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31/03/2017

Ankara chiude scudo sull'Eufrate, ma resta in Siria

i Chiara Cruciati – Il Manifesto 

Da oggi il co-leader dell’Hdp Demirtas e il deputato Zeydan rifiuteranno il cibo: stomaci vuoti per protestare contro «il trattamento disumano» riservato ai parlamentari del partito di sinistra pro kurdo dalle autorità carcerarie turche. Demirtas e Zeydan sono entrambi prigionieri a Edirne, carcere di massima sicurezza, dal 4 novembre.

Mentre la leadership Hdp annunciava il lancio dello sciopero della fame, nei palazzi di Ankara il segretario di Stato Usa Tillerson (affatto scosso dall’incarcerazione di 150 giornalisti e 10 parlamentari) incontrava il presidente Erdogan.

Sul tavolo l’alleanza strategica tra Turchia e Stati Uniti, parzialmente minacciata dall’ingresso della Russia nel campo da gioco e dalla controffensiva su Raqqa, a cui 500 marines partecipano al fianco delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) guidate dai combattenti kurdi di Rojava.

Una politica apparentemente schizofrenica, ma lucidissima: gli Usa non intendono affrancarsi da un alleato di ferro come quello turco. Quella con i kurdi è un’amicizia di convenienza che avrà come sola vittima le aspirazioni democratiche di Rojava.

Così va letto l’annuncio fatto da Ankara poche ore prima dell’incontro Tillerson-Erdogan: l’operazione Scudo dell’Eufrate, nel nord della Siria, lanciata lo scorso agosto e palesemente diretta non a far indietreggiare l’Isis ma a contrastare le mire unitarie kurde, è finita. O quasi.

«D’ora in poi, se compiremo azioni nel caso la nostra sicurezza sia minacciata o contro l’Isis – ha detto mercoledì sera il premier Yildirim – saranno parte di una nuova operazione con un nome diverso. Ciò significa che Scudo dell’Eufrate è finita».

Finita perché, aggiunge, gli obiettivi sono stati raggiunti. In effetti quelli ufficiosi (impedire l’unione dei cantoni kurdi di Afrin, Kobane e Jazira attraverso la presa di Jarabulus e al-Bab, ma non di Manbij, “ceduta” dai kurdi al governo di Damasco per evitare che i turchi la occupassero) sono stati realizzati: la riva ovest dell’Eufrate è sotto il controllo dell’esercito turco e le milizie siriane a suo sostegno. Quello ufficiale – la cacciata dell’Isis – no, visto che lo Stato Islamico resta arroccato a Deir Ezzor e Raqqa.

Proprio Raqqa rimane la preda (non affatto occulta) sia di Ankara sia di Washington. Yildirim non parla di ritiro delle truppe turche, che resteranno per impedire un’avanzata kurda e tenersi pronte alla controffensiva sulla “capitale” dello Stato Islamico.

Difficile non vedere nell’annuncio del premier uno strumento di compattamento del fronte del sì al referendum costituzionale del 16 aprile: con l’unica reale opposizione parlamentare dietro le sbarre, migliaia di sostenitori di Hdp e Dbp in carcere, la fine dell’operazione è presentata agli elettori come il mezzo per rispedire nella famigerata “zona cuscinetto” (anelata da anni dalla Turchia e ora forzatamente realizzata) buona parte dei tre milioni di profughi siriani registrati in territorio turco.

Ma di andarsene dalla Siria non se ne parla. Ed infatti con Tillerson Erdogan ha insistito sulla necessità di lavorare «con attori legittimi» in Siria e non con Ypg e Ypj kurde, considerate organizzazioni terroristiche. Dimenticando di citare l’aperto sostegno garantito per anni agli islamisti radicali e la sponsorship di gruppi salafiti dall’ideologia vicina a quella qaedista che oggi sono leader della delegazione delle opposizioni al tavolo di Ginevra.

Tillerson ha fatto la sua parte: dopo l’incontro con il ministro degli Esteri Cavusoglu, ha detto che i due paesi stanno «esplorando una serie di opzioni e alternative» per la liberazione di Raqqa. Nessun accordo, per ora, ma è impossibile immaginare che la nuova Casa bianca, lanciata nella crociata anti-Iran, rinunci ad Ankara per la causa kurda.

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