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24/03/2017

Sabato scegli l’Europa delle lotte e dei lavoratori contro quella del capitale e delle guerre. Con intervista a Vladimiro Giacchè

Domani scenderà in piazza la vera “altra Europa”: quella delle lotte sociali, del conflitto, del lavoro, dei poveri, dei migranti e dei precari. E’ l’Europa popolare e subalterna contrapposta all’Europa delle banche, della finanza, delle guerre, del liberismo, delle nuove schiavitù, dei razzismi. Sembra stanca retorica, eppure mai come domani, in questo ventennio di accelerazione europeista, la contrapposizione assumerà caratteri così spiccatamente simbolici. Nelle sedi istituzionali della città vetrina verrà celebrata la razionalità neoliberale del progetto europeista: capi di Stato e di governo bivaccheranno in un centro anestetizzato della sua popolazione; da Porta San Paolo – origine della Resistenza romana – prenderà forma il rifiuto dell’Unione europea e delle sue intrinseche politiche liberiste. Una manifestazione che segna una rottura anche nella sinistra. La forza materiale dei processi storici impone oggi una critica all’Unione europea. Una critica che, ovviamente, non esaurisce lo spettro delle proposte politiche, ma che al tempo stesso diviene elemento necessario al proprio posizionamento: o con questa Unione europea o contro di essa. Sarà sempre più questo il terreno di scontro dei prossimi anni, e non perché lo decidiamo noi, ma perché questo è imposto alla popolazione europea nel suo insieme: o lo affrontiamo, o i “populismi” saranno destinati a egemonizzare il campo del dissenso politico verso le élite dominanti. Peraltro, il vertice sarà tutto fuorché rituale o meramente celebrativo: verranno invece poste le fondamenta per un salto qualitativo del processo europeista in grado di rispondere alla crisi economica, politica e di consensi di cui è vittima la Ue come istituzione e come narrazione politica. Di seguito, una breve intervista a Vladimiro Giacchè, che aiuta alla comprensione del vertice stesso e di cosa si nasconde dietro le proposte di “difesa comune” e di “doppia velocità” di cui si è tanto parlato in questi mesi. Ci vediamo domani, ore 14.30, da Porta San Paolo: contro Unione europea e liberismo.

D. Le celebrazioni per il 60° anniversario del trattato di Roma, atto costitutivo dell’architettura economica e politica della Ue, sembrano ai più, ormai, non soltanto una stanca e vuota cerimonia ma un momento politico in cui andranno a maturare alcuni passaggi politici significativi. Concordi su questo scenario o lo ritieni un evento solo formale?

R. L’evento in sé potrà senz’altro essere “solo formale”. In fondo oggi qualunque celebrazione dei Trattati di Roma che ambisse ad essere qualcosa di diverso farebbe emergere di necessità le fratture profonde che attraversano l’Unione Europea, la diversità delle diverse agende nazionali e l’insussistenza di quel “sentire comune europeo” che ormai esiste soltanto nella retorica ufficiale. Questo però non toglie che la “Deep Union” continui a procedere, nonostante e contro le opinioni pubbliche dei diversi paesi, in una direzione fortemente voluta dalle tecnocrazie europee e dall’establishment: quella di un’integrazione sempre più inestricabile, e al tempo stesso sempre più antidemocratica. Per avere un’idea di come l’agenda di queste élites sia distante da un orizzonte democratico basterà citare due casi recenti: quello del polacco Tusk (presidente del Consiglio Europeo) e quello di Djisselbloem (presidente dell’Eurogruppo). Nel primo caso il governo polacco ha fatto sapere di essere contrario alla riconferma, ma la riconferma è avvenuta lo stesso; nel secondo caso il partito laburista guidato da Djisselbloem ha perso i tre quarti dei voti alle ultime elezioni olandesi – e ciò nonostante sembra ci sia l’intenzione di riconfermare questo signore (peraltro recentemente autore di frasi razziste all’indirizzo dei paesi del Sud Europa) alla guida dell’Eurogruppo. Non si tratta di episodi di poco conto: in entrambi i casi emerge la totale autoreferenzialità dei politici “prestati all’Europa” nei confronti del proprio elettorato – che poi dovrebbe essere la loro fonte (diretta o meno) di legittimazione. Ma tutto questo avviene nella noncuranza generale, come se fosse la cosa più normale del mondo. Questa è l’Europa che si ha l’impudenza di proporre quale orizzonte di democrazia al resto del mondo (ultimamente anche agli stessi Stati Uniti – impossessandosi parodisticamente dello strumento propagandistico dagli stessi Stati Uniti forgiato e utilizzato durante la Guerra Fredda in funzione antisovietica).

D. Nell’agenda politica della Ue ci sono alcune questioni decisive da sciogliere, dopo le dure batoste subite nell’ultimo anno con la Brexit e la sconfitta referendaria del 4 dicembre scorso in Italia e la caduta di Renzi. Forze centrifughe stanno mettendo a rischio l’assetto interno del comando Ue. Sul banco di prova dei prossimi mesi ci sono due questioni: la prima è la crescente divaricazione tra il gruppo ristretto di paesi del nord Europa, che vede saldamente al comando la Germania, e i paesi del sud la cui condizione è di totale subalternità alle politiche di Francoforte e Bruxelles; dall’altra il tentativo contraddittorio di accelerazione del processo di integrazione militare europea. Quale scenario tendenziale ritieni più probabile al momento su questi due punti dirimenti?

R. I due aspetti sono connessi. Non è infatti un caso che, proprio in un contesto che vede lo spostamento sempre più netto dei rapporti di forza intraeuropei a vantaggio dei paesi del nord e a svantaggio di quelli del sud, si cominci a parlare di un’integrazione maggiore sul piano militare. Non mi sembra difficile vedere nell’accelerazione verso l’esercito europeo anche uno strumento per blindare un’unità europea sempre più lontana nei fondamentali economici e sempre più asimmetrica e squilibrata, oltreché socialmente ingiusta (tra paesi e all’interno dei singoli paesi). Credo che si sbagli nel considerare i tentativi di riarmo integrato europeo esclusivamente nel contesto della accentuata dialettica verso gli Stati Uniti di Trump. Il dato principale è il tentativo di costruire un ulteriore collante di un’Unione sempre più in crisi di identità e sempre più drammaticamente divaricata. Si è detto spesso che l’euro è una moneta senza esercito. Ora si vuole creare un esercito per l’euro. Si tratta di un ulteriore tassello di una politica di integrazione che ormai è ben oltre lo stesso funzionalismo di Robert Schumann: l’integrazione procede attraverso la politica dei fatti compiuti, una politica che tende a mettere in piedi processi irreversibili, tali da resistere contro la stessa volontà dei popoli europei. Questa almeno è l’intenzione: ma al tempo stesso queste operazioni aumentano la rigidità del sistema e quindi lo rendono più esposto al rischio di un crack. Si tratta di un rischio sempre più concreto. La storia è piena di oligarchie che contro la realtà hanno finito per rompersi la testa – e in qualche caso per perderla in senso non solo metaforico.

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