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28/02/2017

“Avete svenduto le nuove generazioni”. Intervista a Cristina

Intervista realizzata da Radio Città Aperta.

Abbiamo con noi al telefono Cristina, la studentessa dell’Università di Bologna che è diventata – suo malgrado immaginiamo – virale sui social network per il duro, rigoroso ma corretto intervento con cui ha ricordato a Romano Prodi – nel corso di una recente iniziativa sull’Unione europea e la globalizzazione all’Università di Bologna – le proprie responsabilità rispetto alla situazione in cui viviamo oggi. Hai introdotto il tuo discorso presentandoti come generazione Erasmus e poi hai ricordato all’ex presidente come lui sia stato tra gli artefici della svendita del futuro di tante geneazioni, a partire dalla tua. Io sono un po’ più grande di te, ho intorno ai 40 anni, ma io pure sono stato coinvolto a pieno titolo in questa lenta ma inesorabile svendita del futuro, delle possibilità e delle speranze di noi che siamo cresciuti, siamo diventati adulti, o lo state diventando voi in Italia. Hai fatto notare che la tua generazione, Cristina, si affaccia ad un mondo del lavoro devastato da anni di politicihe neoliberali, sostenute e permesse proprio con la costruzione di quel soggetto politico che è l’Unione europea...

La prima domanda che vorrei farti è: che ruolo pensi giochino il sistema formativo e quello universitario nella realizzazione del progetto di precarizzazione e indebolimento della forza lavoro?

Direi che il compito dell’università, molto spesso, è quello di comunicare un’ideologia e riprodurre poi coloro che la riprodurranno nel momento in cui diventeranno classe dirigente. Questo si vede specificatamente nella facoltà di economia, nella quale io studio, in cui l’unico pensiero economico che si studia è quello dell’economia neoliberista. Neoclassica, così definita. Fondamentalmente – per questo motivo è nata la nostra associazione – la nostra idea era quella di avere la necessità di aprire alla conoscenza critica e quindi ribaltare l’idea di università: non uno spazio in cui si riproduce il reale, ma uno spazio in cui si possa cambiare la realtà, si possa innovare anche da un altro punto di vista. Fondamentalmente il mondo dell’università è strettamente collegato con quello del lavoro; sin da giovani noi veniamo educati a competere, ad essere individualisti, a non avere un pensiero critico, a non avere capacità di esprimere un pensiero critico; ma semplicemente educati a ripetere ciò che ci viene insegnato. Quindi sì, è l’Università e la scuola, in generale tutto il sistema scolastico che riproduce poi il sistema lavorativo in cui ci troviamo. Sin dall’inizio, anche con la scelta di chi andrà a fare l’Università. Perché poi va detto che all’Università oggi ci vanno in pochi privilegiati, che già rappresentano quell’élite, o sono comunque figli di quell’élite.

Tra l’altro proprio nella tua università – l’Ateneo di Bologna – si sono resi più visibili politiche di repressione verso chi cerca un po’ di opporsi. Ci sembra – correggimi se sbaglio – che il rettore stesso abbia rivendicato la scelta di fare entrare corpi di polizia antisommossa all’interno di una biblioteca, recentemente...

Sì...

C’entra anche questo aspetto, con quanto tu hai ricordato a Romano Prodi?

C’entra nel momento in cui si impedisce agli studenti di partecipare in modo attivo alla vita dell’Università. Io tra poco ho un appuntamento con il Vicario per poter parlare del fatto che ci vengono negati gli spazi per fare un’assemblea. All’interno del regolamento dell’Università di Bologna gli studenti non possono riunirsi per fare assemblee. E questo è un problema, perché significa che lo studente vive l’università semplicemente per fare esami, studiare, andare a lezione; ma non per creare quella comunità, per conoscere l’altro, per crescere personalmente... La polizia all’interno dell’università, in tenuta antisommossa, è stata proprio il massimo e mi auguro che venga condannato da chiunque e magari che qualcuno prenda dei provvedimenti al riguardo. Però va detto che quello è solo un caso, quello più plateale. Però noi, quotidianamente, viviamo una situazione in cui lo studente, all’interno dell’Università non vale niente, fondamentalmente. O molto poco, ecco, mettiamola così.

Negli ultimi anni il Partito Democratico, di cui anche lo stesso Prodi è stato uno dei fondatori, e i suoi ministri dall‘altro, hanno iniziato a parlare della necessità di potenziare pochi poli di eccellenza per la ricerca, capaci di interagire con le imprese e che convoglino su di sé gli ormai pochi fondi pubblici disponibili. Le stesse imprese procedono con tagli lineari, rispetto ai propri lavoratori, e dall’altro lato le università si trasformano in parcheggi per candidati alle liste di disoccupazione. La follia di questa politica è evidente, forse non è evidente solo a chi la propone...

Fondamentalmente il mio concetto sulla generazione Erasmus non era contro l’Erasmus in sé. Chi partecipa all’Erasmus è veramente l’un per cento degli studenti universitari. Quale è l‘educazione che oggi si fa? Una piccola parte degli studenti riesce ad accedere a grandissime possibilità, oggettivamente è vero. Io l’ho fatto: andare all’estero, parlare quattro lingue, avere la possibilità di conoscere e di viaggiare... Ma perché l’ho potuto fare? Perché avevo alle spalle una famiglia che me l’ha permesso. Il contributo Erasmus quanto copre? Un terzo del costo. Quindi, quale è l’idea? E sarà così sempre di più, nel momento in cui il lavoro cambia in continuazione e ci servirà capacità di innovarsi, ecc. La differenza chi la darà? Tra coloro che sono educati e coloro che non hanno l’educazione. E questo creerà sempre di più una divisone sempre più netta, che non è una questione di redistribuzione... Prodi infatti ha detto: il problema è della redistribuzione... Ma non è solo un problema di redistribuzione. Qui si sta stanno creando due binari. Coloro che sono ricchi, che hanno grandi capacità, che hanno grande conoscenze (ma non solo per meriti, perché io non ho avuto nessun merito a nascere nella famiglia in cui sono nata e che mi ha permesso di andare a fare l’Erasmus. Fondamentalmente sono stata fortunata) e coloro che invece non hanno avuto la mia fortuna e quindi sono tagliati fuori dall’educazione. Perché comunque ricordiamoci che le tasse all’università continuano ad aumentare, i libri continuano ad aumentare, i servizi continuano ad aumentare... Noi qui abbiamo anche problemi con la mensa... Abbiamo tutta una serie di problematiche che dividono, nettamente, la popolazione. Nord e sud? Nord e sud ormai stanno raggiungendo dei livelli di sviluppo completamente diversi, non sembra neanche che siamo nello stesso paese. E il fatto che si vada a “valorizzare l’università del sud” è anche questo è un messaggio. Comunque quelli del sud se ne devono andare al nord e quelli del nord se ne devono andare fuori. C’è tutta un’idea di creare una divisione tra coloro che possono e coloro che non possono, che non è collegato al merito, perché comunque le università del sud hanno grandissimi professori, hanno grandissime capacità e hanno grandissimi anche studenti. Quindi non è legato al merito.

Era evidente che, nel tuo intervento, tu non eri contro l’andare a fare esperienza all’estero. Ma sono le modalità con cui viene gestito l’Erasmus ad essere elitarie. Una tua considerazione. Emigrare, andare all’estero, tendenzialmente per fare il lavapiatti o per inserirsi in una lotta all’ultimo sangue per i pochi posti al sole disponibili... Si è fatto capire che la tua generazione, ma non soltanto la tua, sembra essersi un po’ rassegnata. Noi siamo profondamente convinti che l’unica speranza è la lotta. Nel caso degli studenti, uscire dalle aule e connettersi con le varie istanze di lotta che stanno attraversando, che stanno incrementandosi ad esempio nelle periferie, nelle classi subalterne... Naturalmente questo comporta un cambio di paradigma, di approccio, rispetto ad una cultura possiamo definirla “arrivista” che spesso molti studenti coltivano tra i banchi. Condividi questo approccio o non sei d’accordo?

No, io sono d’accordo, infatti questo è quello che noi facciamo. Nel senso che io su facebook non ho neanche risposto a tutte le provocazioni e neanche ai messaggi, perché io sono una di quelle persone che fa assemblea quotidianamente all’interno della mia scuola, anche al di fuori della scuola, che parla con gli studenti... E questa è la politica, è inutile che ci raccontiamo balle. Uno può pubblicare una cosa su facebook e dire “brava, complimenti”, però alla fine devi scendere in strada e devi andare a vedere veramente quale è la situazione attuale. Quindi noi, io personalmente e noi come associazione, ma anche come collettivo, noi facciamo quotidianamente intervento all’interno della nostra scuola. Ci confrontiamo con i professori e studenti e... Purtroppo sì, devo dire che ci sono molti studenti rassegnati. Ma io un po’ li scuso anche, perché comunque sono sempre stati educati con questa idea dell”uno su mille ce la fa” e quindi quell’uno devo essere io. Diventa un azzannarsi a vicenda, gente che si passa gli appunti sbagliati, che fa le infamate... E’ proprio un livello anche molto basso, da certi punti di vista... Quindi l’idea migliore è quella di organizzarsi, uscire... E’ per questo secondo me il problema dell’associazione è fondamentale... Nel momento in cui tu conosci l’altro, condividi con l’altro, capisci anche le idee dell’altro, diventi un suo compagno, se mi può passare la parola...

Figurati. Te la passiamo molto volentieri...

E quindi nel momento in cui bisogna andare a protestare non è più il tuo nemico ma è il tuo compagno, insieme a lui puoi fare cambiamenti.

L’ultima domanda. Romano Prodi ha cercato di delegittimare le tue considerazioni tacciandoti di nazionalismo, di sostenitrice delle frontiere, tutte cose che non avevano assolutamente nulla a che fare con quanto tu stavi dicendo. Però questo a noi sembra essere l’effetto di una sorta di vuoto, di analisi critica “a sinistra” sui temi della globalizzazione, portata avanti proprio dall’Unione Europea. Il 25 marzo qui a Roma c’è un’occasione, una manifestazione in occasione del 60esimo anniversario dei Trattati fondativi della Comunità economica europea. E’ un’occasione per iniziare a dare corpo anche in questo paese ad un’ipotesi di sinistra, in rottura con la subalternità culturale verso il Pd e gli artefici del progetto dell’Unione europea, tra cui ad esempio Romano Prodi. Ritieni che sia possibile partecipare ad iniziative come quella del 25, per tentare di scardinare questo approccio che l’Unione europea, evidentemente neoliberista, sta portando avanti?

Prima di manifestare – io sono d’accordo sulla manifestazione – bisogna capire bene quali sono stati i problemi. Il mio attacco non era a Prodi, nel senso che non è che è tutta colpa di Prodi la situazione attuale in cui noi ci ritroviamo. Quindi non lo farei diventare il colpevole più grande...

Possiamo dire che il suo contributo è stato comunque “di qualità”...

Sì, sì, assolutamente. Soprattutto perché comunque era “di sinistra”, quindi politicamente avrebbe dovuto rappresentare un’altra posizione. Noi abbiamo vissuto per venti anni l’applicazione di politiche neoliberiste che hanno portato alla situazione attuale che, fondamentalmente, vanno comprese, condannate, e poi si potrà dire: “cerchiamo una soluzione”. Per questo, il mio intervento era riferito a lui: “adesso che lei è fuori dalla politica, quindi non è più necessario che faccia il ruolo del politico, ammetta comunque che quelle politiche sono state un errore, in modo tale che noi possiamo superarle e pensare ad andare avanti”. Purtroppo il panorama di sinistra di oggi offre l’idea della globalizzazione “quanto è bella”, quanto è bello che io posso viaggiare, quanto è bello che ho un amico francese e un amico spagnolo... Però, anche in questo caso, le frontiere chi le può passare? Noi siamo comunque con le frontiere chiuse, chiusissime nei confronti dei rifugiati. Alcuni muoiono nel passaggio e invece i capitali possono girare liberamente da una parte all’altra, senza padroni e senza neanche pagare le imposte. Si vive una situazione di globalizzazione anche in questo caso. Ma la globalizzazione è solo di qualcuno, di qualcuno che si vive tutti i benefici e gli altri, invece, no. Soprattutto il ruolo dello Stato oggi non può essere quello che viene indicato: “non è un mio problema, devo ridurre il debito anzi, abbiamo fatto fin troppa spesa”. Deve esserci un ruolo attivo dello Stato, che comunque cerchi di calmierare questa situazione. Però sì, io sono per scendere in piazza il 25, scenderò sicuramente. E poi sono di Roma, quindi scenderò...

Così magari ci vieni a trovare in redazione, se vuoi, sei hai un po’ di tempo...

Dai, vi vengo a trovare...

Un’ultima battuta. Hai parlato della tua attività all’interno di un’associazione, forse è giusto anche parlare del collettivo, a nome del quale anche sei intervenuta nei confronti di Romano Prodi.

Diciamo che non sono intervenuta a nome del collettivo, ma comunque il mio intervento non era solo personale...

Ah, ok, hai fatto bene a specificarlo...

Comunque noi abbiamo due anime. Abbiamo un’associazione che è Rethinking economics a Bologna, che è un’associazione a livello nazionale e che, appunto, si batte per introdurre un pluralismo all’interno della educazione economica. Quindi si batte, da un punto di vista teorico, e anche da un punto di vista politico, sull’introduzione del pluralismo. Poi c’è il collettivo di economia, che invece è quello che si occupa di mettere in pratica l’approccio teorico che noi abbiamo elaborato nel corso del tempo da un punto di vista più politico, quindi... sì, c’è un po’ di vigore ad economia...

Meno male. Noi ti ringraziamo per la tua disponibilità Cristina, e ti ringraziamo anche per quell’intervento che hai fatto. Hai parlato a nome di tantissime persone...

Il video



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Trump aumenta la spesa militare, e tutti fanno lo stesso

Intervista realizzata da Radio Città Aperta.

Buongiorno, Manlio Dinucci. C'è questa notizia che circola da ieri, sulla decisione Usa di incrementare addirittura del 9-10% le spese militari, a discapito di altre voci tra cui le politiche ambientali e gli aiuti ai paesi meno sviluppati. Cosa significa e cosa può rappresentare, come conseguenze?

Direi intanto facciamo un po’ di conti. Trump ha annunciato la sua intenzione – poi bisogna vedere se ci riesce – di aumentare di 54 miliardi di dollari la spesa militare statunitense per l’anno fiscale 2018 che inizia, ricordo, il 1° ottobre di quest’anno. Però, rileva il New Yord Times proprio stamani, va ricordato che nel budget di previsione dell’amministrazione Obama c’era già la cifra di 35miliardi di dollari di aumento della spesa militare, quindi si conferma che Trump dà un’accelerazione ad un processo già in atto. Ora quale è la spesa militare statunitense? Secondo i dati ufficiali della Nato – questa è l’ultima cifra disponibile – nel 2016 ammonta a 664 miliardi di dollari, corrispondenti al 3,6 % del Pil statunitense. Proprio su questo gli Stati Uniti pressano gli alleati, compresi noi quindi, per aumentare la spesa militare almeno al 2% del Pil. Quindi in tutti i paesi della Nato. Per ora, diciamo, hanno raggiunto questo obiettivo la Grecia, l’Estonia, la Polonia e la Danimarca. Ma mi pare che la Grecia, con la crisi che ha, spende, secondo i dati Nato, il 2,4% del proprio Pil per il militare. Però qui, appunto, bisogna stare attenti perché c’è il trucco: cioè la spesa militare deriva dalle casse pubbliche, cioè da denaro pubblico, quindi il rapporto tra spesa militare e Pil è notevolmente sfalsato. Bisogna rapportarla alla spesa statale in quanto è denaro pubblico. Ora se noi andiamo a vedere la spesa militare statunitense – non di Trump ma quella dell’amministrazione Obama che ora Trump vuole aumentare – oltre al budget propriamente detto del Pentagono (questi 664 miliardi di dollari) troviamo altre voci di carattere militare. Per esempio le armi nucleari; che non gravano sul bilancio del Dipartimento della difesa, ma su quello del Dipartimento dell’energia. E quindi quando trovate 12 miliardi di dollari annui per le armi nucleari non le trovate nel bilancio del Pentagono. Lo stesso va fatto per aggiungere gli aiuti militari all’estero, che sono chiaramente uno strumento militare. E si parla di circa 50 miliardi di dollari annui, che si sommano al bilancio del Pentagono. Poi c’è ovviamente la grossa voce dei militari a riposo, una spesa che supera i 160 miliardi annui e quindi c’è la voce, ovviamente segreta, dei servizi segreti. Una cifra così, induttiva, parla di circa 50 miliardi annui. Ma è la punta dell’iceberg. Quindi se noi facciamo i conti tra la spesa militare complessiva statunitense e la spesa federale, ripeto, il Pil, noi vediamo che gli Stati Uniti spendono qualcosa che arriva a circa un dollaro su quattro, direttamente o indirettamente, a scopo militare. C'è questa sensazione giusta, di reazione, perché non si può essere contenti che abbia vinto Trump; ma tutto questo l’aveva detto nella campagna elettorale e ora mantiene la promessa. Quindi vuole aumentare il bilancio militare più di quanto aveva annunciato l’amministrazione Obama. Però stiamo attenti, guardiamo in casa nostra. Anche la spesa militare italiana, dopo un certo periodo di relativo calo, ha cominciato a riaumentare. Oggi, secondo i dati ufficiali della Nato, l’Italia spende 55 milioni di euro al giorno per il militare. Se andiamo ad altri calcoli, fatti ad esempio da Milex, comprese altre voci, si arriva a 64 milioni di euro al giorno. Dato che l’Italia sicuramente è intenzionata ad arrivare al 2% del Pil per la spesa militare, bisogna entrare nell’ordine di idee che la spesa militare italiana arriverà, tra non molto, a 100 milioni di euro al giorno. Altri paesi europei stanno facendo la stessa cosa. Se guardiamo la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, c’è una tendenza generale... Con questo ho concluso. Il messaggio è questo: d’accordo, puntiamo il dito su Trump, ma non dimentichiamo la tendenza complessiva e, soprattutto, puntiamo il dito sul governo italiano...

La tendenza, per concludere, è quella: tutti i paesi stanno investendo maggiormente in spese militari e non è comunque un buon segno in generale, questo...

No, perché poi se si va a vedere naturalmente Cina, Russia, Arabia Saudita, India, Giappone, tutti sono in aumento. E’ una tendenza pericolosissima, ovviamente, è un po’ la cartina di tornasole della situazione mondiale. Ora però non entriamo in altro campo, rimaniamo alla spesa militare.

Grazie Manlio Dinucci, buona giornata, buon lavoro.

Anche a voi.

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Caso Yucel, le vendette del sultano

La vicenda che ha condotto da due settimane in carcere il giornalista tedesco di origine turca Deniz Yucel è di quelle che, coinvolgendo gli affari loschi di famiglia del presidente Erdoğan, ha ricadute pesantissime. Il sultano da oltre un triennio è impegnato su due terreni di scontro politico-giudiziario. Il principale coinvolge l’accentramento autoritario del suo modello di Islam politico, l’altro ha risvolti sugli intrighi economico-politici del suo clan. Entrambi i terreni vedono impegnate le forze dell’opposizione, soprattutto quella sociale che ne contesta contenuti e modalità, più la pattuglia dell’informazione impegnata a indagare e rivelare i tragici giochi di potere del padre-padrone, intento a rinnovare la patria secondo voleri e interessi personali. Yurcel inseguiva la pista delle rivelazioni di Wikileaks sulle mosse del ministro dell’Energia, nonché genero del presidente, Berat Albayrak, rafforzate dall’operazione di hackeraggio del gruppo RedHack, che nei mesi scorsi ha scaricato una gran quantità di gigabyte dell’account postale dell’uomo politico. Questi, ben prima dell’incarico istituzionale e dei legami familiari con gli Erdoğan e anche dopo, dal 2000 al 2016, ha intrattenuto contatti con l’azienda PowerTrans interessata al commercio petrolifero. Un mercato che si è aperto all’Isis, proprio nel periodo in cui la sigla jihadista ha creato il Daesh, imponendo la macabra presenza nell’area siro-irachena e controllando almeno una dozzina di giacimenti di idrocarburi. Alcune delle 58.000 email pubblicate da Wikileaks, riguardavano l’impacciato tentativo del ministro turco di cercare coi suoi legali escamotage per dimostrare di non aver rapporti con quella ditta.

Oltre all’imbarazzante posizione di mister Albayrak, diventato un politico di grido nelle gerarchie dell’Akp dopo essersi accasato con Esra, la maggiore delle figlie del Capo di Stato, all’epoca premier, le lettere trafugate rivelavano tutte le mosse realizzate dal cerchio magico del sultano per contrastate l’aggregazione social-progressista che la contestazione del Gezi park andava creando. Siamo nella primavera 2013. Un fenomeno prettamente istanbuliota, con echi allargati a qualche altra città metropolitana, un po’ Ankara e la sempre repubblicana Izmir, che mette però in palpitazione l’establishment turco e accentua la divisione con alcune figure di primo piano. Su tutti l’allora presidente Gül che prende le distanze dalla dura repressione ordinata da Erdoğan. Frattanto nel sud-est anatolico montava la rivendicazione kurda confortata dalla grande avanzata del nuovo soggetto politico, il Partito democratico dei popoli, allargato a elementi marxisti e progressisti. La polarizzazione che, con crescendo rossiniano, ha raggiunto i picchi oggi conosciuti, parte da lì. Coinvolgendo altri scenari e altri soggetti, ma in tal senso l’individualismo egocentrico di Erdoğan ha ampliato e intrecciato visuali d’incontro, trasformandole in terreni di contrasto, un po’ con tutti: kurdi, gülenisti, jiahadisti. Si dirà: è la politica ‘a tuttotondo’, in realtà l’uomo che vuol impersonare la Turchia e propone un’accettazione passiva dei suoi piani, lascia in alternativa solo ‘il tuttoscontro’. Fra i nemici acerrimi da combattere ci sono i giornalisti. In questo l’uomo forte anatolico, non è diverso da altri megalomani avvinghiati al potere, con l’ausilio delle urne o di giochi delle parti, per conservarlo a vita. Statisti pronti a screditare, arrestare, eliminare i ficcanaso dei media. In alcune latitudini anche fisicamente.

Ed eccole le persecuzioni delle testate d’opposizione: la filo kurda Özgür Gündem, la progressista Cumhuriyet; oppure il repulisti attuato verso il gruppo mediatico Koza-İpek Holding (quotidiani Zaman, Bugun, Millet e la tv Kanaltürk) afferente alla cerchia di Fethullah Gülen e perciò perseguitato con chiusure, epurazioni e sostituzione di direttori e corpo redazionale (diversi giornalisti della vecchia gestione sono finiti in prigione, alcuni ci sono rimasti). Poi, quando si tocca il terreno minato d’interessi di clan, che sono ovviamente coinvolgimenti anche politici perché la faccenda dell’acquisto del petrolio dall’Isis che fa il paio con quella delle granate nascoste nelle casse dei medicinali, hanno valenza pubblica e statale, allora al presidente che si sente intoccabile fumano gli occhi. Così attacca pure il reporter Yucel che è turco, ma lavora per la testata tedesca Die Welt, e la sua detenzione sta avendo una ricaduta diplomatica, visto che la cancelliera Merkel ha, per ora, espresso il proprio “disappunto” e sotto la pressione di colleghi di Yucel, ripresa da diversi parlamentari del Bundestag, dovrebbe tornare sul tema. Per ora s’è mosso il ministro degli Esteri di Berlino, Gabriel, rimarcando il differente approccio verso la stampa fra la propria democrazia e le misure attuate da Ankara. Vedremo il seguito, non dimenticando che l’Unione Europea, e la Merkel in persona, debbono a Erdoğan i patteggiamenti sui profughi siriani e l’autunno elettorale tedesco si preannuncia di fuoco. Così Yucel potrebbe rimanere ostaggio fino ad allora, se non oltre.

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Xero tolerance


Netanyahu insiste: ai palestinesi solo uno Stato senza sovranità

di Michele Giorgio – Il Manifesto

È uno Stato a sovranità limitata – una sorta di Portorico del Medio Oriente? – quello che Benyamin Netanyahu ha in mente per i palestinesi, in ciòche resterà della Cisgiordania dopo le prossime ondate espansive degli insediamenti israeliani. Secondo Radio Israele è, più o meno, questo che il premier israeliano ha spiegato alla ministra degli esteri australiana Julie Bishop che gli aveva chiesto cosa intendesse quando parla di sostegno a uno “Stato palestinese”. Netanyahu, in visita ufficiale per quattro giorni in Australia, ha aggiunto che l’insistenza di Israele a mantenere il controllo di sicurezza di tutta l’area deriva dai “fallimenti” delle forze internazionali chiamate a sorvegliare i confini del Paese. E non è passata inosservata la mancanza di riferimenti alla soluzione dei Due Stati nella dichiarazione rilasciata dal primo ministro al termine dell’incontro con il suo omologo australiano Malcom Turnbull.

Netanyahu parla sempre più spesso di uno Stato palestinese “minus”, senza sovranità reale. Il via libera di Donald Trump a soluzioni “alternative” ai Due Stati ha galvanizzato il premier israeliano, spingendolo a fare una retromarcia parziale rispetto al riconoscimento che fece nel 2009 del diritto dei palestinesi all’indipendenza. In questo modo non  deve rimangiarsi – come gli chiede la destra religiosa, “Casa ebraica” – quanto affermò otto anni fa e allo stesso tempo può teorizzare uno Stato-non Stato arabo tra Israele e la Valle del Giordano, ottenendo qualche iniziale ma importante consenso sulla scena internazionale. Netanyahu perciò torna alla sua teoria, resa esplicita in un editoriale apparso una ventina di anni fa sulla stampa americana – una sorta di orazione  funebre degli Accordi di Oslo che lui stesso aveva contribuito ad affossare durante i suoi  primi tre anni da premier (1996-99) , sull’impossibilità per alcuni popoli di conquistare la piena autodeterminazione se ciò mette in pericolo la sicurezza di un altro popolo.  Unico cruccio per il premier, almeno a dar credito a quanto riferiva ieri sera il giornale Haaretz, l’assenza, per il momento, di un accordo con Trump sulle colonie.

Le indiscrezioni della radio israeliana sul contenuto del colloquio tra Netanyahu e la ministra australiana Bishop sono giunte mentre a Ginevra il presidente palestinese Abu Mazen si rivolgeva ai rappresentanti dei Paesi nel Consiglio dell’Onu per i Diritti Umani per denunciare quello che ha descritto come il tentativo di Israele di imporre un sistema di apartheid. Ha quindi lanciato un appello per la difesa del principio dei Due Stati e a stabilire un regime di protezione internazionale che garantisca la fine della «violazione dei diritti fondamentali» del popolo palestinese. Dopo aver denunciato il terrorismo, Abu Mazen ha ribadito la «piena disponibilità a lavorare in un spirito positivo», anche con l’Amministrazione Trump. Disponibilità destinata a cadere nel vuoto secondo le previsioni degli analisti palestinesi e di quei settori del partito Fatah e dell’Autorità nazionale palestinese che non condividono la linea “soft” scelta da Abu Mazen nei confronti della nuova Amministrazione Usa che si mostra apertamente schierata dalla parte di Tel Aviv e disinteressata ad un accordo israelo-palestinese fondato sulle legalità internazionale.

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Somalia - Mohamed Adullahi Mohamed nuovo presidente

di Rachele Gonnelli

Il futuro della Somalia si chiama Formaggio. O meglio Farmajo, nella specie di lingua pidgin che i somali parlano oggi, lingua meticcia con prestiti di parole inglesi, italiane e arabe spesso storpiate o «rivisitate». Mohamed Adullahi Mohamed si insedia oggi (scorsa settimana per chi legge, ndr) nel palazzo presidenziale della capitale, «Villa Somalia»: è il primo presidente eletto da vent’anni e passa, anche se non ancora a suffragio universale – e già questa potrebbe bastare come occasione di festa per quanto blindata dopo l’attentato che ha fatto 39 morti in un mercato dei sobborghi della città – ma è più noto con il soprannome, Formaggio o Farmajo, appunto.

Il nomignolo gli è rimasto appiccicato come eredità dal padre durante la sua infanzia passata in Italia, perché – come confessò partecipando alla seconda conferenza internazionale della diaspora somala a Roma nel dicembre del 2011 – lui i latticini sì, li mangia, ma non ne ha una insana passione. Farmajo è però un nome popolare e lui che è un intellettuale prestato alla politica, sostanzialmente al di fuori delle guerre claniche che insanguinano il paese dalla fine della dittatura di Siad Barre nel 1992, lo sta usando per accrescere la sua popolarità in patria, dove è tornato in pianta stabile da poco più di un mese, dopo un periodo occupato in giro per le varie comunità somale all’estero che lo hanno acclamato loro candidato.

Somalo di New York, Mohamed A. Mohamed Farmajo, nato a Mogadiscio nel 1962, è un professore di storia dell’Università di Buffalo con doppia nazionalità. Tra l’85 e l’89 è stato ambasciatore negli States ed è poi passato all'incarico di premier per un breve periodo, solo sei mesi a cavallo tra il 2010 e il 2011, al termine dei quali si dimise senza dare una motivazione chiara ma probabilmente per non accettare alcuni diktat che cercavano di imporgli sottobanco. Gode di una fama di uomo rigoroso e onesto, l’ex presidente Barack Obama gli ha stretto la mano a Londra. E proprio per questo, nella terra con l’indice di corruzione più alto nella scala dell’ong Transparency International, la sua elezione è stata una parziale sorpresa, lo scorso 8 febbraio.

Il favorito era infatti il presidente uscente, Hassan Sheikh Mohamud, anche lui somalo-americano che invece ha ottenuto appena la metà dei consensi raccolti da Farmajo e dopo quattro anni al potere si è fatto signorilmente da parte dopo la sconfitta al secondo dei tre turni. Quella che si è svolta nell’hangar dell’aeroporto di Mogadiscio era pur sempre una elezione di secondo livello tra i 275 deputati e 54 senatori, delegati dei 14 mila «grandi elettori», scelti con la formula Four.Five adottata dalle autorità di transizione che da anni cercano di ricostruire un brandello di amministrazione statuale in Somalia.

La formula indica la suddivisione dei delegati per le quattro kabile o clan principali, più una quota per i cinque sottoclan o clan minori. Ancora niente a che vedere con «una testa un voto» che un paese dove non esiste più una anagrafe degna di questo nome con una popolazione stimata in 12 milioni di abitanti dovrebbe adottare, nei piani, soltanto nel 2020. Prima di allora Farmajo dovrebbe rimettere in sesto almeno un po’ l’apparato statale, a cominciare dal pagamento degli stipendi alla polizia locale che altrimenti o si vende alla milizia del miglior offerente o fa rapine e ruberie direttamente in proprio, tartassando la popolazione. E infatti il primo atto in assoluto di Farmajo appena insediato è stato il pagamento online, tramite telefonino, degli stipendi arretrati.
Canzoni melodiche e rap già vengono cantate in suo onore, usando come ritornello la frase, un vero tormentone, «Ar Farmajo hala i geeyo», cioè «portatemi da Formaggio» o anche «portatemi Formaggio»: è ciò che ha detto delirando un contadino chiedendo di essere portato al suo cospetto e lui, il neopresidente, lo ha assunto come suo primo dipendente.

C’è un video che narra questa storiella che ha fatto in meno di una settimana quasi 70 mila visualizzazioni su uno dei canali Youtube di intrattenimento che i somali guardano per evadere dalla dura vita segnata ora anche da una pesante siccità che ha colpito il Corno d’Africa – Ixti raam tv , nel video, si accavallano ovili, pastori che cantano il refrain, e Farmajo tra bandiere e magliette azzurre con la stella bianca a cinque punte, ricordo della Grande Somalia che oggi comporrebbe Somalia, Somaliland, Gibuti, Ogaden e parte del Kenya. Il suo compito non è quello di ripristinare la vecchia gloria del sultanato ma fa appello a una sovranità nazionale lacerata e fatta a brandelli dalle continue intromissioni dei paesi confinanti, in particolare Kenya e Etiopia, anche con il benestare di organizzazioni internazionali come l’Igad e Amisom che così invece di stabilizzare la Somalia l’hanno depredata contribuendo a portare acqua ai qaedisti prima delle Corti islamiche e poi agli Shabab.

Shukri Said, attrice, blogger italo-somala, organizzatrice della conferenza della diaspora a Roma, fa notare che oltre a dover garantire la sicurezza per le strade di Mogadiscio e della Somalia, Farmajo dovrà far valere i diritti statuali minimi. Perché per capire meglio cosa vuol dire «Stato fallito», una definizione più calzante sarebbe Stato privatizzato. «Attualmente – dice Said – tutti i servizi in Somalia sono privati, non solo la scuola e la sanità, ma persino il prefisso telefonico e il codice di avviamento postale, si sono impadroniti di tutto». Oggi il porto di Kismayo è in mano al Kenya che non lo molla (c’è una causa all’Aja intentata da Mogadiscio) mentre recentemente molte altre infrastrutture fondamentali quali lo scalo internazionale, i radar, sono finiti in mano turche, naturalmente senza gare d’appalto.

Erdogan non a caso è stato uno dei pochissimi leader esteri ad andare in visita ufficiale a Mogadiscio. La presenza di Ankara si è fatta sentire negli ultimi quattro anni anche tramite gli uomini d’affari del raggruppamento Damul Jadid, vicini alla Fratellanza musulmana, legati al presidente uscente Hassan Sheikh Mohamud.

Molti sono i dossier scottanti che Farmajo avrà da oggi sul suo tavolo – dai rapporti con Trump che ha inserito la Somalia tra i sette paesi del Muslim ban ai respingimenti dei somali dal campo profughi più grande del mondo al confine con il Kenya, il campo di Dadaab – ma, come dice Annarita Puglielli, presidente del Centro Studi Somali dell’Università Roma Tre, non ultima sarà la formazione di una nuova classe dirigente locale.

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Il Rebus dell’elezioni politiche genovesi nella crisi della politica italiana

Le prossime elezioni comunali a Genova, come nel resto d’Italia saranno un banco di prova interessante per saggiare lo stato dell’arte del processo di delegittimazione delle élites di potere e dei loro attori politici anche a livello locale, così come della capacità di articolare una risposta adeguata all’emergente bisogno di rappresentanza politica, anche in chiave elettorale, delle classi popolari.

Questo contributo, è il primo di una serie che vuole fornire il quadro, non solo delle mutate condizioni della situazione politica locale (e dei suoi intrecci con quello nazionale), ma dei cambiamenti profondi della Superba nel suo complesso: la governace dei processi che la sta attraversando è la vera posta in gioco delle prossime elezioni.

Il suo futuro è incerto e non è ancora scritto.

La competizione elettorale saggerà il prodotto dell’attuale fase di “decomposizione/ricomposizione” delle formazioni politiche emerse con la “Seconda Repubblica” e del loro gradimento da parte dei ceti popolari: seppure hanno apertamente manifestato il loro interesse a governare anche con una scarsa base di consenso – dovuta a quella che sembrava essere una crescente e inarrestabile tendenza all’astensione al voto – devono comunque passare per le forche caudine della prova elettorale che le ha punite quando una parte consistente della popolazione ha visto il voto come uno strumento utile per mettere in discussione il loro operato, come è avvenuto nel recente referendum costituzionale anche sul territorio genovese.

La scissione del PD nazionale e la frammentazione delle correnti interne al PD a livello locale, polarizzate attorno ai “Renzi-Renzi” (come vengono definiti i referenti locali dell’ex Presidente del Consiglio) e i “Bersaniani”, tra cui l’attuale vice-sindaco Bernini – vero deus ex machina della giunta Doria – hanno portato (insieme ad un complicato rapporto con chi ha appoggiato da “sinistra” Doria) ad una notevole empasse nella scelta di un possibile candidato sindaco, questione su cui non sembrano aver trovato la quadra. L’unica sicurezza è la mancata ricandidatura di Doria, e la probabile apertura delle temute “primarie”, osteggiate fino all’ultimo.

Il PD locale non può più attingere da quella cassa continua e apparentemente “senza fondo” che era Banca Carige, a causa degli scandali giudiziari che hanno fortemente depotenziato quella “bolla” di liquidità da cui aveva attinto per i propri progetti e su cui si strutturava la base economica del co-governo regionale Burlando-Scajola, sostanziato in una logica spartitoria di pax con la destra, assieme alla quale formava il trasversale “partito del mattone”.

Giova ricordare che le ultime primarie avevano portato alla bocciatura di due “pezzi da novanta” del PD locale: la sindaca Marta Vincenzi, e nientedimeno che l’ex pacifista Roberta Pinotti, a cui è stato dato poi uno dei ruoli più importanti nel governo nazionale.

L’affermazione di Doria alle primarie aveva reso meno appetibile l’ipotesi del Movimento Cinque Stelle e meno travolgente il suo successo elettorale. Il suo candidato sindaco era l’ora fuoriuscito Paolo Putti, storico militante dei pentastellati, figura più rilevante del movimento “No Gronda” (una bretella autostradale classificabile nel novero delle Grandi Opere Inutili devastatrici del territorio). L’affermazione di Doria alle primarie aveva di fatto azzerato ogni ipotesi di intervento “alla sua sinistra” con una presenza alternativa che non fosse mera rappresentazione delle organizzazioni che l’esprimevano. Naturalmente i comitati che l’avevano sostenuto, una volta eletti sono stati di fatto sciolti, e le politiche intraprese, in particolare sulle privatizzazioni delle partecipate, ne hanno stravolto il programma elettorale. Rendendo così la Giunta, guidata dal professore proveniente dall’“aristocrazia rossa” genovese, la disillusione più celere delle tre esperienze delle giunte arancioni, che avevano conquistato in precedenza i comuni di Milano e di Cagliari.

Con il suo operato Doria ha lasciato la maggioranza saldamente nelle mani del PD – con un SEL assolutamente appiattito sulle politiche di fondo – facendo fare ben presto marcia indietro alla parte “migliore” che aveva sostenuto l’emulo di Pisapia.

Le prossime elezioni contribuiranno a comprendere la capacità di tenuta della “narrazione” del M5S, che finora ha incarnato in larghi strati delle classi subalterne quell’alternativa possibile all’attuale quadro politico, anche se le difficoltà della giunta capitolina e le emorragie interne al “movimento”, come a Genova, sembrano metterla seriamente in discussione almeno all’interno della cerchia dei suoi simpatizzanti.

Nel caso genovese l’uscita di tre consiglieri eletti tra le file del movimento (tra cui il capo-gruppo Paolo Putti con una maggiore sensibilità politica per le questioni sociali reali e una opposizione netta ai grandi progetti speculativi), divenuti poi quattro; le aspre polemiche tra il nuovo “gruppo dirigente” (rappresentato per lo più da militanti dell’ultima ora del Movimento, più inclini a concentrarsi sul marketing della comunicazione politica che sulle istanze politico-sociali) e i “fuori-usciti”, o comunque le frizioni tra chi, pur non seguendo il percorso di Putti, ha giudicato eccessivi i toni usati contro di lui (tacciato dallo stesso Grillo di essere un “traditore”), hanno avvelenato il clima.

A questo ha contribuito le discussioni relative alle nuovissime modalità di selezione dei candidati sindaco e consiglieri, il cosiddetto “Metodo Genova”, che forse avvia una nuova fase nella modalità di selezione “blindata” del personale politico pentastellato che si candida a governare una città. Il candidato sindaco sarà chi – nella rosa dei candidati consiglieri – riceve più voti, e i candidati consiglieri saranno scelti a loro volto sola tra coloro che hanno espresso la preferenza per il candidato sindaco che risulta vincitore, blindandone così l’ipotetica giunta. Questi fattori potrebbero “indebolire” l’ipotesi dei 5 Stelle come alfiere degli interessi popolari.

Certamente si sta assistendo ad un riposizionamento complessivo del Movimento, più incline ad accreditarsi complessivamente come opzione di governo affidabile per parti importanti del blocco di potere; un ceto politico “neo-borghese” pronto a raddrizzare le storture del sistema – caratterizzato anche a Genova da un sistema di clientele, corruzione e intrecci con la criminalità organizzata – ma dentro l’orizzonte di una "governabilità" che non solo non mette in discussione, ma rischia di non scalfire nemmeno i pilastri dell’attuale assetto politico-sociale a livello locale, né i profondi processi peggiorativi che sta conoscendo la Superba.

La “sinistra” e i corpi sociali intermedi che ad essa afferiscono (dirigenza di Camera del Lavoro, Arci, Comunità di S.Benedetto, “terzo settore”, associazionismo, tra gli altri) rinnova per lo più quel ruolo di subalternità all’asse di potere del PD che, se non si trasformeranno in accordi elettorali veri e propri, non ne mette in discussione le linee guida. Concependo il più delle volte solo “frizioni” che non hanno portato ad una convergenza con la Giunta (espressesi parzialmente, e solo a fine mandato) a semplici “incidenti di percorso”; come del resto sembrano confermare le vicende legate al tentativo di privatizzazione dell’azienda pubblica che gestiste il ciclo dei rifiuti, conferendola a Iren, una multi-utility che già gestisce le risorse idriche genovesi attraverso una sua controllata.

Lo spettro delle Regionali, dove la mancata alleanza con il PD (il cui corpo elettorale non ha metabolizzato positivamente la scelta di candidare la Paita da parte del suo grande sponsor Burlando) ha fatto perdere la Regione al centro sinistra “regalandola” alla destra, e lo spauracchio di “un anti-Berlusconismo senza Berlusconi” sembra essere l’idea-forza della narrazione di quella “sinistra” incline ad una alleanza con il PD.

Questa “sinistra” ha sempre sostenuto la giunta arancione nelle sue scelte peggiori di fondo: la fine dell’ipotesi del centro-sinistra ha prodotto perciò un effetto “si salvi chi può”, in cui il toto-candidato assomiglia più ad un immagine caricaturale delle fantasie del calcio mercato che ad una sfida elettorale; auto-candidature di personaggi screditati dal loro pervicace carrierismo e vere e proprie invenzioni giornalistiche. Anche quando hanno tirato fuori dal cappello il “meno peggio” – il presidente della Fondazione Ducale, Luca Borzani – tutta l’operazione cosmetica non si discostava da una copia in sedicesimi della fallimentare "rivoluzione arancione", nonostante l’indubbio valore e “il capitale simbolico” del candidato.

La destra cittadina è storicamente debole e frammentata, ma “ringaluzzita” dalla recente conquista della Regione e del vicino comune di Savona. Al suo interno la componente leghista non si è mai radicata nel capoluogo Ligure, mentre la mancanza di una “destra sociale” vicina alla galassia dei gruppi neo-fascisti – comunque presenti ed in cerca di visibilità – non conta nei giochi politici della Superba. Questo non vuol dire che la destra non punti su Genova; anzi sembra essere anche per lei un banco di prova per una possibile candidatura unitaria, in una sorta di “destra plurale”. Questo non tanto per un calcolo sulle sue forze, ma per le debolezze dell’avversario. Di fatto la destra non ha mai visto i propri interessi intralciati dal centro-sinistra, se non nelle sue più oltranziste ed episodiche crociate che hanno tratto forza più dalla cattiva gestione del centro-sinistra su alcuni temi delicati che da una vera e propria capacità politica.

Naturalmente una sinistra “sex and the city” che ha saputo condurre battaglie solo sui diritti civili individuali, mentre era protagonista, o nel migliore dei casi spettatrice, del taglio delle garanzie sociali delle classi subalterne; una "sinistra" espressione di quel ceto medio-alto, cui è spesso debitrice per la propria condizione sociale, risulta un facile bersaglio per gli attacchi della destra.

Altro cavallo di battaglia è il sovranismo di destra, specie se il “sovranismo” del Movimento 5 Stelle venisse ulteriormente diluito; un argomento che, se ben dosato, potrebbe populisticamente intercettare il risentimento delle classi subalterne in chiave anti-europeista, attraverso la narrazione del ritorno dell’Italietta della Lira.

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Shifa, martire della notizia

Ha finito di narrare prestissimo Shifa Gardi, reporter e capo produzione dell’emittente kurda Rûdaw. A trent’anni è diventata lei stessa vittima dell’offensiva sul fronte di Mosul che, come tanti, semina morte fra combattenti in divisa e popolazione civile, con l’aggiunta degli operatori dei media. Era già accaduto a un giornalista d’una tivù irachena. Shifa è stata investita dall’esplosione d’una bomba mentre effettuava un’intervista a un comandante sciita che la conduceva accanto a un enorme buco sospettato d’essere la tomba di un eccidio di massa compiuto dai miliziani dell’Isis. L’uomo inavvertitamente ha urtato l’innesco d’una mina antiuomo che l’ha dilaniato assieme alla giornalista e altri quattro guerriglieri kurdi. Ferito l’operatore della tivù che è stato trasportato presso l’ospedale di Erbil. La Gardi è ricordata dai colleghi come un elemento audace, per nulla intimorita dai rischi del fronte di guerra. L’inchiesta che stava realizzando si rivolgeva alla cosiddetta “valle della morte”, un’area a una ventina di chilometri a sud di Mosul e cinque dalla strada di collegamento fra questa città e Baghdad, dove si pensa che i jihadisti abbiano compiuto massacri di massa. Il lavoro s’inseriva negli approfondimenti della rubrica da lei curata con meticolosità professionale e una speciale umanità. I combattenti kurdi la considerano una martire, impegnata sullo stesso fronte semplicemente con altre armi. E’ un'immensa perdita per l’informazione di prima linea.

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USA, i Democratici scelgono Perez

di Michele Paris

Nel fine settimana appena trascorso, il Partito Democratico americano ha scelto come nuovo segretario il candidato dell’establishment ufficiale, appoggiato dal clan Clinton e dalla maggior parte dei membri dell’amministrazione dell’ex presidente Obama. L’elezione di Thomas Perez è stata probabilmente la più combattuta nella storia del Comitato Nazionale Democratico (DNC) e ha confermato sia le tensioni nel partito dopo l’umiliante sconfitta nelle presidenziali di novembre sia l’impossibilità di riformarlo dall’interno in una direzione anche solo vagamente progressista.

Per molti “liberal” americani, il successo relativamente di misura di Perez è stata una sorpresa negativa, viste le aspettative riposte nel suo principale sfidante, il deputato musulmano del Minnesota, Keith Ellison. Quest’ultimo era di fatto collegato al movimento nel Partito Democratico coagulatosi attorno alla candidatura alla presidenza del senatore del Vermont, Bernie Sanders.

Le modalità con cui Sanders era stato sconfitto nelle primarie vinte da Hillary Clinton e le frustrazioni dei suoi sostenitori avevano causato forti preoccupazioni tra i vertici del partito, moltiplicatesi dopo la vittoria di Donald Trump. Per contrastare la crisi dei Democratici e l’emorragia di consensi si era provato così ad aprire le porte del partito a uomini vicini a Sanders, in modo da dare l’illusione della disponibilità a integrare un messaggio politico di “sinistra”.

In questo quadro, l’eventuale elezione di Ellison a numero uno del Comitato avrebbe potuto rappresentare una concessione simbolica e, tutto sommato, inoffensiva alla base “liberal”. Infatti, questo organo non ha particolari funzioni di elaborazione politica, ma serve più che altro a raccogliere fondi e a coordinare le strategie elettorali dei candidati Democratici ai vari uffici federali e locali.

La promozione e il successo di Tom Perez, ex ministro del Lavoro di Obama, ha invece suggellato il dominio del tradizionale apparato di potere Democratico sul partito. Una prova di forza, quella andata in scena sabato scorso ad Atlanta, che si è resa necessaria per bloccare sul nascere qualsiasi illusione sulla natura di un partito che è semplicemente l’espressione di quei poteri forti americani non schierati dalla parte dei Repubblicani.

L’elezione di Keith Ellison, al di là delle sue attitudini non esattamente rivoluzionarie, avrebbe potuto cioè ridare un qualche entusiasmo alla tradizionale base elettorale Democratica, minacciando la traiettoria reazionaria pro-business imboccata dal partito e dai suoi leader ormai da svariati decenni.

Per dare una qualche impressione di cambiamento, Perez aveva abbracciato quasi per intero l’agenda nominalmente “liberal” di Ellison. Dopo l’ufficializzazione dei risultati del voto dei membri del DNC nella serata di sabato, inoltre, il nuovo numero uno del partito si è affrettato a fare appello all’unità, nominando a proprio vice il suo sfidante.

La mossa era con ogni probabilità già stata studiata, visti anche gli ottimi rapporti tra i due, ma ha assunto carattere di urgenza dopo che l’annuncio della vittoria di Perez era stato accolto dai sostenitori di Ellison con urla di rabbia e slogan che invitavano a consegnare il partito “al popolo” e “non ai grandi interessi economici”.

L’esito del voto indica comunque l’esistenza di gravi divisioni sugli indirizzi del partito, non tanto per dare o meno una reale rappresentazione agli interessi di lavoratori e classe media, quanto piuttosto sulle concessioni esteriori necessarie per mantenere un’immagine credibile ed evitare di perdere del tutto la propria base elettorale nel paese.

Le apprensioni che circolano tra i Democratici sono state confermate dai numeri stessi. Mentre in passato l’elezione del numero uno del DNC era stata quasi sempre una formalità, sabato sono state necessarie due votazioni. Alla prima, Perez ha mancato la quota che gli avrebbe garantito il successo immediato per un solo voto. Alla seconda ha alla fine prevalso con 235 voti contro i 200 raccolti da Ellison.

Nelle primarie per le presidenziali dell’anno scorso, i membri del DNC che si erano schierati con Sanders erano stati appena 39 su quasi 450 totali, a conferma che da allora i vertici Democratici hanno moltiplicato gli sforzi per cooptare i sostenitori del senatore ed evitare una possibile spaccatura nel partito.

Anzi, nell’elezione a segretario del partito, Ellison aveva ottenuto anche l’appoggio di personalità importanti nell’apparato di potere Democratico, a cominciare dal leader di minoranza al Senato, Charles Schumer. Al suo fianco si erano schierate anche varie organizzazioni sindacali che un anno fa avevano invece sostenuto la candidatura di Hillary Clinton alla Casa Bianca.

Sulla sorte di Ellison hanno pesato inoltre le accuse di anti-semitismo che gli sono state rivolte e il suo presunto insufficiente impegno a favore di Israele. Secondo alcuni, la presa di posizione contro il deputato del Minnesota da parte del finanziatore Democratico israeliano-americano, Haim Saban, aveva rappresentato una sorta di veto per quest’ultimo. Saban e la moglie sono d’altra parte molto influenti nel partito, avendo donato negli ultimi anni ai suoi organi, nonché soprattutto alla famiglia Clinton, svariate decine di milioni di dollari.

La questione del nuovo segretario del Partito Democratico ha ad ogni modo suscitato poco interesse negli Stati Uniti al di fuori degli ambienti della politica e della stampa ufficiale. La sostanziale indifferenza in cui si è tenuto il congresso di Atlanta è stata dovuta anche all’assenza dal dibattito tra i candidati delle questioni politiche ed economiche più urgenti.

Soprattutto, poi, nessuno ha fatto accenno ai motivi che hanno gettato il partito nel discredito e permesso l’elezione di Trump alla presidenza, vale a dire la deriva reazionaria che ha raggiunto il culmine negli otto anni di presidenza Obama segnati da guerre, austerity e smantellamento costante dei diritti democratici.

Su questi punti, il Comitato Nazionale Democratico non ha avuto nulla da dire. Anzi, su un’altra questione che sta animando il dibattito politico USA, quella della presunta influenza del governo russo sull’amministrazione Trump, l’atteggiamento che ha prevalso in larghissima misura è stato di isteria e di assecondamento della caccia alle streghe in atto.

In questo senso si era espresso lo stesso Ellison nel corso di un dibattito tra i candidati alla guida del DNC trasmesso pochi giorni prima del voto dalla CNN. Perez, a sua volta, dopo avere incassato il successo è apparso nei programmi politici della domenica mattina per puntare di nuovo il dito contro Mosca, chiedere un’indagine sulle interferenze russe nel processo elettorale americano e collegare Trump al presidente Putin.

Le parole del nuovo segretario Democratico hanno così confermato come la battaglia del suo partito contro la nuova amministrazione Repubblicana continuerà a essere condotta principalmente da destra e avrà al centro gli interessi di quella parte della classe dirigente USA che considera la Russia come il proprio principale nemico strategico.

Parallelamente, la linea del Partito Democratico non divergerà da quella mantenuta finora, favorevole cioè ai grandi interessi economici e finanziari. Questa tendenza è stata confermata, tra l’altro, dal voto del Comitato nella giornata di sabato per bocciare la reintroduzione del divieto, deciso da Obama nel 2008 e abolito prima delle elezioni del novembre scorso, di accettare contributi elettorali dalle grandi aziende americane.

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Professionismo politico, classe dirigente, militanza: facciamo un po’ di chiarezza

Uno dei miei articoli più recenti ha un po’ disorientato i lettori al punto che uno mi scrive:

Sono confuso...
 prima malediciamo i professionisti della politica... causa principe dell’allontanamento dalla politica dai cittadini... gente che è stata in politica per decenni, produttrice di disastri, servi dei poteri forti e allergici alla democrazia... ora me ne si esce con la necessità di avere dei professionisti della politica, gente che conosce i meccanismi istituzionali ecc... Dunque: I politici di professione. No!  Allora cittadini impreparati ma onesti, No! Allora mettiamo dei Tecnici superspecializzati, No! Sarebbe un altro Monti. Mi permetta una battuta di colore: Ma chi minchia ci dobbiamo mettere al Governo? 
Vi ricordo che attualmente abbiamo Alfano... al ministero degli esteri... mi vorreste dire che un Di Battista o un Di Maio sarebbero peggio? ... Mister Giannuli, questa volta mi ha proprio confuso le idee! Al che torniamo al punto di partenza... meglio un incompetente onesto alla Di Battista che un incompetente ma “professionista della politica” come quel simpaticone di Alfano?

Insomma l’alternativa è fra politici di lungo corso, arraffoni ed incompetenti, oppure onesti sprovveduti o, al massimo tecnocrati alla Monti. Messa così, stiamo a posto.

Bene, allora è il caso di chiarirsi un po’ le idee. In primo luogo rassegniamoci all’idea che la politica è uno specialismo che, soprattutto ai livelli più alti, esige una preparazione di qualità corrispondente. Non c’è motivo per ritenere che la politica sia una cosa più semplice della medicina, dell’informatica, del diritto o dell’economia, che richiedono una preparazione specifica: o voi vi fareste operare da una persona onestissima, ma che confonde il polmone con il pancreas e non sa leggere una analisi?

Certo l’onestà è una qualità importante in un politico ma ricordiamoci che ricoprire un’importante carica dello Stato senza essere all’altezza del compito è l’atto più disonesto che si possa fare. Il guaio è che gli ominicchi della seconda repubblica – salvo rarissime eccezioni su cui potremmo discutere – non sono affatto politici, ma volgari politicanti, che hanno come unica competenza quella di arrampicarsi nel sistema sino alla poltrona più alta possibile. E questo ha caratterizzato la grande maggioranza di parlamentari, ministri e sottosegretari di questo quarto di secolo di tutti i partiti: da An al Pds-Ds-Pd, da Rifondazione Comunista (che esprimeva gruppi parlamentari imbarazzanti) a Forza Italia, dalla Lega alla Margherita.

Il ceto politico della Seconda Repubblica, prodotto dal sistema elettorale maggioritario, non sarà mai abbastanza maledetto per aver distrutto la stessa idea di politica ed averla avvilita al livello del peggiore politicantismo e, se un cittadino vede un personaggio come Alfano ministro di Grazia e Giustizia, poi dell’Interno, poi degli Esteri, giustamente pensa: “Ma perché non lo posso fare io? Cosa sa più di me?”.

E qui c’è un altro chiarimento necessario: ma in cosa consiste questo specialismo e come deve prepararsi un politico vero?

Al politico si chiede soprattutto di saper assumere decisioni adeguate ai problemi da affrontare: concludere un trattato commerciale, fare una legge per il contrasto alla corruzione, introdurre o abolire una tassa, affrontare il problema delle ondate di immigrati, modificare o meno il testo della Costituzione, progettare una riforma della scuola o della sanità sono tutte decisioni che presuppongono una preparazione in merito, e non solo sul singolo problema, ma capace di individuare gli effetti imprevisti.

Ad esempio, se decidi di obbligare i medici a denunciare l’immigrato clandestino che cura, devi mettere in conto che questo potrebbe avere conseguenze molto pericolose nel caso di malattie contagiose. Se, per combattere il terrorismo decidi di autorizzare intercettazioni di massa, devi anche capire che questo comporta un giro di vite nei confronti della privacy di tanti cittadini che con il terrorismo non c’entrano nulla. Se aumenti le tasse devi prevedere una caduta del Pil. Se concedi il reddito di cittadinanza, poi devi prevedere che una intera generazione, fra 20 o 30 anni andrà in pensione con poche centinaia di euro al mese. E se ci sono dei tagli da fare alla spesa pubblica non è la stessa cosa se tagli su pensioni, sanità e istruzione o se tagli le super retribuzioni di manager e consulenti che lavorano per lo stato o sui lavori pubblici e quali, così come fare una patrimoniale è meno semplice di quel che si pensa, perché le soluzioni possibili sono molte e molto diverse fra loro.

Dunque, occorre che ogni singola politica di settore sia inquadrata in una linea politica generale che abbia caratteri di coerenza ed organicità. E neanche questo è sufficiente, perché ogni decisione lede interessi di alcuni e favorisce quelli di altri, per cui occorre poi saper mediare fra le parti sociali, cercando una composizione degli interessi che confermi e non minacci la coesione sociale.

Soprattutto, ad un politico si richiede di avere molta fantasia per trovare le soluzioni migliori, magari nuove, man mano che i problemi vengono avanti. Come si vede, un’attività piuttosto complessa, che non ammette semplificazioni arbitrarie e richiede conoscenze, decisione, fantasia, coraggio nell’affrontare le resistenze dei nemici più forti.

Ma come formare un uomo politico che sappia muoversi su un terreno così complesso? Ovviamente è necessario che ci sia una preparazione teorica di fondo: la politica è anche studiata da una scienza specifica, appunto la scienza della politica o politologia, ed è opportuno che ci sia una preparazione di questo tipo, così come è opportuno che chi si prepara alla carriera politica abbia nozioni di sociologia, di diritto ma, soprattutto di economia (ed io direi anche storia). Poi è necessario avere competenze specifiche nel settore in cui vuoi operare: se vuoi fare il ministro degli esteri, magari è bene che tu sappia qualcosa di relazioni internazionali, geopolitica, diritto internazionale eccetera.

Detto questo, dovremmo concludere che un buon politico debba necessariamente essere laureato in Scienze Politiche? No direi di no, anche perché un laureato in qualsiasi altra disciplina, o anche un non laureato, può benissimo apprendere queste cose con studi personali o, magari, attraverso le scuole di politica che ogni partito dovrebbe organizzare.

Poi la lettura dei giornali e delle riviste specializzate, la partecipazione a convegni e le conversazioni con i colleghi sono altri veicoli di formazione.

Ma questo non basta: una formazione puramente teorica può produrre un buon accademico (forse) ma non è sufficiente per un politico. Neanche il governatore di una banca centrale può basarsi solo sulla sua formazione universitaria: una preparazione teorica è necessaria, ma non basta, a meno di non avere un approccio tutto libresco ai problemi. Poi quello che conta è la prassi: si impara a far politica facendola. La formazione di base serve a capire e valutare le proprie esperienze nel bene e nel male. Un eccesso di teoria porta ad un approccio dogmatico e sterile, ma l’assenza di una formazione di base precipita poi nell’empiria più pura, che impedisce di capire quello che si sta facendo. Dunque, la pratica è la seconda metà della mela, ugualmente necessaria quanto la prima. Ma, ovviamente si tratta di una pratica che ha un valore se è costruita nel tempo: nessuno “nasce imparato” si dice nella mia città d’origine, e la pratica politica è formativa se avviene in un periodo abbastanza lungo.

L’idea che si ottenga un personale di governo con, al massimo, cinque anni di partecipazione istituzionale, per poi congedarlo dopo altri cinque anni, è un’idea semplicemente delirante, scusatemi. Ovviamente, un simile specialismo non si costruisce in tre o quattro anni, ma esige un tempo necessario di maturazione. Però non è affatto vero il contrario: cioè che un personaggio politico che sta sulla scena da 20 anni sia anche un politico preparato, anzi è possibile che sia una capra assoluta. Durata non significa competenza, ma soprattutto, occorre non confondere un decisore politico vero con un volgare politicante.

La politique politicienne (come dicono i francesi) è cosa deteriore da non confondere con la politica e non tutti i politici professionali sono politicanti: Nenni, De Gasperi, Togliatti, Berlinguer, Lombardi, Moro, Fanfani e dico anche Almirante o Romualdi hanno fatto politica per tutta la vita, ma non erano affatto politicanti, erano politici di notevole livello ed alcuni di loro veri statisti. Ovviamente c’è un rischio: che a furia di metter radici nel Palazzo (quello con la P maiuscola) un politico anche di buona stoffa, un po’ alla volta, si affezioni troppo al ruolo e diventi un politicante. E’ un rischio molto forte, con il quale occorre misurarsi.

La classe dirigente va formata (possibilmente dal basso se crediamo nella democrazia), va selezionata con cura, badando tanto al disinteresse personale quanto alla preparazione e capacità, poi va responsabilizzata, controllata, periodicamente “potata” almeno in parte, quindi vigilata nei comportamenti, interrogata normalmente sui propri atti e decisioni, trattata con parsimonia quanto a incentivi selettivi, costantemente obbligata al confronto con possibili successori.

Anche le classi dirigenti prodotte dal basso, magari da una rivoluzione (e il caso Russo mi pare abbastanza istruttivo) fanno presto ad abituarsi alle soffici poltrone del potere: meglio delle poltrone sono le sedie, possibilmente dure e scomode...

Il punto debole più pericoloso del M5s non è quello di non avere una classe dirigente, ma di non aver fatto assolutamente nulla per formarsela. Cari amici ricordatevi di aver avuto successo perché avevate come pietra di paragone i cialtroni della Seconda Repubblica, ma la gente ora vuole di più.

Non basta che Di Maio o Di Battista non facciano peggio di Alfano o Del Rio: devono fare di meglio e di molto meglio. Pensateci.

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27/02/2017

Psycho therapy


Clamorosamente grunge questa cover!

Kwait: lavoratori stranieri sempre più ai margini

di Francesca La Bella

A inizio mese Donald Trump sembrava aver trovato conferma del supporto di alcuni Paesi mediorientali al suo Muslim Ban. La notizia, diffusa da alcuni media internazionali e subito ripresa dal Presidente statunitense, era quella dell’introduzione in Kuwait di un divieto di ingresso per i cittadini di cinque Paesi a maggioranza musulmana: Pakistan, Iran, Afghanistan, Siria ed Iraq. La smentita del Governo del Kuwait è, però, stata immediata e netta: il portavoce del Ministero degli Esteri, Sami al Hamad, avrebbe infatti, dichiarato all’agenzia di stampa statale Kuwait News Agency (Kuna) che il Governo “smentisce categoricamente queste affermazioni e afferma che queste nazionalità segnalate hanno grandi comunità in Kuwait e godono di pieni diritti”.

Una notizia falsa, ma non totalmente inverosimile dato il crescente malcontento dei cittadini kuwaitiani per l’alto numero di stranieri presenti nel Paese. Data la limitata popolazione nazionale e l’economia in continua crescita, il Kuwait è, infatti, da molto tempo meta di flussi di migranti economici provenienti dal mondo arabo e dall’Asia. Secondo l’ultimo censimento datato 2011 la popolazione si attesterebbe intorno ai 3,1 milioni di abitanti di cui 1,1 milioni di cittadini kuwaitiani e 2 milioni di stranieri, ma le stime sono state riviste nel 2016, 3,7 milioni, e nel 2017, 4,1 milioni. Dati da cui sarebbe, però, esclusa una larga fetta di lavoratori stranieri non censiti e appartenenti a minoranze locali come i Bidoon, popolazione beduina solo in parte beneficiaria della cittadinanza kuwaitiana. Secondo gli ultimi dati gli stranieri costituirebbero, dunque, circa il 70% della popolazione nazionale (circa 2,9 milioni) e apparterrebbero a molte comunità nazionali, in particolare alla comunità indiana con (circa 900.000) e a quella egiziana (circa 450.000).

La percezione che la massiccia immigrazione nel Paese sia un problema ha indotto il Kuwait a rivedere più volte il proprio piano di accoglienza. Già nel 2013, infatti, il Governo aveva previsto di tagliare di circa 100.000 unità all’anno il numero dei lavoratori stranieri fino a dimezzarne l’entità in dieci anni. Un programma di ampio respiro che non sembra aver sopito i malumori della popolazione e che è stato ulteriormente potenziato portando il Governo a varare nuove modifiche della legislazione interna. Piccoli cambiamenti che, però, rischiano di avere un significativo impatto sulla quotidianità dei lavoratori stranieri nel Paese.

E’ del novembre 2014, ad esempio, la modifica delle normative riguardanti il rilascio della patente di guida nazionale. La nuova legge prevede l’incremento a 400 dinari (1200 euro circa) del salario minimo necessario perché uno straniero possa ottenere una patente di guida. Il candidato, inoltre, deve risiedere regolarmente in Kuwait da almeno due anni ed essere laureato. Nonostante alcune categorie come giornalisti, professori, sportivi ed altri siano state escluse dal cambiamento, molti lavoratori stranieri hanno perso la possibilità di guidare legalmente con conseguenti difficoltà nel proprio ambito lavorativo e molti altri, trovati senza patente, sono stati espulsi dal Paese. Nei mesi successivi molti altri piccoli cambiamenti sono stati introdotti e, ad esempio, per far fronte alle necessità delle casse statali, lo scorso aprile anche il prezzo dell’energia elettrica e dell’acqua in tutti gli edifici residenziali hanno subito un significativo incremento da cui, però, i cittadini kuwaitiani sono stati esentati.

Secondo quanto riportato in un lungo articolo dell’Associated Press (Ap) di pochi giorni fa, il prossimo passaggio in questa direzione sembra essere quello in ambito sanitario. Dopo l’incremento del ticket per le visite specialistiche dal 15% al 20% limitato ai soli espatriati e il blocco delle visite mattutine per i servizi non urgenti nelle cliniche di Jahra, a ovest della capitale, e nell’Ospedale Amiri a Kuwait City, come evidenziato dalla stessa Ap, ora i lavoratori stranieri potrebbero trovare nuovi ostacoli alla libera fruizione delle strutture mediche. Il Jaber Hospital, prima struttura sanitaria pubblica costruita dopo più di trent’anni e situata a pochi chilometri dalla capitale, potrebbe, infatti, essere il primo ospedale per soli cittadini kuwaitiani. Per quanto alcune voci si siano opposte a questi cambiamenti in quanto contrari al diritto internazionale e alla stessa deontologia medica, la proposta sembra trovare l’appoggio della popolazione locale che, sempre più spesso, imputa ai lavoratori stranieri tutte le principali problematiche del Paese.

La tradizione nazista dell’Ucraina golpista

Corsa ai fasti del Terzo Reich nel paese più europeista, più democratico, più liberale del vecchio continente, nella terra chiamata a costituire il “vallo europeo” a difesa dall'aggressione russa. Il sindaco di Kiev, l'ex delfino della Germania (odierna) Vitalij Kličkò ha inaugurato a Babij Jar, nell'area della capitale ucraina, il monumento alla poetessa Olena Teliga, posto all'incrocio tra via Teliga e via Juvenalij Melnikov, uno dei primi rivoluzionari socialdemocratici ucraini, nel XIX secolo. Nei piani dell'amministrazione comunale via Juvenalij Melnikov verrà presto intitolata a Andrej Melnikov, uno dei leader dell'OUN, l'esercito filonazista che collaborò con le SS nella seconda guerra mondiale e che, secondo le autorità golpiste dell'Ucraina attuale, rappresentò un esercito “di liberazione” dalla “occupazione sovietica”.

Ma, intanto, il monumento alla poetessa Teliga costituisce l'omaggio a una “rappresentante del movimento di liberazione ucraino”, come ha detto Kličkò. Olena Teliga, durante l'occupazione nazista, dalle colonne del giornale “Ukrainskoe slovo”, esortava a farla finita senza pietà con comunisti, “giudei” e altri ”nemici del Reich”, per la creazione di uno “stato ucraino indipendente”, che fosse “il più fedele alleato dell'impero germanico”. Il fatto che il Reich non avesse alcuna intenzione di dar vita a uno stato ucraino indipendente e fucilasse poi l'intera redazione del giornale, è stato preso a pretesto dagli odierni “liberatori” golpisti per l'inaugurazione di tale monumento nell'area in cui i nazisti e i loro collaboratori di OUN-UPA fucilarono alcune decine di migliaia (diverse fonti parlano di oltre centocinquantamila) di comunisti e ebrei ucraini, prigionieri di guerra sovietici, rom. “Non c'è né ci sarà mai alcun internazionalismo” scriveva Olena Teliga, “si può servire una qualsiasi nazione, o una estranea, moscovita, oppure la propria, l'Ucraina”. E già nel 1937, di fronte alla comunità studentesca ucraina di Varsavia, con vero “afflato” poetico: “Amare la propria causa sopra ogni cosa, guardare a essa come alla propria vita – questa grande verità è stata compresa da quelle nazioni che crescono e si rafforzano sotto i nostri occhi: Italia e Germania; “Forza attraverso la gioia”, si chiama così una delle organizzazioni giovanili della nuova Germania”. Firmato Olena Teliga.

Non volendo esser da meno dell'ex pugile prestato da Berlino alla “politica”, il presidente ucraino Petro Porošenko si è invece paragonato direttamente al generale zarista finlandese Gustav Mannerheim, sottolineando come l'ex dittatore fascista sia oggi “molto popolare” in Ucraina. In un'intervista al giornale finlandese Helsingin Sanomat, Petro ha paragonato l'azione terroristica che sta operando da quasi tre anni contro il Donbass, alla cosiddetta “guerra d'inverno” del 1939-1940 tra Finlandia e Unione Sovietica. Ha ribadito il concetto pochi giorni dopo, paragonando la sua guerra contro il sudest del proprio paese a quella dei Baltici contro “l'aggressione di Mosca” nel 1944, in cui le SS estoni, lituane e lettoni “difesero” quei paesi combattendo fianco a fianco con gli hitleriani, sterminando russi, bielorussi, ebrei e partigiani dei loro stessi paesi. A Helsinki, nota Jurij Gorodnenko su Svobodnaja Pressa, hanno preferito sorvolare sulla “popolarità” di Mannerheim, senza ricordare come, già nel 1973, il governo finlandese avesse riconosciuto come criminali le azioni compiute dal maresciallo nel 1918 contro i socialdemocratici finlandesi; senza parlare delle stragi di civili russi, donne e bambini, nell'occupazione della regione di Vyborg, durante la guerra civile contro la giovane Repubblica sovietica. Il “padre della nazione finnica”, cui si paragona oggi il “garante della costituzione ucraina”, fu condannato già a Helsinki nel 1946 per l'aggressione contro l'Urss a fianco delle truppe hitleriane e per le stragi di cittadini sovietici, compreso l'affamamento degli abitanti di Leningrado.

Teliga e Mannerheim: accanto ai Bandera, ai Šukhevič, alle divisioni SS “Galizia” e “Nachtigall”, sono questi, oggi, gli eroi dell'Ucraina golpista. Pronta per l'ingresso nella UE.

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Roma. Pressioni israeliane sul Campidoglio: “Ann Wright non deve parlare”

Il 28 febbraio prende avvio a Roma la 13esima edizione della Settimana internazionale contro l’Apartheid israeliana, iniziativa che si svolge in centinaia di città in tutto il mondo per sensibilizzare il pubblico sulle politiche israeliane di occupazione e di colonialismo di insediamento.

A Roma, la settimana comincia con un’iniziativa di rilievo, “Gaza: Rompiamo l’Assedio”, che vede la partecipazione di Ann Wright, già colonnella nell’esercito degli Stati Uniti e diplomatica presso varie ambasciate statunitensi (biografia di seguito). L’incontro avrà luogo nella Sala della Piccola Protomoteca in Piazza del Campidoglio, martedì 28 febbraio, ore 17. Porterà un saluto il consigliere comunale di SI Stefano Fassina.

L’iniziativa del 28 febbraio rappresenta una straordinaria occasione per sentire le testimonianze di Ann Wright, che è stata a Gaza sette volte e ha partecipato alla Gaza Freedom Flotilla nel 2010 quando nove attivisti furono uccisi dalle forze militari israeliane, e per conoscere le condizioni della popolazione che a Gaza vive sotto assedio da dieci anni ed è soggetta a ripetuti attacchi militari.
Anche questa volta, come da copione, da ieri girano appelli rivolti alla Sindaca Virginia Raggi e alla Giunta capitolina affinché siano negati gli spazi per l’iniziativa.

“Il BDS non è un movimento d’opinione, ma un vero e proprio catalizzatore di odio anti-israeliano e anti-ebraico. Una realtà che si fa sempre più minacciosa, attraversando la società italiana a tutti i livelli. Ogni legittimazione istituzionale a questi malfattori risulta quindi non soltanto fuori luogo, ma decisamente pericolosa per l’insieme della collettività. Mi auguro che la sindaca Virginia Raggi e la sua Giunta intervengano al più presto per porre rimedio a questo increscioso incidente”. Lo afferma la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiana Noemi Di Segni, con riferimento all’iniziativa “Gaza, rompiamo l’assedio” organizzata per il prossimo martedì alla Piccola Promoteca del Campidoglio. Iniziativa che sta raccogliendo diverse proteste, tra cui quella dell’ambasciata israeliana a Roma e dell’associazione Progetto Dreyfus.

Ormai da anni, e non solo in Italia, l’ambasciata israeliana tenta di bloccare le iniziative volte a far conoscere la realtà del popolo palestinese e le azioni della società civile internazionale a sostegno dei suoi diritti. Non avendo argomenti per giustificare decenni di occupazione militare e le numerose e ampiamente documentate violazioni dei diritti del popolo palestinese, ricorre a false e calunniose accuse come quella dell’antisemitismo.

Confidiamo che la Sindaca e la giunta, che sono invitate a partecipare, vogliono garantire gli spazi per un dibattito aperto e in difesa della libertà di espressione.

BDS Roma

L’iniziativa è organizzata BDS Roma: Sezione romana del movimento nonviolento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni nei confronti di Israele lanciato nel 2005 da 170 organizzazioni della società civile palestinese. Il movimento BDS si ispira all’analogo movimento contro l’apartheid in Sudafrica. Il movimento BDS fonda la sua lotta sul rispetto del diritto internazionale e sulla tutela dei diritti umani universali. È contro ogni forma di discriminazione razziale, politica, religiosa e di genere e rifiuta l’antisemitismo, il razzismo, l’islamofobia e ogni ideologia fondata su presunte supremazie etniche o razziali. Sostengono il movimento BDS personaggi come l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, il premio Pulitzer Alice Walker, Roger Waters dei Pink Floyd, il compositore Brian Eno, tra gli altri. In Italia aderiscono al BDS numerose associazioni tra cui i sindacati Fiom, Usb, Pax Christ, l’Ong Un ponte per..., e la Rete Ebrei contro l’occupazione.

Qui di seguito la biografia di Ann Wright:

È stata colonnella nell’esercito statunitense, dove ha prestato servizio per 29 anni. Successivamente ha fatto parte del corpo diplomatico per 16 anni nelle ambasciate statunitensi di Nicaragua, Grenada, Somalia, Uzbekistan, Kyrgyzstan, Sierra Leone, Micronesia, Afghanistan e Mongolia. Si è dimessa dal governo degli Stati Uniti nel 2003 alla vigilia della guerra contro l’Iraq, in segno di protesta contro l'aggressione militare. Da allora è impegnata contro la guerra e l’ingiustizia. È co-autrice del libro “Dissent: Voices of Conscience” sui funzionari governativi che si sono dimessi per protestare contro le politiche di guerra del proprio governo. Ann Wright è stata sette volte a Gaza e ha partecipato più volte alle flottiglie per Gaza, tra cui la Gaza Freedom Flotilla nel 2010, quando nove attivisti sono stati uccisi dalle forze militari israeliane, e la Barca delle Donne nel 2016.

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So many lies


Il lavoro secondo Renzi: uno su un milione ce la fa e chissenefrega degli altri

E’ tornato il contafrottole. Di ritorno dall’America, quasi mettendo i piedi sulla scrivania della spalla Fazio, ha ricominciato a promettere il contrario di quel che ha fatto. Soprattutto in materia di lavoro giovanile.

Non ci attaccheremo qui alla contestazione dei numeri (“600mila occupati in più”), buttati lì con la nonchalance di chi sa che tanto nessuno ci fa caso, visto che Inps e Istat spesso danno cifre diverse persino tra loro, che il mestiere ce l’hanno. Non ci metteremo nemmeno a cercare di interpretare frasi senza alcun senso ("contesto la risposta grillina al problema. Garantire uno stipendio a tutti non risponde all'articolo 1 della nostra Costituzione che parla di lavoro non di stipendio. Il lavoro non è solo stipendio, ma anche dignità. Il reddito di cittadinanza nega il primo articolo della nostra Costituzione", invece "serve un lavoro di cittadinanza"). Come hanno notato in molti, infatti, “il lavoro di cittadinanza” è uno slogan inventato da Berlusconi un paio di settimane fa. Poteva risparmiarsi i soldi del viaggio...

Noi qui vogliamo occuparci soltanto dell’immonda sceneggiata fatta sulle politiche di “promozione” del lavoro che, quando e se riconquisterà la poltrona di premier, vorrebbe mettere in campo. Bisogna decodificare un po’, perché la recita è stata persino eccessiva (battute, faccette, falsetti), ma ne viene fuori un’idea chiara di cosa sia il lavoro nella sua testa (più precisamente: in quella di chi l’ha scelto come attore a Palazzo Chigi).

"[Negli Usa ho fatto] Una opportuna chiacchierata con i principali esponenti della rivoluzione digitale. Rivoluzione in corso e che fa paura, perché si perderanno posti di lavoro. Non sono d'accordo con Veltroni: con la macchina a vapore c'era lo stesso atteggiamento. Il vero discrimine nella politica di oggi non è la preoccupazione per l'innovazione, ma come la politica risponde. Il grande messaggio, nel mondo, è trovare un paracadute per chi non ce la fa. Ma non il reddito di cittadinanza, con il papi-Stato che paga per tutti. Io invece dico provaci, ti do una mano, ti faccio fare corsi di formazione. Ma non la rassegnazione, dobbiamo dare stimoli. Poi qualcuno non ce la farà, ma non va bene l'atteggiamento che lo Stato provvederà a tutti".

A parte la retorica “energetica”, ci sono tre cose chiare:

a) no a qualsiasi forma di assistenza sociale (reddito di cittadinanza o assegni di disoccupazione per lunghi periodi, del resta già molto “accorciati”);

b) nessun interventi statale nella produzione, a qualsiasi livello; la creazione di nuovi posti di lavoro – polizie a parte – spetta “al mercato”, ossia alle imprese;

c) politiche attive tese promuovere l’autoimprenditorialità, “chi ha idee”.

Schema molto americano, non c’è dubbio. La domanda che vi chiediamo di fare a voi stessi è una sola: per chi può funzionare questo schema? E subito dopo: per quanti?

In pratica, Renzi risolve la questione del lavoro giovanile così: non state a casa ad aspettare che qualcuno ve lo offra, muovetevi. Anzi, inventatevelo. Facile a dirsi, a quanto pare un po’ difficile a farsi. Aprire una startup innovativa è cosa per pochi. Pochi persino rispetto a quanti riescono a conseguire una laurea in materie scientifiche. Per quei pochi, trovare un finanziamento dell’idea non è certamente facile, in Italia. E un ambiente più favorevole, persino un finanziamento statale, potrebbe tornare utile.

Vabbeh, ma risolti i problemi di raccolta fondi per qualche decina di startup, gli altri milioni di giovani a spasso come li aiutiamo? Con i “corsi di formazione” fatti da aziende private che guadagnano proprio facendo corsi di formazione che non ti insegnano niente? Oppure corsi regionali che ti preparano per mestieri che intanto scompaiono?

Datevi da fare, mettetevi in competizione tra di voi, qualcuno arriverà al traguardo del benessere o addirittura della ricchezza... Le nostre periferie metropolitane sono piene di ragazzi che si danno da fare. I più risoluti spacciano, qualcun altro rubacchia, qualcuno/a si prostituisce. Iniziativa privata, certamente... Difficile dire in tv che è questo il risultato della competizione, vero?

Sia chiaro: qui nessuno pensa che il reddito di cittadinanza sia la soluzione sistemica e strategica per le generazioni a venire. E’ una rivendicazione concreta in questo tempo di transizione, peraltro neanche troppo “destabilizzante” il sistema capitalistico (tanto che è stato proposto anche da diversi “imprenditori innovativi” della Silicon Valley, compreso – in qualche misura – il Bill Gates che propone di “tassare i robot”).

Ma non risolve il problema del futuro globale: la quantità di posti di lavoro “normali”, con l’automazione della produzione e di molti servizi, e persino dell’assistenza domestica, sta già ora drasticamente riducendosi (fenomeno aggravato, ma non “provocato”, dalla stagnazione). Crolla insomma la quantità di lavoro socialmente necessario per riprodurre e far sviluppare l’umanità. In regime capitalistico, dove bisogna per forza garantire la massima profittabilità per le imprese, questo implica che i pochi “fortunati” che trovano un lavoro debbono accettare orari più lunghi e “flessibili”, salari più bassi, diritti inesistenti. Mentre tutti gli altri debbono orientarsi verso l’arte di arrangiarsi e sopravvivere, se ce la fanno.

Se chi crea lavoro sono soltanto le imprese e i singoli, con lo Stato che guarda e garantisce soltanto il “rispetto delle regole”, il destino è segnato.

A meno che...

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