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22/12/2016

Se l’Isis parla italiano...

Tre giorni fa, l'Isis ha diffuso un video di 29 minuti invitando all'azione. Niente di molto diverso da altri video sempre ben confezionati dal punto di vista professionale, incluse le istruzioni su come sgozzare un ostaggio, come fabbricare un ordigno o l'esplosione di un prigioniero costretto a correre con uno zaino bomba addosso. Il “dettaglio” inquietante è che questa volta il messaggio del video era tradotto anche in lingua italiana, ed anche piuttosto bene. In passato c'erano stati altri video che annunciavano la bandiera dell'Isis su San Pietro o il Colosseo, ma era parte della guerra di propaganda.

Se c'è una logica dietro questo nuovo aspetto mediatico della guerra, è che l'Italia non può considerarsi al riparo dalle sue conseguenze.

L'altra notizia, più recente, è che il camion usato per l'attentato al mercatino natalizio di Berlino proveniva dall'Italia, dalla Brianza per l'esattezza, e che a guidarlo – dopo aver ucciso il camionista polacco che lo guidava – pare fosse un tunisino, Anis Amri, immigrato in Italia nel 2011, finito in carcere e lì formatosi come militante consacrato alla Jihad. Le autorità tedesche precisano al momento che il ricercato Anis Amri è solo sospettato e non necessariamente il colpevole dell'attentato.

Insomma la beata incoscienza di chi ritiene che l'Italia possa chiamarsi o tenersi fuori dalla "guerra mondiale a pezzi" in corso, viene a fare i conti con una realtà che la guerra te la porta dentro casa. E non potrebbe essere altrimenti.

Solo un babbeo, o la complice connivenza dei mass media e della maggioranza dei parlamentari, potrebbe infatti prendere come buona l'idea che i 200 militari italiani in Iraq o i 300 in Libia stiano lì solo per proteggere i lavori di una diga o la costruzione di un ospedale. In primo luogo verrebbe da chiedersi quanta forza militare dovrebbero schierare magari per fare una strada. In secondo luogo le cose vanno viste nella loro completezza.

Se governo italiano, parlamento e giornalismo embedded possono ritenere sufficiente e legittima la presenza militare in Iraq, Siria, Libia, la stessa cosa vista dall'altra parte non appare affatto così positiva. Anzi, è facilmente prevedibile che venga vissuta come atto ostile, come presenza estranea e minaccia militare. Dunque se c'è una guerra e si mandano in giro i soldati, si fanno volare i droni, si mettono a disposizione le basi e le navi per i bombardamenti, non è detto che “il nemico” (per quanto non convenzionale) non prenda in esame possibili ritorsioni e atti altrettanto ostili.

Insorgono su questo almeno tre problemi:

1) abbiamo scritto sugli striscioni e manifestato in piazza denunciando che “le guerre sono vostre, ma i morti sono i nostri”. Le scelte dei governi provocano infatti conseguenze e ritorsioni, soprattutto sulla popolazione civile, sia nel nostro che negli altri paesi coinvolti. I responsabili ne restano al riparo nei loro palazzi, protetti e circondati da misure di sicurezza che nessun visitatore di mercatini o pendolare di metropolitane può avere;

2) la guerra è in corso. E' una guerra a pezzi, si combatte in luoghi lontani dei quali si sa cosa accade solo se gli apparati ideologici di stato (spesso quelli statunitensi o francesi) decidono di far sapere qualcosa funzionale ai propri interessi. Si sa tutto su Aleppo, si sa niente su Mosul, Palmira o Raqqa ma anche su Bengasi, Misurata, Sirte etc. La mobilitazione emotiva dell'opinione pubblica dovrebbe così compensare i misfatti compiuti sul campo o i danni provocati dalle spregiudicate operazioni militari dei governi;

3) se c'è una guerra in corso e alcuni Stati vi prendono parte, anche senza clamore ma concretamente, è inevitabile che la guerra ti arrivi dentro casa. L'Italia si trova esattamente in questa situazione. E se la guerra non è con un nemico convenzionale – che ha magari eserciti regolari, ambasciate, funzionari all'Onu, governi con cui negoziare tregue o conflitti – la guerra in casa ti arriva sotto forma di terrorismo e colpisce a casaccio, dove può o dove può far più male con il minimo sforzo. Quello dell'Isis non è un terrorismo selettivo, mirato a colpire i quartieri generali o le linee di comunicazione e/o rifornimento del nemico, ma è una guerra che si manifesta attraverso il terrore che riesce a provocare nella popolazione dello stato nemico mostrandone la vulnerabilità. Potremmo soffermarci a lungo sulla inesistente differenza nella produzione di terrore nella popolazione tra un attentato o un bombardamento condotto da droni, missili e aerei ad altissima tecnologia. Ma non è questo il punto. Se ci vanno di mezzo i civili il terrore è terrore e il terrorismo può essere anche di Stato.

L'Italia si è crogiolata fin troppo tempo nella beatitudine che le scelte dei propri governi – dalla guerra in Jugoslavia a oggi – non producessero prima o poi conseguenze anche all'interno del paese. In particolare l'interventismo militare in Medio Oriente e Africa ha contribuito a creare e disseminare le condizioni della guerra e di inimicizia profonde e durevoli. Se oggi gli effetti ti ritornano dentro casa la responsabilità non è solo del “nemico”.

L'Isis va sconfitto sicuramente e occorre sostenere tutte le forze che vanno in questa direzione, ma niente di tutto questo può assolvere le responsabilità dei governi italiani che hanno coscientemente trascinato da anni il paese dentro un gorgo dal quale sarebbe potuto tranquillamente rimanere fuori. La subalternità ai vincoli e agli obblighi della Nato o la inscindibile proiezione militare degli interessi economici (vedi Eni ed altri) in quelle aree, hanno prevalso sulla priorità della pace e della neutralità come precondizione delle relazioni internazionali.

Adesso c'è la guerra, nostro malgrado i governi del nostro paese ci hanno portato in guerra. Ci chiedono di arruolarci o rimanere silenti. Né l'uno né l'altro, proprio perchè occorre essere consapevoli che “le guerre sono vostre ma i morti sono i nostri”. Se la popolazione civile del nostro paese verrà colpita – e dobbiamo augurarci di no – c'è un responsabile principale e uno secondario, guai a confonderne la gerarchia delle responsabilità.

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