di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Gli Stati Uniti
accelerano, la comunità internazionale frena. Almeno quella, ristretta,
rappresentata al G7. Mentre gli uomini del presidente Trump lanciano
minacce di guerra, gli alleati mandano messaggi distensivi: allo scontro
aperto con la Russia non vogliono andare.
Il comunicato finale del meeting lucchese del G7 ha
ridimensionato le richieste di Londra e Washington: nessuna nuova
sanzione sarà imposta alla Siria o a membri dell’esercito russo non
meglio identificati (come chiesto dal ministro degli Esteri britannico
Johnson) fino a quando non sarà conclusa l’indagine
dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) sul
presunto attacco chimico del 4 aprile contro la cittadina siriana di
Khan Sheikun.
La via diplomatica è il mantra, il no all’isolamento della Russia lo
strumento: «L’unica soluzione è quella politica, crediamo che la
soluzione militare non sia giusta e il coinvolgimento della Russia può
consentire un cessate il fuoco durevole», il commento del ministro degli
Esteri italiano Alfano.
Al segretario di Stato Usa Tillerson, filo-russo di ferro
fino a poco tempo fa e ora allineato alla giravolta trumpiana, potrebbe
andare meglio così. Sebbene ieri sparasse a zero su Damasco (e Johnson
insistesse nel dire che le sanzioni possono essere ancora introdotte),
lo stile morbido del G7 gli tornerà utile oggi quando incontrerà a Mosca
l’omologo russo Lavrov.
Non è detto che veda il presidente Putin: in agenda l’incontro non
c’è, “sgarbo” istituzionale atteso dopo l’attacco Usa contro la base
siriana di Shayrat.
Ieri è tornato a parlare proprio Putin che ha usato il precedente
iracheno per inquadrare le mosse del fronte anti-Assad: «Mi ricorda gli
eventi del 2003 quando gli inviati Usa al Consiglio di Sicurezza
volevano dimostrare la presenza di armi chimiche in Iraq».
Un messaggio molto simile a quello inviato ieri dalle piazze di
Damasco: centinaia di studenti si sono ritrovati davanti agli uffici Onu
nel quartiere Mezzeh per protestare contro l’attacco di venerdì: «Non
si ripeterà l’Iraq, Trump sostiene il terrorismo», gli slogan gridati.
La Russia ha di nuovo chiesto un’inchiesta indipendente gestita
dall’Onu, oggi come 14 anni fa estromessa dalle aggressioni Usa: «Siamo
pronti a garantire ogni occasione per consentire agli esperti
indipendenti e ai rappresentanti Opac di esaminare la base aerea di
Shayrat – ha commentato il capo di stato maggiore russo Rudskoi
– Gli specialisti sanno che è impossibile nascondere le tracce di armi
chimiche». E nel pomeriggio di ieri l’Opac ha fatto sapere che terrà
domani un incontro a porte chiuse nel quartier generale a L’Aia per
discutere dell’attacco a Khan Sheikun.
Alla Russia fa gioco la volatilità della strategia di Trump,
passato in pochi giorni dal ritornello del non-interventismo alla
vendetta solitaria, dalla «realtà politica» di Assad come presidente a
«il suo regno sta per finire», come detto ieri da Tillerson in chiusura del G7.
Con termini molto più bellicistici lo ribadisce lo stesso Trump per
bocca del portavoce Spencer: la Casa bianca ordinerà altri attacchi in
Siria contro Assad se necessario all’interesse nazionale. E non lo dirà
alla stampa prima, «non telegraferà» le sue risposte militari, proprio
come successo nella notte tra giovedì e venerdì.
Di questo Tillerson discuterà con Lavrov vista la posizione espressa
ieri: «La Russia – ha detto – deve scegliere se stare con gli Usa e con i
paesi che la pensano allo stesso modo o con Assad, l’Iran e Hezbollah».
Una risposta, indiretta, arriva a stretto giro: venerdì a Mosca voleranno i ministri degli Esteri iraniano e siriano.
Lontano da Lucca e dai cosiddetti sette grandi, interviene anche
l’Isis, estromesso dalla discussione sebbene rappresenti la maggiore
minaccia alla stabilità siriana: ieri ha lanciato attacchi suicidi
contro la base di addestramento britannica a al Tanf, in Siria. Anche su
questo campo torna Mosca: ieri il generale Rudskoi ha fatto
sapere di non aver mai ricevuto dalle opposizioni considerate legittime
dalla comunità internazionale la mappa delle loro postazioni, così come previsto dalla tregua e indispensabili ad evitare che siano colpiti al posto di Isis o ex al-Nusra.
La ragione sta nell’alleanza di comodo per singole azioni o periodi
più lunghi tra “moderati” e islamisti, come accade per i salafiti di
Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam e i qaedisti.
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