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28/06/2017

Il salvataggio delle banche? Vuol dire che i soldi ci sono...

Il “salvataggio” delle due banche venete, a beneficio di BancaIntesa, grida vendetta già al primo sguardo (vedi qui). Per esserne sicuri, però, bisogna far parlare gli economisti. Radio Città Aperta ha intervistato Maurizio Donato, docente all’università di Teramo.

Grazie della tua disponibilità. Aiutaci a capire un pochino meglio di cosa si tratta... IntesaSanPaolo ha firmato con i liquidatori della Popolare di Vicenza e Veneto Banca il contratto di acquisto al prezzo simbolico di un euro di alcune attività e passività facenti capo alle due banche venete, con autorizzazione unanime del consiglio di amministrazione. Si parla di operazioni di salvataggio delle due banche.... A noi sembra un grande affare a pochissimo prezzo per Intesa San Paolo. Però da profani ci affidiamo a te per capire qualcosa di più.

I profani, come dici tu, ci beccano spesso, perché non c’è dubbio che si tratta di un buon affare in cui sono coinvolti diversi attori, a cominciare dalle banche. E la parola che hai detto – “alcune attività” – è un po’ la parola chiave. Cioè, ci sono attività redditizie e queste Intesa San Paolo ha voluto acquistare, sia pure alla cifra simbolica di un euro, e ci sono attività che sono andate male, crediti irrecuperabili o difficilmente recuperabili. Ed è qui il punto, se vuoi, politico della questione: i debiti irrecuperabili, Intesa San Paolo ha detto: “quelli non li compro, se li accolli la bad bank dello Stato italiano”, cioè i contribuenti, “e noi invece prendiamo solo quello che ci interessa”. E’ interessante perché possano venire fuori questioni che riguardano almeno tre soggetti: il governo italiano, l’Unione europea e la crisi in generale. Se vuoi diciamo qualche parola su ognuna di queste questioni.

Certamente.

La prima questione riguarda il governo italiano, cioè l’idea che ci siano fondi pubblici a disposizione – lo dico come battuta – è una buona notizia. Perché evidentemente tutte le volte che vengono rivolte richieste al governo per interventi vari, per finanziare il contratto dei dipendenti pubblici oppure per andare incontro alla lotta contro la povertà, oppure per tutti i servizi sociali... tutte le volte ci si dice che “i fondi non ci sono”. Quindi sapere invece che tutto questo non è del tutto vero, ma che da un certo punto di vista le risorse ci sono, possiamo dire – facendo una battuta – è una buona notizia. Per esempio, se una forza politica o anche i movimenti sociali di opposizione chiedessero al governo di abbassare drasticamente l’Irpef sui lavoratori dipendenti, la “terza fase” del progetto di riforma fiscale del governo Renzi e per il quale hanno sempre detto: “lo faremmo volentieri ma i fondi non ci sono”... Bene, a questo punto noi sappiamo che il governo italiano, lo Stato italiano, non sta messo così male, perché quando si sanno chiedere le cose i fondi ci sono... quindi questa è una prima notizia. Abbiamo fondi pubblici.

Interessante da ricordare quando magari chiuderanno il prossimo ospedale perché non ci sono soldi per finanziare la sanità, oppure quando taglieranno altre prestazioni sanitarie. E’ interessante sapere che esistono fondi pubblici a disposizione. Bene...

L’altra questione riguarda direttamente l’Unione europea. Spesso e giustamente noi – “noi” nel senso della sinistra di opposizione, i movimenti sociali, persone che comunque esprimono un punto di vista critico sulla società – abbiamo molte critiche da fare all’Unione europea. Eppure in alcuni casi può capitare, non è sorprendente, che alcune regole dell’Unione europea siano migliori di quelle precedentemente adottate dagli stati nazionali. Il bail-in è una procedura di risoluzione delle crisi, dal mio punto di vista, migliore, più favorevole rispetto al bail out. Lo abbiamo detto tante volte. Quando una impresa va male, l’impresa chiude; e, in questi casi, quando una banca va male, non si può chiedere aiuto allo Stato... Ed è lo stesso discorso di prima sui fondi pubblici, questa volta detto non sotto forma di battuta: quando le imprese vanno male, devono essere loro a rimetterci. E tutto questo anche al di là di quello che possono essere i risvolti penali, perché pare che in questi casi ce ne siano... Qui invece, dal giorno in cui è stato approvato il bail in c’è stato un susseguirsi di articoli sulla stampa che dicevano “ma no, non è possibile, non è giusto...” Mentre io invece credo, personalmente, che il bail in sia meglio del bail out. Cioè: non si possono chiamare i contribuenti a risanare situazioni che le imprese, magari “non per colpa loro”, ma semplicemente perché la crisi va in questo modo, abbiano contribuito a creare. C’è la questione degli obbligazionisti, ma anche in questo caso io ho un punto di vista leggermente diverso da quello che sento andare per la maggiore: “poveri piccoli risparmiatori...” Beh, insomma... Quando si tratta di guadagnarci, mi sembra che i poveri piccoli risparmiatori non si facciano tanti problemi a prendere i soldi, senza neanche chiedersi da dove vengono. E quando fai un affare, se le cose vanno male... Beh, vanno male...

Sono spunti interessanti di riflessione. A noi questa vicenda ricorda tantissimo – sempre un po’ da profani – la vicenda di Alitalia del 2008, la famosa divisione in good e bad company. Ai privati va quello che di buono rimane per poi devastarla ulteriormente e al pubblico, allo Stato, ai contribuenti, vanno le passività. Se poi tutto viene giustificato con la “salvezza delle infrastrutture nazionali”, che poi in realtà sono anch’esse private, quale è la priorità? Salvare ovviamente i posti di lavoro, le infrastrutture... Oppure, essendo purtroppo in un mercato che è libero e governato da norme capitalistiche, il ragionamento dovrebbe essere: ma per quale motivo il governo deve intervenire in questo modo? A questo punto nazionalizzi. Se l’intervento del governo è sempre e solo quello di accollarsi le perdite per salvaguardare gli interessi dei privati... allora non è forse meglio nazionalizzare la struttura, la banca, la compagnia che si vuole salvare?

Non c’è dubbio. Gli affari che vanno bene, vanno bene sia al pubblico che al privato, che non è proprio la stessa cosa... Comunque, per capirci: le aziende importanti che vanno male, sì, credo anche io che la cosa migliore sia procedere sul piano della nazionalizzazione. Tuttavia qui c’è un aspetto ancora più interessante, che era il terzo punto che avevo indicato, cioè: good company, bad company... Ossia la parte di business e la parte che va male. Io comincio a pormi il problema di come sia e di come vada evolvendo il rapporto tra attivi e passivi nella dinamica dell’accumulazione capitalistica. Voglio dire: finché si tratta di pensare che fra 100 affari che vanno in porto uno ne va male, allora il bilancio potrebbe essere tale da dir: d’accordo, cerchiamo solo di evitare che i costi degli affari andati male pesino esclusivamente sulle spalle dei lavoratori e andiamo avanti così. Però, nel caso delle banche, l’impressione è che quelli che vengono definiti i non performing loans, cioè crediti incagliati, deteriorati, inesigibili ma, più in generale, tutto quello che riguarda attività anche produttive, che però non può essere completamente valorizzato perché non c’è più la possibilità che tutto quello che produci venga venduto in modo profittevole... Se il rapporto fra le cose che vanno bene e le cose che vanno male comincia ad essere molto sbilanciato sul secondo versante, io non so questa storia come possa andare avanti. Il prof. Giavazzi, che è l’alfiere, in qualche modo, del pensiero capitalistico, sul Corriere della Sera “vabbeh, il governo ha fatto bene perché almeno abbiamo risolto un problema, adesso non si potrà più dire che le banche italiane vanno male, adesso abbiamo messo a posto le banche...” Ecco, io non credo che sia così. Credo che a dieci anni dallo scoppio della crisi il vantarsi, attraverso artifici contabili, di avere fatto uno +0,8 di Pil anziché uno +0,7, non ci dia la possibilità di dire che siamo fuori della crisi. Quindi non credo che queste decisioni del governo, poi, risolvano. Sicuramente sono un buon affare per Messina e per IntesaSanPaolo, però è evidente che non puoi ogni volta trovare un escamotage, come dicevi, una volta per Alitalia, una volta per Veneto Banca e per la Popolare di Vicenza... C’è da chiedersi se davvero è un sistema in cui tutti vanno avanti e c’è solo qualcuno che rimane indietro – che è poi la narrazione dominante – per cui dovremmo solo stare un po’ più attenti a quelli che rimangono indietro. O se per caso non stia succedendo proprio il contrario: che pochi grandi gruppi forti, transnazionali, ce la fanno e tutto il resto rimane indietro. E allora non si tratta più di intervenire una tantum, ma di ripensare proprio la politica economica.

Che vada ripensata la politica economica a noi appare quasi lapalissiano, anche nella nostra piccola visione. Giavazzi è quello dell’“austerità espansiva”, se non sbaglio...

Sì, l’ossimoro più infelice che abbia potuto inventare...

L’“austerità espansiva” è quella che ha portato, ad esempio, la Grecia a diventare un paese a pezzi. Mi hai fatto venire in mente una domanda: è possibile che coloro i quali “pensano” questa politica economica – a livello mondiale – in realtà non sono in grado di farlo o lo facciano in malafede? Mi spiego bene. Sono talmente aberranti alcuni meccanismi – per esempio quello per cui si è arrivati al salvataggio di queste banche – che sembra assurdo che un economista importante dica: è un’operazione giusta... Dopo quasi 10 anni, vuol dire che un certo tipo di analisi o si basa su presupposti sbagliati o è fatta per raggiungere obiettivi sbagliati. Non so se è chiara la mia domanda...

Come no! Oppure un micidiale mix di entrambe le cose... Io penso, da un lato, che lo svolgimento della crisi mette il ceto politico imprenditoriale, di governo, di comando, nelle condizioni di non avere più tanti strumenti. Ho l’impressione che siano costretti a rincorrere lo svolgimento della crisi senza elaborare grandi teorie. Fanno quello che possono, tant’è che credo abbiano rinunciato, da alcuni anni – questa è un po’ una novità – ad una narrazione rassicurante. L’ultima, quella dell’austerità espansiva, era così evidentemente assurda che non è stato possibile sostenerla più di un tanto. Certo, c’è qualcuno che insiste fino alla fine dei suoi giorni, però è evidente che non è così. Siamo prigionieri di questa doppia difficoltà. Da un lato non puoi continuare con l’austerità – parlo soprattutto dell’Unione Europea, cioè del nostro ambito di riferimento – perché non puoi continuare a tagliare la spesa pubblica. Vedevo che il responsabile dei tagli alla spesa pubblica in Italia, anche se credo che sia una persona di origine israeliana, Yoram Gutgeld, si vantava di aver tagliato 30 miliardi di euro. Ma non credo ci sia molto da vantarsi. D’altro canto, con i livelli di debito pubblico in relazione al Pil, che sono elevati non solo per un paese come l’Italia, ma per tutti i grandi paesi del mondo, è impossibile, o almeno è molto difficile, dentro i vincoli dei rapporti di produzione capitalistici, inventarsi qualcosa di più. Quindi sono incapaci? Non lo so, anche perché molti di questi sono, ai loro livelli, il top del top. La malafede è un fatto sociale. Il rappresentante di Banca Intesa, il membro del governo, il dirigente della commissione che si occupa di questo per l’Unione europea, sono tutti membri di una stessa classe dirigente oligarchica europea che ragiona in maniera consona a quelli che sono gli interessi della propria classe. E dunque non vanno al di là di quello, né potrebbero farlo, forse...

Volendo concludere con un obiettivo da porsi... E’ sempre più evidente che il sistema è tendenzialmente in corto circuito. Si può dire che viene portato artificialmente avanti il sistema economico su cui si basa il nostro mondo?

Guarda, io direi così, riprendendo quella che ho detto come prima frase, che è un po’ una battuta e un paradosso, e un po’ no. Ma lo dico soprattutto per chi non ha rinunciato al tentativo non soltanto di parlare o scrivere, cioè di fare l’intellettuale critico, ma ai piccoli o grandi gruppi, sociali o politici, a chi si pone anche l’obiettivo di intervenire politicamente volta per volta: cercare la contraddizione. Cercare la contraddizione principale nel loro modo di essere, tirarla fuori e giocargliela contro. In questo momento la contraddizione principale mi sembra proprio questa: mentre si continua a dire che non c’è un euro, che non c’è una lira, che non c’è un pezzo di moneta per niente, magicamente, tutte le volte che si tratta di dover salvare grandi imprese o banche, i quattrini vengono fuori. Allora questo, forse, è un punto sul quale si può insistere, cioè avere un obiettivo forte, unificante. Lo nominavo così perché mi sembra sufficientemente rappresentativo di una platea enorme di persone: una fortissima riduzione dell’Irpef sul lavoro dipendente. Una richiesta del genere mette comunque il governo e le forze politiche in difficoltà, li costringe a dover rispondere come hanno risposto fino ad oggi, cioè “sarebbe giusto”, perché non possono dire che non è giusto, e “lo vorremmo fare, peccato che non abbiamo le risorse”. Un caso del genere può servire per dire: “benissimo, avete tirato fuori altri cinque, forse 12, ma forse 17 miliardi...”. Poi rispondono: “sì, ma avevamo già previsto un fondo ad hoc”. Fondo vuol dire che ci sono 50 miliardi di euro a disposizione. Non credo che si tratti di dividere i lavoratori bancari dai lavoratori di tutti gli altri settori. E’ giusto salvare tutti i lavoratori, ma è giusto soprattutto che quando un’azienda o una banca non ce la fa ad andare avanti con il proprio business, passi la mano... Tu dicevi: nazionalizzazione. Siano i lavoratori delle banche, delle imprese, quelli che dopo che la proprietà ha detto “io non ci riesco”, a dire “bene, ci proviamo noi e vediamo se riusciamo ad andare un pochettino avanti”.

Bene. Grazie Maurizio per la tua disponibilità e la tua chiarezza.

Grazie a voi.

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