diplomazia, gli incentivi economici e lo strumento
militare. Quindi, con strumenti statali e nazionali.
Oggi,
non esiste alcun esercito europeo né l’Europa interviene militarmente,
in quanto Europa, in nessun luogo, se si eccettuano le missioni di
scarso rilievo e importanza di Eufor. Se stati europei intervengono
insieme lo fanno come singoli stati sovrani, su mandato Onu o
all’interno di alleanze, con o senza il cappello Nato, che sono quasi
sempre a egemonia Usa. Né esistono una polizia e tantomeno una
intelligence europea. Del resto, la Ue non è capace di esprimere una sua
vera politica estera, che senza Forze Armate europee non avrebbe senso.
Gli stati nazionali sono gelosi custodi di queste funzioni, peraltro
non accessorie ma decisive e caratterizzanti la sovranità statale o
nazionale che dir si voglia. Persino su altre tematiche, ad esempio
sull’immigrazione, come si è visto recentemente, l’Europa è tutt’altro
che prevalente sugli stati nazionali. Gli aspetti sui quali l’Europa è
nettamente prevalente sul livello statale sono quelli relativi al
bilancio pubblico e alla emissione valutaria. Soprattutto sono la moneta
unica, proprio per il suo carattere di meccanismo “neutro”, e la Bce,
per il suo carattere sovranazionale, a collocarsi al di sopra dello
stato nazionale. La Bce, infatti, è autonoma dai poteri statali e i
governi esercitano su di essa un’influenza limitata: persino il governo
più potente, quello tedesco, ne condiziona solo fino a un certo punto le
decisioni. In conclusione la Ue e la Uem sono molto lontane dall’essere
organizzazioni statuali o sovranazionali in senso proprio. Sono
organismi intergovernativi,
dal momento che le decisioni sono prese da organismi cui partecipano i
capi di governo (Consiglio europeo) e i loro ministri (Consiglio
dell’Unione europea), specie quelli economici e finanziari. Anche le
nomine all’interno della Bce sono frutto di mediazioni e negoziazioni
tra i governi europei, che comunque non sopiscono le contraddizioni tra
stati, di cui è stata manifestazione il costante contrapporsi tra Draghi
e il ministro delle finanze e la banca centrale della Germania. La
Commissione europea è tutt’altro che un governo europeo e anzi la
tendenza è a diminuirne la forza, se dobbiamo interpretare la proposta
tedesca di trasformare l’Esfm14
in una sorta di Fondo monetario europeo, come un modo per ridurre
l’influenza della Commissione nelle decisioni su come affrontare il
debito pubblico dei Paesi europei maggiormente in difficoltà.
Esiste un imperialismo europeo?
Questo
è lo stato dell’arte. Bisogna, però, cercare di capire come la
situazione evolverà o, almeno, quali sono le principali prospettive
evolutive. Una prospettiva si identifica con la tendenza verso la più o
meno rapida disgregazione della Uem, a seguito dell’accentuazione della
divergenza economica tra la Germania, da una parte, e gli altri Paesi,
soprattutto Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia. Ma anche a
seguito delle pessime performance della Uem rispetto alle altre economie
avanzate mondiali, e a seguito delle difficoltà a gestire in modo
unitario le varie problematiche, a partire dall’immigrazione. La seconda
prospettiva è quella auspicata da molti governi, soprattutto da quelli
dei Paesi più in difficoltà, che ritengono che la soluzione ai problemi
dell’Europa sia più Europa, cioè la prosecuzione della integrazione
europea, verso una maggiore centralizzazione sul piano economico, sul
piano militare e della politica estera. Questa strategia, che trae nuove
speranze dalla elezione di Macron, punta sulla capacità, specie
francese, di imbrigliare la Germania in un rinnovato asse
franco-tedesco, e sembrerebbe aver trovato una sponda involontaria in
Trump. Al vertice del G7 di maggio si è determinata una spaccatura tra
il presidente Trump e i governi europei a causa del disavanzo
commerciale statunitense nei confronti della Ue e in particolare della
Germania e del ridotto contributo europeo al budget della Nato. La
risposta di Angela Merkel agli attacchi di Trump è stata tale (“Noi
europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani”) che
alcuni vi hanno visto una storica rottura con l’alleato atlantico,
interpretandola come il possibile avvio di un processo di
autonomizzazione europeo. In realtà, Europa occidentale e Usa sono così
integrate, sul piano economico, politico e militare, che risulta
difficile parlare di rottura, almeno in un periodo breve. Se ci
limitiamo al piano statale per eccellenza, quello militare, basti
pensare alla diffusa presenza di basi militari americane in tutto il
territorio europeo occidentale, dall’Italia alla Germania. Inoltre, una
Europa militarmente autonoma dagli Usa presupporrebbe una sua capacità
di dissuasione nucleare, il cui raggiungimento non sembra realistico,
anche considerando l’uso della force de frappe francese.
Senza parlare della capacità di intervenire “fuori area” con adeguate
forze aeronavali, che in Europa, specie dopo la defezione britannica,
sono al momento risibili in confronto a quelle degli statunitensi. La
Germania sarebbe disposta a stornare ingenti risorse economiche,
cambiando modello economico, per dotarsi e dotare l’Europa di forze
armate adeguate a un ruolo mondiale?
Come
ho avuto occasione di scrivere altrove, gli attacchi di Trump, più che a
scassare la Nato e a rompere con gli europei, sembrano orientati a
porre un freno al neomercantilismo tedesco, che è ritenuto non solo
foriero di pericolosi squilibri della bilancia delle partite correnti
Usa, ma anche un fattore di rallentamento al contrasto della crisi
globale, all’interno della quale va collocato anche l’aumento della
spesa militare15. Il punto è che oggi in Europa (e
all’interno del contesto mondiale) non esistono le condizioni per una
vera unità sovrastatale, né di tipo federale e neanche di tipo
confederale. Le divisioni sono molto forti e i meccanismi di
funzionamento dell’euro, che nessuno sembra intenzionato a modificare,
anziché favorire un'unificazione statuale, la rendono ancora più
problematica. Del resto, la creazione di eventuali Stati Uniti d’Europa,
per quanto a nostro parere poco probabili, per lo meno in questa fase
storica, non sarebbero un risultato di cui essere contenti. Nelle
condizioni e con i rapporti di forza attuali, essi sarebbero
egemonizzati dal capitale europeo e rappresenterebbero lo strumento più
potente per l’affermazione dei suoi interessi e per l’esercizio della
violenza concentrata e organizzata nelle sue mani.
Tutto
ciò ci porta a porci una ulteriore questione: esiste un imperialismo
europeo o ne esistono le basi per il suo sviluppo? O meglio: esiste un
imperialismo europeo autonomo e unitario che sia qualcosa di più della
somma dei vari imperialismi dei Paesi europei? La sua esistenza
presupporrebbe due condizioni: l’esistenza di un capitale unitario con
interessi convergenti, per quanto i capitali possano essere unitari e
avere interessi convergenti in un contesto capitalistico di concorrenza,
e l’esistenza di uno stato unitario. In effetti, la definizione
di “fratelli nemici” affibbiata da Marx ai capitalisti si
attaglia piuttosto bene a quelli europei. Certamente è vero che i Paesi
imperialisti europei, a parte l’unità da bravi fratelli contro i
salariati europei, possono convergere e agire unitariamente in altre
occasioni internazionali. Sul piano commerciale e economico rispetto
all’Europa orientale e, oggi, nei confronti degli Usa, c’è una certa
convergenza. Ma in generale in queste e in altre occasioni gli interessi
a un certo punto diventano divergenti e spesso i capitali e gli stati
europei agiscono da fratelli nemici in concorrenza tra loro. Resta,
infatti, da vedere quanto alcuni stati si sentano tutelati in una Europa
finalmente unita e egemonizzata da una Germania, economicamente
ingombrante e molto vicina, che non sia controbilanciata dagli Usa,
potenti ma lontani. Sarebbe sorprendente vedere le élite capitalistiche e
politiche (e culturali) italiane sganciarsi dagli Usa, cui sono legate
da più di 70 anni di relazioni, per aderire a un blocco egemonizzato
dalla Germania (o anche da un asse franco-tedesco), esperienza peraltro
già sperimentata poco positivamente nella Seconda guerra mondiale.
E
non si tratta solo del piano militare, anche su quello commerciale gli
interessi della Germania, ad esempio nel modo di rapportarsi con i dazi
da imporre alle importazioni cinesi, sono in contrasto, ad esempio, con
quelli italiani. La storia europea del Novecento e dei secoli precedenti
– almeno a partire dal XVI secolo – è una storia di lotte degli stati
europei occidentali, magari con l’aiuto di un alleato esterno (Impero
ottomano, Russia e Usa), contro qualunque stato continentale (Spagna,
Francia, Germania) abbia voluto di volta in volta imporsi come potenza
egemone. La rottura del balance of power, seguente al tentativo egemonico,
è stata sempre prodromica al conflitto continentale, dalla guerra dei
Trent’anni alla Seconda guerra mondiale. Appare poco probabile che si
affermi una tendenza opposta, almeno in questa fase, visto che siamo in
assenza di un processo di maggiore unificazione e che anzi ci sono molte
tendenze centrifughe, a fronte di un allargamento delle divergenze
economiche e della conflittualità tra Paesi europei. E questo vale anche
e soprattutto per la Francia, che pure dovrebbe essere l’altro lato di un
ricostituito asse franco-tedesco su cui rifondare l’Europa. I
transalpini, infatti, hanno subito più dell’Italia le conseguenze
dell’aggressività economica della Germania, registrando in Europa forse
la decadenza politica e economica relativa maggiore, rispetto a quello
che ancora all’epoca di Mitterand appariva come un partner di
pari peso. E comunque, la mancanza di uno stato unitario, di una
politica estera, di forze armate e di polizia europee sono un limite
pesante, per la cui realizzazione non mi pare ci siano le condizioni,
tantomeno in tempi storicamente brevi. Quindi, è difficile dire che
esista oggi un imperialismo europeo in grado di porsi come polo
imperialista autonomo o che esistano le basi perché si realizzi in tempi
storicamente brevi. Più probabile, invece, è la possibilità di
realizzare alleanze o forme di integrazione militare o di politica
estera a geometria variabile, specie tra la Germania e i suoi satelliti
(Olanda, Austria, Romania), come in effetti sembra stia accadendo.
L’impedimento
maggiore è proprio l’indisponibilità della Germania a essere vincolata
in una struttura politicamente più centralizzata, dove gli altri stati,
la Francia essenzialmente e, in misura minore, l’Italia e la Spagna,
conterebbero maggiormente e, soprattutto, la costringerebbero a
rinunciare a una parte dei suoi vantaggi competitivi e benefici
economici. La crisi del capitale non fa sconti a nessuno e la riduzione
della profittabilità degli investimenti e delle quote di commercio
mondiale non sono il migliore stimolo a dividere in modo concorde le
prede con gli altri concorrenti, specie se sono meno forti. Per il
momento l’unico dato certo che va registrato è l’aumento delle
contraddizioni tra capitali e tra stati a tutti i livelli, all’interno
dell’asse atlantico e all’interno della Ue che a cascata si estendono
alle varie aree di influenza, dal Medio Oriente all’Africa, all’Asia
orientale. Ne consegue la necessità di seguire con attenzione
l’evoluzione di queste contraddizioni per capirne gli esiti futuri e le
implicazioni pratiche per le politiche delle classi subalterne, che,
sulla base di quanto detto fino a qui, devono ruotare attorno al
contrasto alla Ue e alla eliminazione della integrazione valutaria.
Note
1. Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, 2003.
2. Antonio Gramsci, Intellettuali italiani all’estero, in (a cura di) Giovanni Urbani, “La formazione dell’uomo”, Editori Riuniti, Roma 1974. Antonio Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, e Direzione politico-militare del moto, in A. Gramsci, “Quaderno 19 Risorgimento italiano”, Einaudi, Torino 1977.
3. A. Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, Ibidem.
4. Aa. Vv., Una proposta contro la crisi, un milione di addetti nella Pa, Economia e politica, 11 maggio 2017. http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/una-proposta-contro-la-crisi-un-milione-di-addetti-nella-p-a/
5. Domenico Moro, Le vere cause del debito pubblico italiano, in Keynes blog, 31 agosto 2012. https://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/
6. Nelle imprese della manifattura il Mol (margine operativo lordo) sul fatturato delle imprese italiane al di sopra del livello di piccola impresa è superiore a quello tedesco. In particolare in quella al di sopra dei 250 addetti, tra 2008 e 2014, passa dal 5,8 al 6,9%, quello della Germania passa dal 5,6 al 6,3%. Eurostat, Industry by employment size class (Nace rev. 2 B-E).
7. Domenico Moro, Perché e come l’euro va eliminato, 14 aprile 2014.https://www.sinistrainrete.info/europa/3598-domenico-moro-perche-e-come-leuro-va-eliminato.html.
8. Karl Marx, Il capitale, Libro I, La genesi del capitalista.
9. Friedrich Engels, L’Origine della Famiglia, della proprietà privata e dello stato.
10. Nicos Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979.
11. “Eccesso di democrazia” è il termine utilizzato da Crozier e Huntington in The crisis of democracy, il rapporto della commissione Trilaterale del 1975. Su questo e sul ruolo dell’integrazione europea nel contrasto all’eccesso di democrazia vedi Domenico Moro, Il gruppo Bilderberg, L’élite del potere mondiale, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.
12. Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
13. Domenico Moro, La Terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
14. Meccanismo di stabilizzazione finanziaria europea. Si tratta di un programma, gestito dalla Commissione europea, che recupera fondi sui mercati finanziari per aiutare gli stati in difficoltà, usando come collaterale il budget europeo.
15. Domenico Moro, Trump risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione, Sinistra in rete https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/8531-domenico-moro-trump-risposta-alla-crisi-secolare-e-apertura-della-seconda-fase-della-globalizzazione.html
1. Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, 2003.
2. Antonio Gramsci, Intellettuali italiani all’estero, in (a cura di) Giovanni Urbani, “La formazione dell’uomo”, Editori Riuniti, Roma 1974. Antonio Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, e Direzione politico-militare del moto, in A. Gramsci, “Quaderno 19 Risorgimento italiano”, Einaudi, Torino 1977.
3. A. Gramsci, Interpretazioni del Risorgimento, Ibidem.
4. Aa. Vv., Una proposta contro la crisi, un milione di addetti nella Pa, Economia e politica, 11 maggio 2017. http://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/una-proposta-contro-la-crisi-un-milione-di-addetti-nella-p-a/
5. Domenico Moro, Le vere cause del debito pubblico italiano, in Keynes blog, 31 agosto 2012. https://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/
6. Nelle imprese della manifattura il Mol (margine operativo lordo) sul fatturato delle imprese italiane al di sopra del livello di piccola impresa è superiore a quello tedesco. In particolare in quella al di sopra dei 250 addetti, tra 2008 e 2014, passa dal 5,8 al 6,9%, quello della Germania passa dal 5,6 al 6,3%. Eurostat, Industry by employment size class (Nace rev. 2 B-E).
7. Domenico Moro, Perché e come l’euro va eliminato, 14 aprile 2014.https://www.sinistrainrete.info/europa/3598-domenico-moro-perche-e-come-leuro-va-eliminato.html.
8. Karl Marx, Il capitale, Libro I, La genesi del capitalista.
9. Friedrich Engels, L’Origine della Famiglia, della proprietà privata e dello stato.
10. Nicos Poulantzas, Il potere nella società contemporanea, Editori Riuniti, Roma 1979.
11. “Eccesso di democrazia” è il termine utilizzato da Crozier e Huntington in The crisis of democracy, il rapporto della commissione Trilaterale del 1975. Su questo e sul ruolo dell’integrazione europea nel contrasto all’eccesso di democrazia vedi Domenico Moro, Il gruppo Bilderberg, L’élite del potere mondiale, Imprimatur, Reggio Emilia 2014.
12. Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
13. Domenico Moro, La Terza guerra mondiale e il fondamentalismo islamico, Imprimatur, Reggio Emilia 2016.
14. Meccanismo di stabilizzazione finanziaria europea. Si tratta di un programma, gestito dalla Commissione europea, che recupera fondi sui mercati finanziari per aiutare gli stati in difficoltà, usando come collaterale il budget europeo.
15. Domenico Moro, Trump risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione, Sinistra in rete https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/8531-domenico-moro-trump-risposta-alla-crisi-secolare-e-apertura-della-seconda-fase-della-globalizzazione.html
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