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30/11/2016

Spread e borsa. il referendum non c’entra

La stampa italiana – lo ripetiamo tutti i giorni, perché è assolutamente necessario – è forse la peggiore dell'occidente capitalistico. Servile verso tutti i poteri, sia economici che politici, tanto nazionali che sovranazionali, impossibilitata culturalmente e soprattutto moralmente a esaminare criticamente la realtà. Nei giorni scorsi i ripetuti crolli di borsa, specie quella di Milano (oberata da banche in crisi di nervi), e i rialzi abbastanza rapidi dello spread sui titoli di Stato, erano stati “spiegati” alla popolazione con l'incertezza sull'esito del referendum. Un modo di spargere il panico sulle “catastrofi” che attenderebbero il paese in caso di vittoria del NO. Nonostante la stessa strategia mediatica sia risultata clamorosamente fallimentare ogni volta che è stata messa in atto – di recente con la Brexit e ancor peggio con Trump – i media non sanno evidentemente fare di meglio...

Come sempre, però, anche in quella fogna bisogna saper distinguere chi fa seriamente il proprio mestiere di giornalista. Che ovviamente, in questo caso specifico, significa andare a guardare cosa sta effettivamente accadendo sui mercati finanziari, controllare diversi indici, analizzare chi è che vende e chi è che compra, e solo dopo dare indicazioni sulle “ragioni” o le cause dei movimenti finanziari.

Per questo vi proponiamo, qui di seguito, l'ottima analisi di Morya Longo, apparsa su IlSole24Ore di oggi, che riporta per l'appunto le “cause” in un mix di “speculazione internazionale e di indifferenza italiana”. Un'analisi che potrebbe essere estesa anche alla vendita di pezzi decisivi dell'industria manifatturiera di questo paese e che descrive plasticamente l'ignavia degli “imprenditori” di questo paese, preoccupati solo di “liberarsi” della fatica del produrre e di sopravvivere – ognun per sé – di speculazione finanziaria, appalti e subappalti pubblici, “concessioni” in regime di monopolio (Benetton che controlla Autostrade, ecc).

Che sia il quotidiano di Confindustria a smontare la vulgata di regime non deve sorprendere. Da un lato, il quotidiano è compulsato soprattutto da addetti ai lavori (operatori finanziari, proprietari di aziende, giornalisti economici, ecc), quindi abbastanza marginale rispetto alla grande platea degli elettori. Dall'altra, proprio perché giornale “dell'impresa”, deve dare notizie certe per chi deve decidere – su quella base – strategie di investimento.

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Dietro le quinte dello spread: ecco chi specula contro l’Italia

Morya Longo

Un misto di speculazione internazionale e di indifferenza italiana. Di hedge fund ribassisti e di investitori nazionali ormai meno nazionalisti. C’è un po’ di tutto dietro la turbolenza dello spread. Il Sole 24 Ore, incrociando testimonianze e dati, è in grado di rivelare i retroscena dell’attacco all’Italia.
Il referendum è solo il pretesto: nella realtà lo spread si è allargato fino a quota 190 (e ieri bruscamente ristretto) per una concomitanza di motivi. La Bce, con i suoi acquisti di BTp, è riuscita solo a mitigare la speculazione. Ma – per la prima volta da quando Draghi ha avviato il quantitative easing – non ad annullarla. Ecco, numeri e testimonianze alla mano, perché.

Hedge fund ribassisti

A pesare sui BTp è innanzitutto la speculazione internazionale, ad opera principalmente degli hedge fund. I gestori di questi fondi hanno infatti individuato nel debito pubblico italiano (e nelle banche) la gallina dalle uova d’oro con cui fare un po’ di utili in vista del referendum: basta puntare sul ribasso dei prezzi e sul rialzo dei rendimenti sfruttando l’incertezza generale. E così, soprattutto attraverso i futures, il tiro a segno sui BTp è diventato di moda almeno da ottobre.

Secondo Alok Modi, capo della sala di trading di bond governativi di Morgan Stanley, su una scala da uno a 10 gli hedge fund sono ribassisti sui BTp ad un livello di nove. O meglio: questa era la loro posizione fino a settimana scorsa. Ieri è verosimile – come ipotizza Mattia Nocera che segue i fondi del gruppo Banca del Ceresio – che siano scattate un po’ di ricoperture: per questo il mercato è rimbalzato così velocemente. Ma il trend resta quello ribassista: come si vede nel grafico a fianco, è da ottobre che gli hedge fund montano posizioni «corte» (cioè ribassiste) sui BTp.

Alla speculazione opportunistica del momento, poi, si è associato un tono prudente degli altri investitori internazionali. Anche quelli non speculativi: banche, assicurazioni, fondi di lungo termine. Nell’incertezza pre-referendaria (incertezza, non attesa di catastrofi), in tanti hanno ridotto o limato l’esposizione sull’Italia. «In fondo il mondo è grande, non abbiano alcun motivo per esporci sui titoli di Stato italiani in un momento così delicato...» confessa il responsabile mercati di una grande banca internazionale. Morale: dall’estero tanti speculano contro i BTp e tanti altri si tengono alla finestra. Il saldo finale è quindi negativo per i nostri titoli di Stato.

Manca il sostegno domestico

Nelle passate crisi dello spread, a partire da quella del 2011, a fronte di una forte speculazione internazionale aveva fatto da contrappeso una altrettanto forte risposta da parte del sistema finanziario italiano. Tutti, cioè banche, assicurazioni e risparmiatori, avevano comprato BTp a quei tempi. Dal novembre 2011 (quando scoppiò la crisi dello spread) all’ottobre 2012 le banche italiane hanno per esempio acquistato titoli di Stato italiani per un ammontare di circa 140 miliardi di euro. E un comportamento analogo l’avevano avuto le assicurazioni.

Ora, invece, le banche italiane non sono più così interventiste. Anzi: gli ultimi dati di Bankitalia (aggiornati solo a settembre) dimostrano che stanno lievemente vendendo: se a giugno 2016 avevano in bilancio titoli di Stato italiani per 414 miliardi, a settembre la posizione era stata ridimensionata a 394 miliardi. Secondo le testimonianze che arrivano dal mercato, anche le assicurazioni italiane sono oggi meno disposte a sostenere i BTp. Per molteplici motivi. E un discorso analogo si può fare per i piccoli risparmiatori, ormai – a causa di tassi d’interesse bassi – disaffezionati ai titoli di Stato. Le loro scelte si stanno dirottando più sui fondi, che investono sempre più su mercati esteri. Bene inteso: gli investitori italiani restano “stabilizzatori” fondamentali per i BTp. Ma sono meno interventisti di un tempo. E questo pesa.

A confermarlo è Target 2, cioè il grande “registratore di cassa” che monitora i movimenti di capitali tra un Paese e l’altro dell’area euro. L’Italia ha infatti su Target 2 un passivo record di 354 miliardi di euro. Il motivo principale è tecnico, perché legato alle modalità di esecuzione del «quantitative easing». Ma secondo molti esperti, dietro il tecnicismo c’è anche una reale uscita di capitali dall’Italia ad opera principalmente di investitori italiani: «I soldi stampati da Draghi con il Qe sono stati usati dagli italiani per comprare soprattutto titoli all’estero», spiega Fabio Balboni, economista di Hsbc, osservando Target 2. Morale: la speculazione internazionale è arrivata in un momento in cui gli investitori italiani – per vari motivi – non sostengono più i titoli di Stato della Penisola come facevano un tempo.

Il possibile rimbalzo

 Gli acquisti della Bce hanno ovviamente mitigato la speculazione. Infatti lo spread è ben lontano dai livelli del 2011 e del 2012. Eppure, per la prima volta da quando esiste il quantitative easing, Draghi non è riuscito ad annullarla del tutto. Questo deve far riflettere. E, forse, anche far bene sperare: perché la speculazione ribassista non può durare in eterno, soprattutto – come accaduto ieri – se la Bce fa sentire la voce più forte.

Molti addetti ai lavori non sarebbero infatti sorpresi se dopo il referendum, anche in caso di vittoria del «no», dopo un’iniziale turbolenza il mercato dei BTp rimbalzasse: perché, seguendo il motto «buy on rumor sell on news», molti hedge fund potrebbero chiudere o ridimensionare le loro posizioni ribassiste. Ieri già c’è stato un assaggio di rimbalzo. Certo, il «day after» dipenderà molto dall’aumento del Montepaschi e da cosa farà la Bce l’8 dicembre. Ma Brexit e Trump una cosa l’hanno insegnata: la speculazione è mutevole.

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