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25/11/2016

Egitto - Giornalisti e farmacie svelano le crepe nel regime di al-Sisi

Chiara Cruciati – Il Manifesto

A 10 mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo il 25 gennaio 2016, nella notte che più rappresenta la spinta egiziana verso la democrazia, il regime di al-Sisi traballa. Le crepe si moltiplicano nella apparentemente granitica macchina militare che lo sostiene, la responsabile politica della morte del giovane ricercatore. Le manifestazioni anti-governative compaiono a sprazzi, ancora limitate, ma per molti sono segno di una prossima esplosione. Mercoledì sono stati i giornalisti ad alzare la voce come accaduto a primavera quando il sindacato della stampa fece da calamita e diffusore delle proteste. E come accade da anni, una porta aperta alle proteste di studenti e dipendenti pubblici come ai meeting dei familiari dei prigionieri politici.

Centinaia di giornalisti si sono ritrovati per manifestare contro la condanna a due anni del presidente Yehia Qalash e di due membri della segreteria, Abdel-Reheem e El-Balshy. Due anni per «aver nascosto fuggitivi», due giornalisti ricercati per diffusione di notizie false e che il primo maggio avevano trovato rifugio negli uffici dell’organizzazione attaccata dalla polizia. Un’aggressione senza precedenti che fa il paio con la condanna al carcere del presidente del sindacato, mai successo in 100 anni di attività.

Durante l’assemblea i giornalisti hanno formato tre comitati per seguire gli sviluppi del caso (che il presidente al-Sisi ieri ha bollato come mero evento giudiziario, senza legami con la libertà di stampa), non far calare l’attenzione sulla repressione e intervenire contro gli effetti drammatici che la crisi economica ha anche sul giornalismo indipendente.

Solo poche ore prima del sit-in Mahmoud Abu Zeid, noto come Shawkan, fotoreporter in prigione dal 14 agosto del 2013, veniva insignito a distanza dell’International Press Freedom Award. Non è solo: sono 28 i giornalisti tuttora in carcere per mano del regime. Che però trema: lo scontento dilaga insieme alla miseria, quotidianità per oltre un quarto degli egiziani. Con la sterlina in caduta libera, i tagli ai sussidi e la carenza di beni di prima necessità, ora si deve far fronte ad una nuova crisi: le farmacie sono quasi vuote. I prezzi sono così alti che produrre o importare non conviene, dicono le compagnie farmaceutiche: «Non siamo un ente di beneficienza – ha commentato Said Ibrahim, direttore di Eipico, una delle maggiori aziende farmaceutiche egiziane – Abbiamo spese e costi di produzione e, se non facciamo profitto, interrompiamo la produzione».

Una situazione drammatica che colpisce i più vulnerabili, prima le classi più basse e ora i malati. I farmacisti denunciano l’impossibilità di rifornire i malati di cancro e diabete, i dottori il dolore di rimandare i pazienti a casa dagli ospedali per mancanza di medicinali. Negli ultimi mesi 1.600 medicine sono quasi scomparse dal mercato, ma il Ministero della Salute non pare intenzionato ad intervenire e attribuisce la carenza agli egiziani stessi che avrebbero comprato troppe confezioni per paura di restare senza.

Da parte sua la Banca Centrale, dopo aver svalutato la sterlina, ha deciso all’inizio di novembre di lasciare che fluttui, con il valore determinato dal mercato. Una scelta dettata dall’insufficienza di riserve di moneta straniera e oro nelle proprie casse ed espressamente richiesta dal Fondo Monetario Internazionale in cambio del prestito da 12 miliardi in tre anni, per attirare investimenti. Ma in poche ore la sterlina è crollata tanto da far perdere agli egiziani il 65% del valore dei soldi che hanno tra le mani. Quelli poveri, perché ricchi e uomini d’affari proprietari di valuta straniera li vedono lievitare.

Ma Al-Sisi non può permettersi sollevazioni e prova a metterci una pezza. Ed ecco che 10 giorni fa è stata cancellata la condanna a morte del deposto presidente Morsi e 4 giorni fa l’ergastolo nel caso di spionaggio a favore di Hamas. A monte sta la paura di proteste guidate dai Fratelli Musulmani, che godono di un ampio bacino di consenso, in un periodo di gravissima crisi. Tanto che si vocifera – scrive al-Shorouq – di un negoziato in corso tra Fratellanza e regime: rilascio dei prigionieri, migliaia, in cambio dell’abbandono della vita politica per 5 anni.

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