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19/06/2017

Ripartono i bastimenti... Il boom delle rimesse degli emigrati italiani

Dettagli economici, forse. Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. La notizia che ha attirato Federico Fubini, editorialista de Il Corriere della Sera, è di quelle che costringono a pensare: gli italiani emigrati all’estero mandano in Italia le “rimesse”, esattamente come fanno i migranti in Italia da altri paesi. Solo che la cifra complessiva risparmiata e mandata in Italia è arrivata a pesare per lo 0,5% del prodotto interno lordo (Pil). La stessa percentuale registrata nel 1878. Altro che correre verso il futuro...

I nostri connazionali migranti sono “migranti economici”, proprio come quelli che qualsiasi governante dabbene dice di non voler accettare se provenienti – qui – da altri paesi sfortunati. Erano in questa categoria i due ragazzi morti nella Grenfell Tower di Londra, neoarchitetti laureati con 110 e lode che qui in Italia avevano ricevuto al massimo offerte di stage a 300 euro al mese. Meno di una badante o una baby sitter...

La riflessione che occorre fare è ben più drastica e dolorosa di quella un po’ tronfia del Corriere (“Abbiamo ripreso a mandare soldi a casa, ma non siamo più gente da pane e cioccolata. Produciamo raffinati cervelli in fuga, ma un po’ si sacrificano per la famiglia come i loro progenitori”). Perché la dimensione del flusso migratorio e l’entità delle rimesse rimandate a casa certificano una situazione sociale disperante: si va a lavorare all’estero per aiutare i familiari a sopravvivere qui. Altro che “farsi una posizione altrove”, insomma. C’è anche quella, naturalmente, e soprattutto nelle professionalità di tipo più elevato. Ma quelli che mandano i soldi a casa, togliendoseli letteralmente dalla bocca, sono andati via esattamente come i nonni e bisnonni che andavano a cercar fortuna in America o nelle miniere di Germania e Belgio.

Il fatto che la maggioranza di questi migranti nostrani venga dal Nord e dalle aree più sviluppate certifica anche la distruzione di un vastissimo tessuto produttivo. Cosa sta a fare qui un chimico o un ingegnere, se le fabbriche chiudono, vengono delocalizzate in paesi a più basso costo del lavoro, oppure svendute a multinazionali interessate solo al marchio e al know how? Il degrado scientificamente programmato di scuola e università segue o fiancheggia l’identica tendenza, asfissiando la capacità stessa del paese di riprodurre – con il sapere – se stesso, una complessità sociale avanzata, una “civiltà” costruita nei secoli.

Questi dati sulle rimesse, insomma – oltretutto stimati per difetto, perché molti emigrati hanno mantenuto la residenza in Italia (“Nel 2014 per esempio l’ufficio statistico della Germania ha contato in arrivo dall’Italia oltre il quadruplo degli italiani che secondo l’Istat, l’autorità statistica di Roma, erano partiti per la Repubblica federale quell’anno. All’Italia ne risultavano 17 mila, alla Germania 84 mila”) – dovrebbero essere presi per quello che sono: una sirena d’allarme a diecimila decibel.

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Italiani all’estero, i loro redditi valgono quasi mezzo punto di Pil

Le rimesse dall’estero pesano sul prodotto interno lordo come nel 1878. Dal 2011 l’aumento è stato di 2,3 miliardi a quota 7,2 miliardi. I nuovi emigranti vengono molto più dal Nord che dal Sud, dalle città e dalle aree ad alta densità di laureati

Federico Fubini

Ogni coincidenza dev’essere senz’altro casuale – ma fa riflettere – se l’Italia per certi aspetti sembra tornata al 1878. Agostino Depretis fu primo ministro in quell’anno di un Paese quantitativamente pari a metà di quello di oggi: lo abitavano poco meno di trenta milioni di persone, contro gli oltre sessanta milioni del 2016; lo lasciavano poco più di 50 mila italiani per cercare fortuna all’estero, contro i 115 mila che ufficialmente hanno compiuto lo stesso passo nel 2016.

In un dettaglio però l’Italia di quasi 140 anni fa e quella attuale si somigliano in modo sorprendente: l’importanza del denaro guadagnato dai suoi cittadini all’estero e portato in patria per garantire il tenore di vita delle famiglie. Quelle somme valevano mezzo punto percentuale del Prodotto interno lordo nel 1878, secondo le stime più accettate, e sono tornate a pesare lo stesso rispetto al reddito nazionale l’anno scorso. Noi italiani non assomigliamo più ai nostri nonni, bisnonni o prozii con le valigie di cartone o i visti laboriosamente ottenuti dopo infinite umiliazioni burocratiche. Non assomigliamo più neppure alla generazione dei nostri padri e alla loro sarcastica e dolorante epopea da pane e cioccolato. Ma siamo tornati a mandare soldi a casa. Neanche pochi.

Il confronto

La sorpresa salta fuori nelle pieghe della bilancia dei pagamenti così come viene declinata negli annessi alla Relazione annuale sul 2016 appena pubblicata dalla Banca d’Italia. L’anno scorso gli italiani hanno guadagnato all’estero e portato a casa 7,2 miliardi di euro. Appena meno di mezzo punto del Prodotto interno lordo, esattamente come nel 1878. Lo hanno fatto, come allora, in grandissima parte come lavoratori dipendenti. Le differenze è che oggi questa tendenza rivela non solo il disagio economico delle famiglie d’origine, ma anche quanto sia entrata nel sangue degli italiani l’integrazione economica internazionale che va sotto il nome di globalizzazione. Un’occhiata ai dati della bilancia dei pagamenti mostra infatti due flussi paralleli di guadagni all’estero, che gli italiani portano o mandano ai loro congiunti in patria. Il flusso più tradizionale riguarda le rimesse, ovvero i soldi guadagnati all’estero e poi spediti in Italia. Dopo quattro decenni di declino, esse risultano in notevole aumento benché pur sempre in dimensioni contenute.

Le rimesse dei migranti dall’estero verso l’Italia valevano 228 milioni di euro nel 2004 e 478 milioni nel 2011, nel pieno della Grande recessione. Poi nel 2015 e l’anno scorso questa voce della bilancia dei pagamenti è cresciuta a quota 646 milioni di euro, quasi triplicata in poco più di dieci anni.

Era prevedibile, dato che l’emigrazione ufficiale degli italiani verso l’estero è più che raddoppiata dalle 50 mila persone l’anno durante il ventennio chiuso nel 2009, fino ai 115 mila del 2016. Il flusso risulterebbe del resto molto più robusto, se si potessero contare con precisione coloro che lasciano l’Italia per Amburgo, Londra o Zurigo ma non compaiono nelle statistiche perché non cancellano la residenza nei Comuni di provenienza. Nel 2014 per esempio l’ufficio statistico della Germania ha contato in arrivo dall’Italia oltre il quadruplo degli italiani che secondo l’Istat, l’autorità statistica di Roma, erano partiti per la Repubblica federale quell’anno. All’Italia ne risultavano 17 mila, alla Germania 84 mila.

Le famiglie

Viste le dimensioni, queste rimesse di tipo tradizionale probabilmente integrano il reddito di circa 50 o 60 mila famiglie per poche migliaia di euro l’anno. Impossibile dire dove vivano i beneficiari, ma la verità potrebbe sorprendere: forse più a Nord che nel Mezzogiorno, più nelle città che nelle aree rurali. In uno studio per il «National Bureau of Economic Research» americano Massimo Anelli e Giovanni Peri hanno infatti mostrato, sulla base di dati della Farnesina, che l’attuale ondata migratoria verso l’estero viene molto più dal Settentrione d’Italia che dal Sud. E la alimentano più le città e le aree ad alta densità di laureati che le campagne e le aree arretrate. Abbiamo ripreso a mandare soldi a casa, ma non siamo più gente da pane e cioccolata. Produciamo raffinati cervelli in fuga, ma un po’ si sacrificano per la famiglia come i loro progenitori.

Resta il fatto che il grosso dei redditi maturati all’estero entra in Italia in modo meno tradizionale e più contemporaneo. È la linea della bilancia dei pagamenti che mostra in gran parte i redditi dei lavoratori frontalieri (e in parte minore quelli dei dipendenti italiani di aziende del Paese operanti fuori dei confini). Quei valori sono esplosi negli ultimi anni: i redditi dei lavoratori frontalieri riportati in patria valevano 4,5 miliardi nel 2011 e sono saliti fino a 6,6 miliardi l’anno scorso.

Le risorse

Sono i soldi delle decine o centinaia di migliaia italiani che al mattino presto prendono un treno locale e vanno a lavorare in Svizzera, in Francia o in Austria per ritornare la sera. È una forma di emigrazione parziale, sicuramente molto più intonata a un’economia del ventunesimo secolo. Ma conta finanziariamente sempre di più per permettere a centinaia di migliaia di italiani delle provincie del Nord di quadrare la contabilità familiare ogni mese.

La somme delle due fonti di redditi maturati all’estero e trasferiti in Italia – rimesse tradizionali e redditi dei frontalieri – arriva quasi a mezzo punto di Pil. Come nel 1878, se non fosse che allora il pendolarismo attraverso le frontiere era impensabile. La somma totale è comunque salita di 2,3 miliardi di euro fini a 7,2 miliardi dal 2011 e ormai supera quella di tutte le rimesse che gli immigrati stranieri mandano dall’Italia verso il resto del mondo. Quest’ultima, per la crisi e per la repressione di certe frodi dei cinesi a Prato e a Roma, è infatti crollata da 7,3 a 5 miliardi in pochi anni.

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