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27/04/2017

La “rivoluzione fiscale” è un incubo reazionario

L’ultima risorsa per cercare la “crescita” si chiama ora taglio delle tasse. Il fatto che l’abbia annunciato trionfalmente Trump dovrebbe sconsigliare entusiasmi preventivi, ma naturalmente i nostri opinion maker si guardano bene dal praticare la virtù della prudenza. Se “il boss di Washington” decide una mossa, tutti non possono far altro che dargli ragione e provare a seguirlo.

In realtà, il piano dell’immobiliarista seduto alla Casa Bianca è probabilmente solo il più rumoroso tra una serie infinita di tentativi che vanno nella stessa direzione. Il 1 aprile il governo inglese ha ridotto la tassazione sulle imprese dal 20 al 19%, e ha messo in calendario un’altra riduzione – al 18% – per l’anno a venire. Persino la silenziosa Italietta di Gentiloni ha fatto già la stessa cosa, riducendo l’aliquota Ires delle aziende dal 27,5 al 24%. Anche se, con la coperta corta delle risorse finanziarie, ha contemporaneamente messo in programma un aumento dell’Iva (imposta indiretta), esattamente come previsto dalle “clausole di salvaguardia”. Unica differenza: l’ha fatto dicendo di non volerlo fare. Il trucco sta nella misura: invece di aumento del 3% – per le merci su cui ora grava l’Iva “agevolata” al 10% – da gennaio scatterà un aumento di 1 punto e mezzo. Per le altre merci, carburanti compresi (su cui gravano già le famose “accise”), l’aumento scatterà tutto intero, facendo balzare l’Iva dal 22 al 25%. Un aumento netto e pesantissimo del costo della vita, che avrà effetti duraturi e negativi sulla capacità d’acquisto dei redditi da lavoro e da pensione.

Piccola sottolineatura per i non addetti ai lavori: con questa doppia mossa Padoan e Gentiloni hanno effettivamente “sgravato” in misura significativa la tassazione diretta delle imprese (quel che certamente dovranno versare), cautelandosi dalle minori entrate con un aumento della tassazione indiretta (il gettito Iva è una derivata delle vendite, lo paghiamo tutti, indipendentemente dal reddito). Di fatto, si tratta di un trasferimento del carico fiscale dalle imprese ai consumatori, quindi alla parte economicamente più debole della popolazione, che costituisce l’assoluta maggioranza dei consumatori. Ed è ovvio che un 3% di Iva in più sulla benzina o i generi alimentari “pesa” molto sui redditi bassi, mentre non viene neanche notata da quelli alti.

Anche Trump si muove nell’ottica di favorire imprese e ricchi, anche se lo fa promettendo – berlusconianamente – “meno tasse per tutti”. Guai a credergli, però... Le primissime proiezioni sulla base delle sue proposte sono chiarissime: un lavoratore povero statunitense con un reddito fino a 10.000 dollari annui (poco più di 9.000 euro, ossia 800 al mese) avrebbe un beneficio dello 0,4%. In pratica 40 dollari l’anno, meno di 4 al mese.

Appena meglio andrebbe a un esponente del “ceto medio” con un reddito oscillante tra i 30 e i 40.000 dollari l’anno. Qui le minori tasse gli lascerebbero nelle tasche lo 0,8%; ossia, nel caso migliore, 320 dollari annui, pari a 26,6 dollari al mese. Nulla per cui valga la pena di gioire consumando di più, insomma...

Decisamente diversa la situazione dei riccastri. Al di sopra del milione di dollari di reddito annuo, infatti, il risparmio fiscale sarà pari al 14,3%. Ovvero ben 143.000 dollari in più nel caso peggiore (milionario semplice, insomma...).

Ma il trionfo dei tagli andrà alle società (imprese, banche, ecc). Qui, finora, ci sono state quattro aliquote diverse a seconda del reddito d’impresa: 15% fino a 50.000 dollari, 25% fino a 75.000, 34% fino ai 10 milioni e 35% oltre questa cifra. Trump progetta di tassarle tutte all’aliquota più bassa (15%), facendo così degli Stati Uniti il paese più “amichevole” del mondo nei confronti del capitale (superati per il momento solo dall’Irlanda, che vanta un “proibitivo” 12,5%).

Una rivoluzione fiscale di questo genere – non è difficile immaginarlo – innescherà la corsa soprattutto delle multinazionali e delle società finanziarie a “premere” per ribassi altrettanto sostanziosi in tutto il pianeta, sulla base della strategia applicata – per esempio – ai lavoratori Alitalia (“o accettate un accordo di merda, o chiudiamo l’azienda e vi licenziamo tutti”). I governi sono assai meno dignitosi dei lavoratori, in genere, dunque ci sarà una “corsa mondiale al taglio delle tasse”.

Tutto bene? Mica tanto... Lo stesso giornale che plaude al taglio (IlSole24Ore) si chiede quanto sarà grande il buco di bilancio che andrà ad aprirsi nei conti dello stato federale. Come a suo tempo Ronald Reagan, anche il palazzinaro seduto alla Casa Bianca ha cieca fiducia nella “curva di Laffer”, immagine di una teoria economica secondo cui “tagliando drasticamente le imposte scattino una crescita dell’economia e delle entrate dell’erario, ergo che gli sgravi si paghino da soli”.

Una teoria economica affascinante, specie per chi dovrebbe beneficiare a breve termine di questo regalo. Ma è mai accaduto, un miracolo economico di questo tipo? No, spiega lo stesso Marco Valsania: “la carriera di Laffer e della sua curva è men che ricca di trofei”. Tanto che persino il campione mondiale del taglio delle tasse, Reagan, dovette rapidamente fare marcia indietro: “dopo aver inizialmente tagliato complessivamente le imposte del 23% e l’aliquota massima dal 70% al 28%, dovette correre ai ripari per alzarle, combattendo evasione, elusione e deduzioni. Aumenti veri e propri scattarono per sostenere il sistema pensionistico del Social Security. Tanto che assieme le misure di aggravio divennero quasi equivalenti alla riduzione delle entrate scaturita dagli sgravi”. Equivalenti, nel rapporto entrate/uscite, ma distribuite socialmente in modo diverso da prima: meno tasse sui redditi alti, più tasse su quelli bassi o per le imposte indirette (come Gentiloni, insomma).

Vedremo gli sviluppi. Ma se davvero scatterà “la corsa mondiale al taglio delle tasse”, per gli Stati si aprirà un periodo di feroce riduzione delle entrate (a meno di non “bastonare” più pesantemente i consumi che invece si vorrebbe veder aumentati); quindi con riduzione delle possibilità di intervento proprio mentre la “competizione internazionale” si va trasferendo sul piano della forza e dunque delle spese militari (l’Italia, nel 2016, le ha aumentate silenziosamente addirittura dell’11%, diminuendo nel contempo le risorse per gli ammortizzatori sociali e altre voci destinate al welfare, a cominciare dalla sanità).

Una torsione “economica” del ruolo degli Stati che non può non produrre una torsione altrettanto drastica sul piano politico. Stati di polizia, tendenzialmente, alle prese con popolazioni ancora più immiserite sulla via di una “crescita” che non si vede più da dieci anni (la “bolla” dei mutui subprime, vi ricordiamo, esplose nell’agosto del 2007).

In bocca al lupo!

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