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28/03/2017

Che ne dite di un calcetto a Poletti?

Ogni volta che sento parlare il ministro Poletti – si occupa del Lavoro, lui che viene dal mondo Coop e sa come sfruttarlo fino all’ultima goccia – mi torna in mente il proverbio in uso tra gli avvocati: “studia, figlio mio, sennò mi diventi giudice”.

Non soddisfatto del “successo” ottenuto con altre esibizioni retoriche in pubblico, ieri ha consegnato agli studenti dell'istituto Manfredi Tanari di Bologna un’altra perla della sua saggezza ruspante: “Il rapporto di lavoro è prima di tutto un rapporto di fiducia. È per questo che lo si trova di più giocando a calcetto che mandando in giro dei curriculum”.

Non sarebbe giusto estrapolare questa sola frase per crocifiggere un manager prestato alla governance, che spesso ha dimostrato di non comprendere la differenza tra il dirigere un’azienda o un paese. In fondo, stava illustrando la bontà della famosa “alternanza scuola-lavoro”, ossia quella novità introdotta nella cosiddetta “buona scuola” per cui invece di stare ad imparare qualcosa (a ragionare confrontandoti con quello che l’umanità ha appreso in passato e consegnato ai libri, di qualsiasi genere), uno studente può essere spedito a servire ai tavoli di McDonald’s o all’Autogrill. A lavorare gratis, insomma, senza imparare altro che obbedire a un caporale (ci siamo passati tutti, da ragazzi; ma lo facevamo d’estate e venivamo pagati).

Quindi, prendiamo anche qualche altra sua frase memorabile ripresa dai giornali “amici” del governo, come la risposta data a chi ha già sperimentato gli stage finendo a fare operazioni manuali ripetitive il ministro fa notare che “se vai in un bar ti fanno fare un caffè” (si può vedere la scocciata scrollatina di spalle dalle sole parole scritte...). Oppure quella data a chi più modestamente contestava l’assenza di risultati dopo questi esperimenti: “Intanto vedi un mondo”. Come se lavorare gratis fosse una vacanza in paesi esotici...

Le pernacchie online hanno presto sommerso le parole di Poletti, che ha provato la solita, goffa (non ha studiato!), marcia indietro: “voglio chiarire che non ho mai sminuito il valore del curriculum e della sua utilità. Ho sottolineato l'importanza di un rapporto di fiducia che può nascere e svilupparsi anche al di fuori del contesto scolastico. E quindi dell'utilità delle esperienze che si fanno anche fuori dalla scuola”.

Anche noi non crediamo molto ai curriculum e, come tutti, li vediamo finire in un attimo nel cestino della carta straccia. Soprattutto in Italia, però, dove le imprese preferiscono – come Poletti teorizza – avere a che fare con dipendenti pre-selezionati come aspiranti schiavi obbedienti. Quindi in base a raccomandazioni, segnalazioni fiduciarie, ecc. Uno stile che dà la misura dell’arretratezza dell’imprenditoria italiana rispetto agli stessi paesi capitalistici con cui dice di voler “competere”.

A metà strada tra il Berlusconi che beatificava i “lavoretti” e il Caimano laido che invitava le ragazze a sposare un uomo ricco, Poletti in realtà propone un modello di “trovar lavoro” che è l’unico da lui sperimentato. Si entra in un “giro di conoscenze” (ai suoi tempi un partito, ora in una clientela strutturata), ci si fa conoscere come “affidabili” (obbedienti ai capi e capetti di tutta la gerarchia interna), si ottengono man mano delle responsabilità superiori, fino all’“uno su mille ce la fa” che lo ha portato alla guida della Coop e di lì alla poltrona ministeriale.

Un “modello relazionale” che ha senso in un partito, non certo per la ricerca di un lavoro dipendente. A meno di non intendere un posto di lavoro come il “munifico dono” di un signorotto medioevale, cui devi baciar le scarpe prima di essere ammesso nel cortile di proprietà...

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