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21/04/2017

Grillo e i sindacati

Qualche polemica ha suscitato una recente dichiarazione di Beppe Grillo nella quale proponeva di eliminare (in qualche modo) le confederazioni sindacali, dando molto più spazio alla contrattazione aziendale direttamente controllata dai lavoratori e, più o meno, sulla stessa lunghezza d’onda si è detto Giorgio Cremaschi, già autorevole esponente Fiom. Poi è venuta la consultazione sul programma con la proposta (approvata plebiscitariamente) di eliminare il privilegio per le organizzazioni sindacali firmatarie di contratto, uniche a poter presentare candidati per le rappresentanze sindacali aziendali.


Dico subito di essere largamente d’accordo con queste posizioni che sostengo, per la verità da trenta anni e passa, da quando ero un giovane dirigente sindacale sulla via dell’uscita, non condividendo la crescente involuzione buricratica del sindacato. Subito dopo gli anni del grande conflitto il sindacato venne letteralmente subissato di denaro, disposizioni di favore, concessioni e privilegi per i suoi quadri che ne cambiarono la natura. Nei primi anni ottanta feci uno studio sull’organizzazione sindacale scoprendo che le tre confederazioni assommavano oltre 130.000 operatori professionali (fra funzionari, distacchi, permessi sindacali continuati, dipendenti dei patronati e di altri organismi collaterali), occupavano 26.000 seggi nei consigli di amministrazione di enti pubblici (dall’Inps ai conservatori, dall’Inail agli enti di formazione professionale), disponevano di circa 80.000 sedi con oltre 35.000 linee telefoniche. Mettendo tutto insieme, usciva una città più grande di Brindisi o di Novara. Quello che era stato il sindacato più combattivo d’Europa diventava uno dei più massicci apparati burocratici di Occidente e la pratica della concertazione triangolare (Governo, Confindustria, sindacati) ne faceva uno dei principali pilastri del sistema.

Dopo, la crisi della Prima Repubblica e l’ondata neoliberista che spazzava via il welfare, il sindacato ne uscì ridimensionato, nonostante fosse stato pietosamente risparmiato dalle inchieste di Mani Pulite che, pure, avrebbero avuto abbondante materia di indagine. Dopo di che il sindacato è sempre andato più perdendo ruolo politico e sociale. La contrattazione nazionale è andata via via deperendo, quella aziendale si è ridotta alle isole in cui essa è ancora possibile, sul piano generale non si ricorda una proposta di riforma avanzata dal sindacato da almeno 25 anni. A parte la Fiom che ha tentato di mantenere una dimensione conflittuale e di contrasto ai diktat neoliberisti (e che, non a caso, è discriminata tanto fuori quanto dentro la sua confederazione) il sindacato si è ridotto ad un carrozzone di burocrati nullafacenti e strapagati: una ulteriore ed indebita tassa sul lavoro.

Privo della sua dimensione propriamente conflittuale, il sindacato non ha più niente da dire: non abbiamo registrato una sola proposta degna di questo nome per fronteggiare la crisi, non un tentativo di promuovere una convergenza almeno europea e, per il resto, Cisl e Uil si sono spalmate ai piedi dei governi di turno tutte comprese del loro ruolo servile, mentre la Cgil ha avuto qualche rara impennata (in coincidenza con i governi di centro destra e solo di recente nei confronti del governo Renzi) ma, in genere, non è andata molto al di là di qualche impotente mugugno. Ed anche dalla Cgil zero proposte sulla crisi. Nel complesso, si è determinata una situazione di monopolio anomalo, per cui la rappresentanza sindacale passa a Cgil, Cisl e Uil non si capisce in nome di quale disposizione costituzionale o di legge. Se il criterio è quello del numero degli iscritti, facciamo presente che:
 

a. se il criterio dei tesserati è qualificante ai fini della rappresentatività, occorrerebbe che le iscrizioni fossero certificate da un organismo terzo e non stabilite sulla base di dichiarazioni di parte e, intento, sarebbe utile una severa verifica su tesseramenti che appaiono clamorosamente gonfiati;
 

 b. la maggior parte degli iscritti alle tre confederazioni sono pensionati (la cui adesione, peraltro, è carpita dal patronato al momento di istruire la pratica di pensione) e, se è giusto che i pensionati abbiano la loro rappresentanza, non si capisce perché questo poi debba riflettersi sulla rappresentanza dei lavoratori attivi;

c. che è la posizione di privilegio dei sindacati esistenti a spingere i lavoratori ad iscriversi a Cgil, Cisl e Uil, per cui si determina una sorta di circolo vizioso per cui la posizione di predominio genera tesseramento che a sua volta garantisce il riprodursi della condizione di predominio.


E questo blinda il carrozzone sindacale impedendo ogni verifica reale sulla sua rappresentatività, ma noi, che ce ne facciamo di un sindacato così? Sin qui è stato una sorta di tabù per cui nessuno osava sollevare la questione di questo ingombrante ed inutilissimo totem. Lode a Grillo ed al M5s per aver rotto questo incanto ed aver aperto la questione. Tuttavia, se siamo perfettamente d’accordo sulle linee generali della discussione impostata da Grillo, poi dobbiamo approfondire l’argomento, dato che la contrattazione aziendale non risolve tutti i problemi, anche perché nella maggior parte delle aziende non esiste alcuna contrattazione. Non possiamo rinunciare ad una ripresa della contrattazione nazionale. Questo però impone che ci siano sindacati realmente democratici, con gruppi dirigenti realmente espressione dei lavoratori (cosa semplicemente inesistente oggi). Ad esempio, visto che l’articolo 39 della Costituzione parla di obbligo di registrazione dei sindacati con ordinamento interno a base democratica, perché non pensiamo ad una legge quadro che stabilisca quali siano le caratteristiche necessarie di un ordinamento democratico in un sindacato? Avrei molte idee carine da proporre in merito. Vi assicuro: mi divertirei molto...

Fonte

Tutto corretto, però ogni tanto qualcuno l'usb potrebbe ricordarselo... 

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