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27/04/2017

Perchè non possiamo non dirci populisti

Sul Nuovo Quotidiano di Lecce di domenica 23 aprile è uscita una doppia pagina dedicata al dibattito sul populismo che ospita due lunghe interviste: la prima a Marco Revelli, a partire dal suo ultimo saggio (“Populismo 2.0”, Einaudi), la seconda al sottoscritto, a partire da “La variante populista” (DeriveApprodi). Nelle risposte che diamo a Laura Presicce, che cura entrambe le interviste, ci sono diversi punti di convergenza.

Entrambi rifiutiamo la definizione del populismo come “antipolitica”, affermando al contrario che tale fenomeno rappresenta la forma che assume oggi la politica, sia nelle sue componenti più tradizionali – i partiti storici o ciò che ne resta – sia da parte dei movimenti sociali (nel mio libro ho scritto senza mezzi termini che il populismo è la forma che oggi assume la lotta di classe). Entrambi mettiamo l’accento sul vuoto politico che la svolta in senso neoliberale delle sinistre ha aperto, lasciando totalmente privi di rappresentanza gli interessi, i bisogni, le frustrazioni e la rabbia della massa crescente di cittadini (proletari e classi medie) penalizzati dagli effetti del processo di globalizzazione. Entrambi rifiutiamo la sostanziale assimilazione fra populismi di destra e di sinistra, che ci viene proposta da media e forze politiche tradizionali che chiamano alla mobilitazione contro questi movimenti, presentandoli come un’unica minaccia per la democrazia.

Ci sono poi alcune differenze – se non dei veri e propri dissensi – che rispecchiano diversità di approccio nel descrivere le caratteristiche strutturali del fenomeno. Per esempio, Revelli parla di “malattia senile della democrazia”, contrapponendo il disagio di chi, agli albori della democrazia moderna, non si sentiva ancora rappresentato (“la malattia infantile”) a quello di chi oggi non si sente più rappresentato (cioè chi è passato da una condizione di cittadinanza attiva a quella di escluso). Inoltre, richiesto di definire la differenza fra populismo di destra e populismo di sinistra, fatica ad accettare la definizione stessa di populismo ove riferita a formazioni come Podemos e Syriza.

Viceversa io penso che il populismo, più che una malattia della democrazia, sia l’unica forma possibile di democrazia nell’era in cui la democrazia rappresentativa non è semplicemente in crisi, ma è letteralmente morta, spazzata via dal definitivo divorzio fra capitalismo e democrazia (basti pensare alle lodi dell’Economist al presidente cinese, eletto a campione globale del libero mercato). Penso inoltre che, pur nella radicale differenza di obiettivi politici, populismi di destra e di sinistra presentino una serie inequivocabile di caratteristiche comuni (erezione di un confine di inimicizia fra alto e basso; popolo ed élite, “noi e loro”, drastica semplificazione della dialettica e del linguaggio politici, ecc.). Del resto non è un caso che Sanders si dichiarasse esplicitamente socialista e populista nel corso della sua campagna elettorale, o che Podemos si sia sempre rifiutata di definirsi “di sinistra”.

Ma la vera differenza di prospettiva emerge quando si passa a ragionare sull’esistenza o meno di una “terza via” fra l’allineamento al pensiero unico (There Is No Alternative, per dirla con la Thatcher) e la rabbia populista. Pur criticando la conversione liberale della sinistra socialdemocratica (e il velleitarismo senza idee di quella radicale), e pur riconoscendo gli effetti devastanti prodotti dalla perdita di sovranità che gli stati nazione hanno subito ad opera delle istituzioni del capitalismo globale, Unione Europea in testa, Revelli esita a scegliere una via populista che, secondo lui, può solo portare a “rialzare muri”. Io penso invece che una scelta di campo sia inevitabile: o si sta con il capitalismo globale e le sue istituzioni postdemocratiche, o si sceglie il campo populista, che vuol dire lottare per la riconquista di una sovranità popolare che non necessariamente deve assumere le forme del nazionalismo di destra, ma che finirà inevitabilmente per incamminarsi in tale direzione se lasciamo l’egemonia del campo nelle mani dei vari Trump, Le Pen, Salvini.

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