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24/01/2017

Percorsi differenti verso un cattivo accordo di Brexit

Spesso preferiamo guardare a come – fuori d'Italia – si guardano gli eventi davvero epocali, velocissimi, cui stiamo facendo in qualche modo l'abitudine senza comprenderne il senso, la direzione di marcia. Le informazioni che ci sembrano significative le presentiamo ai lettori supponendo – come diceva il maestro – che sappiano pensare con la propria testa.

La Brexit è uno di questi eventi, che può segnare l'inizio dello sgretolamento dell'Unione Europea. Può, non "certamente avverrà". Nella storia, davanti a un bivio, le strade sono sempre almeno due. Il rischio – dal nostro punto di vista – è che invece possa innescarsi una spinta fortissima verso una maggiore centralizzazione, a quel punto dispotica.

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Simon Nixon* riporta le considerazioni di una prospettiva d’ uscita caotica dalla UE; un’opportunità da prendere seriamente in considerazione.

Per “The Wall Street Journal”, Simon Nixon, 18 Gennaio 2017

Traduzione e cura di Francesco Spataro

Ignoriamo le parole cordiali sulla necessità che la UE si affermi; il passaggio chiave nel discorso di Theresa May, Primo Ministro del Governo britannico, sulla Brexit, tenuto martedì è nella sua dichiarazione, in cui afferma che “non arrivare ad un accordo è meglio che farne uno sbagliato”. In una singola frase, uno scenario che solo alcune settimane fa sembrava ampiamente da scartare, che era percepito come una eventualità di poco interesse, si è ora trasformato nel piano ufficiale del governo, come ultima spiaggia, sola alternativa, se non si dovesse raggiungere ciò su cui si è puntato, dai negoziati di uscita dall’UE. La prospettiva di una Brexit nel caos, è ora una opportunità che si deve prendere seriamente in considerazione. La domanda fondamentale è: quale sarebbe un accordo sbagliato? Il primo ministro May, naturalmente, non lo ha detto. Ha invece detto quale sarebbe, secondo lei, un buon accordo: la May vorrebbe tariffe doganali ridotte a zero, controlli minimi alle dogane, nessun obbligo di seguire i regolamenti europei, la fine della giurisdizione della Corte di Giustizia Europea, contributi minimi per gli stanziamenti della UE, libertà nello stabilire i propri dazi nel Regno Unito, e la ratifica degli accordi di libero scambio; inoltre, il Primo Ministro inglese, vorrebbe anche che tutto questo venisse chiuso firmato, e ratificato entro due anni, con un margine per la fase di realizzazione, dando così alle aziende, e di conseguenza all’economia, il tempo di adattarsi. In sintesi vorrebbe tutti i privilegi riservati agli stati membri, senza obbligo alcuno.

Questo sarebbe di certo un accordo eccellente. Diversamente, qualsiasi cosa sia al di sotto di questo livello, viene percepito come un cattivo accordo; ma in che misura debba essere al disotto, per provocare la rinuncia da parte di Mrs. May, è una valutazione che attiene alla politica; senza dubbio creerebbe uno scenario di montante sciovinismo, se, nello stesso momento l’UE difendesse i propri interessi e forse cercasse anche di trarre vantaggio dalla situazione. La May, nel suo discorso, non ha fatto nessun tentativo per preparare l’opinione pubblica agli inevitabili compromessi, che saranno il prezzo da pagare per ratificare qualsiasi accordo, rifiutando anche di riconoscere che un accordo deve essere ratificato, ad ogni costo. Quale sarà il risultato? Con molta probabilità un potenziale insuccesso. Esaminiamo punto per punto.

Primo, abbiamo la questione dello svincolo, che il Regno Unito deve pagare per un regolare ed ordinato divorzio dall’Unione. Theresa May, su questo punto non si è espressa, ma alcune personalità a Bruxelles hanno suggerito che la Commissione Europea potrebbe anche chiedere il pagamento di 60 Mld di euro. I funzionari della UE hanno a lungo avvertito che, più forte è la decisione del Regno Unito di tagliare i vincoli con Bruxelles, più salato sarà il conto da pagare... E il Primo Ministro May, vuole troncare di netto. Oltretutto la commissione è irremovibile sul fatto che questa somma deve essere concordata, prima che inizi un qualsiasi negoziato sulle future relazioni commerciali, un punto questo che Michel Barnier, il negoziatore capo della commissione, nella trattativa per la Brexit, ha ripetutamente espresso su Tweeter la scorsa settimana. E’ una questione di principio e per come stanno le cose, gli altri 27 stati membri, intendono mantenersi fermi sulle proprie posizioni, ha dichiarato un alto funzionario UE. Purtroppo dalla prospettiva del Primo Ministro britannico, un divorzio così costoso, senza alcun accordo sulle future relazioni commerciali, (un appuntamento al buio diremmo noi) si qualificherebbe certamente come “un brutto accordo”.

Secondo, il dettaglio delle future relazioni commerciali: l’insistenza con cui la May sottolinea che il Regno Unito abbandonerebbe i principi fondamentali dell’unione doganale, sta a significare che fra i due competitori, si verrà inevitabilmente a creare un confine doganale, anche se i dazi si attesterebbero intorno allo zero. Lei vorrebbe un accordo sui dazi, per minimizzare le frizioni commerciali, e, dal momento che è possibile usare la robotizzazione per ridurre il lavoro d’ufficio, amministrativo, e perciò, anche i ritardi alle dogane, la UE avrà ancora abbondanti opportunità per “legare a catena” il Regno Unito al burocratismo. Il fulcro dei più moderni accordi commerciali, ha a che vedere con la regolamentazione, il mercato del lavoro e gli standard ambientali, i meccanismi di risoluzione del conflitto e i regolamenti di origine; tutto ciò, per essere certi che i partner commerciali, non diventino una porta di servizio, così da permettere ai prodotti dei paesi del terzo mondo di entrare nel mercato; non sarà più così facile negoziare queste clausole di salvaguardia, visto che attualmente, il Regno Unito è ancora un membro dell’Unione. La brusca minaccia della May, di trasformare l’Inghilterra in una Singapore offshore, delocalizzata, innalzerà soltanto il grado di reattività della UE, riguardo i rischi del suo stesso modello economico; in particolare, aumentando la possibilità di una futura sfida sulle tasse, il Primo Ministro May, ha reso quasi inevitabile che la UE chieda, come contropartita a qualsiasi accordo, una serie di tutele sulla politica fiscale, dichiara un funzionario dell’Unione. Per la parte della popolazione favorevole alla Brexit, un nuovo accordo che introducesse altre barriere al commercio con la UE, e allo stesso tempo limitasse la libertà del Regno Unito a competere o ratificare accordi commerciali completamente svincolati con altre nazioni, si trasformerebbe automaticamente, in un cattivo accordo.

Infine c’è la questione dei tempi: anche se l’Unione, avesse intenzione di negoziare, sia per l’accordo di divorzio, sia per quello del libero commercio, così, in tandem, è difficile trovare qualcuno con l’esperienza di negoziati commerciali, che possa pensare che un accordo di tale complessità si possa concludere entro due anni. Quest’ultima cosa solleva la questione di cosa potrebbe fare il Primo Ministro May nel 2019, se si trovasse senza alcun tipo di accordo, e con all’orizzonte, un baratro, la prospettiva di un’uscita caotica dalla UE. Potrebbe chiedere all’Unione di estendere ulteriormente i negoziati, o potrebbe cercare un’intesa provvisoria, sul tipo dell’ammissione che fece la Norvegia, all’Area Economica Europea; ma Theresa May, invece, ha escluso entrambe le opzioni, lasciando poco spazio per una “inversione ad U”. Inoltre, tutto ciò implicherebbe che il Partito Conservatore, il suo Partito, rimanga alla guida del Governo, almeno fino alle elezioni del 2020, con l’Inghilterra non ancora completamente fuori dell’Unione. Per molti seguaci della Brexit, questo potrebbe essere l’accordo peggiore. Forse, politicamente, è più facile andare oltre il confine di quel baratro, e biasimare le ricadute su un’irrazionale e vendicativa Unione Europea.

Simon Nixon è commentatore ufficiale di temi riguardanti l’Unione Europea per il Wall Street Journal.
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