di Chiara Cruciati – Il Manifesto
«Vogliamo essere coloro
che sanno rispondere a quanti creano danni agli innocenti in qualunque
parte del mondo». Con queste parole ieri il segretario di Stato Usa
Tillerson ha lanciato, indirettamente, il tema caldo sul tavolo del G7
italiano: la Siria.
Il responsabile della politica estera del presidente Trump, in questi
mesi “esautorato” dall’ambasciatrice all’Onu Haley, prepara così la
visita di domani a Mosca. Prima farcendola con l’accusa alla Russia di
non saper tenere a bada Damasco ma premurandosi di specificare che
l’attacco alla base di Shayrat non aveva come target i russi. E poi
restringendo enormemente il concetto di “innocenti”, legato non alle
vittime ma ai presunti responsabili.
Una posizione che, unita al raid di venerdì, Putin ha immediatamente recepito: il presidente non ha in programma di vedere Tillerson, che dovrebbe limitarsi a incontrare il ministro degli Esteri Lavrov. Prima del meeting
a Lucca tra i ministri degli Esteri dei sette, il britannico Johnson ha
anticipato l’intenzione di introdurre nuove sanzioni contro la Siria e
alcuni militari russi, definendo Assad «tossico».
Sul tavolo anche la pressione su Mosca perché abbandoni il governo
siriano. Una richiesta inaccettabile: presupporrebbe la rinuncia agli
interessi russi nell’area mediterranea. Resta sul vago l’Unione Europea:
se i singoli governi hanno tributato un plauso all’intervento
unilaterale e avulso dalla piattaforma Onu di Trump, ieri da Lucca la
rappresentante agli Affari Esteri Mogherini ha deviato sulla crisi
umanitaria: «L’Europa è quella che porta aiuti umanitari dentro la
Siria. Ora spinge perché il processo politico abbia l’impulso
necessario: non c’è nessuna soluzione militare».
La soluzione è diplomatica, dunque, l’opposto
dell’interventismo trumpiano che fa traballare i già evanescenti tavoli
di Ginevra e Astana, delegittimando uno dei partner del processo di
pace, il presidente siriano Assad. Lo ribadisce anche Theresa
May, che giovedì sera – poche ore prima del raid Usa in Siria – parlava
ancora di pressioni sulla Russia, forse non al corrente delle mire del
più stretto alleato. La premier britannica lo ha ripetuto ieri al G7:
«Stiamo discutendo con i nostri partner su come fare maggiori pressioni
sul regime e su chi lo sostiene».
E mentre il ministro degli Esteri italiano Alfano convocava – su
richiesta Usa – per stamattina una riunione del G7 allargata a Turchia,
Arabia Saudita, Giordania, Qatar e Emirati Arabi (tutti parte del fronte
anti-Damasco e finanziatori dei gruppi di opposizione laici e
islamisti, eccezion fatta per Amman che negli ultimi tempi ha
ammorbidito le proprie posizioni), gli alleati di Assad serrano i ranghi senza però disdegnare posizioni morbide in risposta all’aggressione Usa.
Mosca, Teheran e Hezbollah hanno paventato domenica reazioni se ulteriori violazioni dovessero verificarsi:
«Reagiremo fermamente ad ogni aggressione contro la Siria e ad ogni
violazione delle linee rosse, chiunque le compia». E, aggiungono,
aumenteremo il supporto militare a Damasco.
Ieri è intervenuto il Ministero della Difesa russo che ha annunciato
il rafforzamento dei sistemi di difesa aerea siriani e ufficialmente
sospeso la linea di comunicazione diretta tra Cremlino e Pentagono,
aperta nell’autunno 2015 (dopo l’ingresso militare di Mosca nel paese
mediorientale) per evitare incidenti in cielo tra aviazioni.
Il presidente iraniano Rouhani ha poi indicato nelle riforme e
nelle elezioni la miglior soluzione alla crisi siriana e – insieme a
Putin – chiesto un’indagine indipendente sul presunto attacco a base di
armi chimiche contro la cittadina di Khan Sheikun, il 4 aprile.
A prevalere, invece, alla Casa bianca pare essere la confusione: con
Tillerson che fino a domenica indicava nell’Isis la priorità per essere
smentito da Haley («Non esiste alcun tipo di soluzione politica fino a
quando Assad sarà alla testa del regime») e dal consigliere per la
Sicurezza Nazionale McMaster («Gli Usa intendono deporre Assad e
Washington è pronta ad un’azione militare unilaterale»), non si hanno
dettagli sulle prossime mosse.
Chi gioca con il caos è la Turchia e la sua politica di un colpo al cerchio e uno alla botte.
Dopo aver espresso entusiasmo per l’azione di Trump e presagito
punizioni divine per Assad, Ankara ieri – per bocca del ministro degli
Esteri Cavusoglu – ne ha chiesto la testa per poi dirsi intenzionata ad
andare avanti con il tavolo di Astana, una chiara contraddizione visto
che il presidente siriano dovrebbe essere uno dei due partner del
dialogo.
Fonte
La competizione globale sta letteralmente sclerotizzando tutti gli imperialismi che si combattono sul campo di battaglia siriano, in particolare quello occidentale.
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