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26/06/2017

I ballottaggi affossano pure il Pd

Non può essere una semplice coincidenza. Nell’unica giornata di lavoro domenicale per il governo, impegnato nello stendere un decreto che impegna 17 miliardi di soldi statali (l’1% del Pil, in pratica la “crescita” attesa nel 2017) per consentire a BancaIntesa di incamerare gratis due banche venete in pre-fallimento, i ballottaggi per le comunali hanno decretato la scomparsa del Partito Democratico.

Il dato risalta con più nettezza proprio grazie all’astensionismo, che ha ancora una volta battuto i record precedenti. Complessivamente è andato alle urne il 46,03% degli aventi diritto. Ed è noto che le elezioni locali sono il momento di massima mobilitazione delle clientele “popolari”, quelle per cui avere un sindaco o l’assessore “giusto” risolve parecchi problemi nell’arco di un quinquennio.

La prima considerazione politica è dunque relativamente semplice: la delusione o l’ostilità per il mercato politico continua a crescere inarrestabile. Il primo turno aveva eliminato il Movimento 5 Stelle, che sta diventando solo la delusione più recente, grazie all’inconsistenza della giunta Raggi a Roma, alle cantonate “legge e ordine” dell’Appendino a Torino e alla generale impressione di incompetenza assoluta seminata da tutti i suoi esponenti, sia nazionali sia locali. Le ricette che sembravano efficaci nel periodo del “vaffa” (onestà, legalità, due soli mandati, ecc.) sono evaporate rapidamente davanti a problemi che richiedono o grande abilità manovriera oppure soluzioni radicali che l’accoppiata Grillo-Casaleggio jr non è in grado neanche di immaginare.

Ma è il Pd renziano il grande sconfitto dei ballottaggi. La tranvata ricevuta con il referendum del 4 dicembre non è servita a niente. Negata a parole dal bulletto di Rignano, non ha provocato alcun serio cambiamento, nemmeno a livello di “comunicazione”. La miniscissione “a sinistra” – esageruma nen, dicono a Torino – è stata derubricata a fuga di ex generali senza più esercito, anziché come conferma dello scioglimento nell’acido di quella che una volta era una potente macchina di consenso elettorale e di potere. Il potere è rimasto, il consenso è svanito. Puoi salvare le banche con i soldi dei contribuenti, puoi gestire appalti e mazzette, puoi mandare frotte di poliziotti ovunque si aggreghino dieci persone... ma non convinci più nessuno. Neanche quella parte di popolazione reazionaria e fascista che pensavi di conquistare a forza di decreti Minniti o di aperture ai fascisti di Casapound (come a Bolzano).

Saltato anche il Pd, insomma, le amministrative hanno premiato le cordate di potere locali, indifferenti alle “appartenenze” partitiche, in generale di centrodestra “grazie” a maneggioni locali di lungo corso democristiano, sicuramente più abili degli yesmen che cercavano una telecamera accesa sotto la sede del Nazareno.

Ma non c’è alcuno “spostamento a destra” negli equilibri politici del paese. C’è un vuoto colossale, prodotto dalla verifica pratica dell’impossibilità di trovare un “referente politico” in grado di assicurare una difesa decente degli interessi popolari più evidenti (occupazione, salario, salute, casa, istruzione). Quella parte che va ancora alle urne – meno della metà – è comunque una miscela disomogenea di interessi particolari, incomprensione di quanto è accaduto nel sistema della rappresentanza, abitudini, timori.

Un vuoto che corrisponde in pieno allo spostamento dei centri decisionali effettivi dal governo nazionale a quello “europeo”: se nessuno, qui, può fare quel che promette (tranne piccole cose clientelar-locali), non c’è ragione di parteggiare o partecipare allo scontro elettorale.

E’ uno scenario che di fatto prepara la “grande ammucchiata” per formare un governo dopo le prossime elezioni politiche (novembre o marzo, cambia nulla). I ridicoli protagonisti della scena politica attuale sanno tutti che l’unico baricentro vero è l’obbedienza all’Unione Europea, ovvero l’assecondamento degli interessi economici – e a questo punto geostrategici – della Germania. Per questo anche analisti che fin qui avevano riposto troppe speranze in Renzi guardano ora senza timori al “ritorno del Rieccolo”, ossia all’ormai addomesticato Berlusconi. Ma in fondo, neanche Salvini pretende più di “uscire dall’Europa”. Dunque, c’è spazio per tutti quelli che dicono che “bisogna cambiare i trattati”.

Lo vuole anche la Merkel. Che però ha sicuramente qualche strumento in più per determinare la direzione di questa ormai “necessaria” revisione, verso una drammatica “stretta” a livello di governance economica, fiscale, bancaria.

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