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25/11/2016

Siria. Che fine ha fatto “Scudo dell’Eufrate”?

L’operazione militare turca “Scudo sull’Eufrate” sembra essere giunta ad un binario morto.  Lanciata in estate dal governo di Ankara nel nord della Siria con la scusa di combattere Daesh, ma con il preciso obiettivo di dividere i territori del Rojava curdo, le truppe turche e le milizie jihadiste loro alleate si sono fermate alle porte della città di Al Bab. Il motivo del loro arresto è legato ad un ultimatum russo giunto al governo di Erdogan: “La città di Al Bab rimane sotto il controllo del governo di Damasco”.
 
Secondo il quotidiano libanese Assafir, la pazienza russa nei confronti di Ankara sarebbe finita. L’intervento turco, concordato preventivamente con il governo di Damasco, prevedeva un’avanzata di non più di 12 km all’interno del territorio siriano. L’operazione aveva come obiettivo sia quello di fiaccare le difese di Daesh, sia, soprattutto, di dividere e indebolire le forze militari curde, principali alleate statunitensi in Siria con le loro FDS (Forze Democratiche Siriane). La volontà di separare la zona di Kobane da quella di Afrin era proprio legata ad obiettivi differenti, turchi e siriani, uniti da una comune volontà: rallentare l’avanzata curda verso la città di Raqqa.

Gli stessi alleati di Damasco (russi, iraniani ed Hezbollah) erano  informati dell’intesa  raggiunta con i turchi per l’avvio dell’operazione “Scudo sull’Eufrate”, nella quale gli accordi prevedevano anche un ritiro delle milizie foraggiate da Ankara dalla città di Aleppo. Al contrario gli USA avevano osteggiato una simile iniziativa perché ostacolava non tanto le mire indipendentiste curde, ma soprattutto gli interessi ed i piani di Washington per indebolire Damasco.

Secondo fonti legate al regime di Bashar Al Assad, riportate sempre da Assafir, “i turchi non avrebbero rispettato gli accordi”.  Per quanto riguarda il loro disimpegno da Aleppo, infatti, Ankara ha favorito e sostenuto logisticamente, ancora una volta, le sue milizie nella città. Il governo di Erdogan è stato il principale promotore della recente offensiva jihadista, di fine ottobre, per spezzare l’accerchiamento dei militari di Damasco. Assalto finito con un’altra pesante sconfitta per il fronte “ribelle” legato a formazioni come Ahrar Al Sham (Turchia) e Jabhat Fatah al Sham (ex Al Nusra e Al Qaeda).

La stessa ambiguità c’è stata nella fase di contrasto alle milizie di Daesh visto che, stranamente, molte delle città conquistate dalle truppe turche, Jarablus per prima, non hanno visto quasi nessun tipo di resistenza armata da parte dei miliziani salafiti. Fino alla recente conquista di Al Bab. In questo caso, però, le autorità di Damasco e di Mosca hanno avvisato Ankara: “La conquista della città è considerata  come un’invasione del suolo siriano che potrebbe  richiedere un intervento armato di risposta”. La stessa fonte riporta anche che si è “arrivati vicini ad uno scontro aereo tra caccia russi e turchi nei cieli della Siria settentrionale”.

Come conferma del clima “ostile” nei confronti dei militari turchi (si stimano circa 5mila soldati e 250 carri armati) sarebbero arrivati nell’area, come ulteriore deterrente, sia alcuni reparti delle forze speciali siriane sia diversi reparti corazzati di Hezbollah. Lo stesso tipo di accerchiamento è avvenuto anche dall’altra parte del confine tra Siria ed Iraq. Le truppe dell’Hashed Shaabi (Forze Mobilitazione Popolare) avrebbero sigillato il territorio tra Mosul e la Siria in maniera da contrastare qualsiasi tipo di ingerenza nelle operazioni militari irachene: sia, ovviamente, contro Daesh, sia, eventualmente, contro le truppe turche.

L’amministrazione americana, infine, non ha in alcun modo sostenuto o difeso il suo alleato turco. Washington, al contrario, ha rifiutato al governo di Ankara di partecipare alla battaglia per la conquista di Raqqa, lasciando campo aperto alle Forze Democratiche Siriane (FDS) ed alle milizie curde ben rifornite e addestrate dai militari americani dopo la creazione di una nuova base statunitense nella zona di Kobane.

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