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25/11/2016

Casa Bianca, arrivano i barbari

di Michele Paris

L’appello all’unità della nazione lanciato in occasione del giorno del Ringraziamento da Donald Trump è solo il più recente sforzo del presidente eletto degli Stati Uniti di superare le divisioni e i toni più estremi da lui tenuti nel corso della campagna elettorale. Questo è per lo meno ciò che viene spiegato dalla stampa ufficiale americana, assecondata da un Partito Democratico che ha dimenticato in fretta le feroci critiche rivolte al miliardario newyorchese prima del voto, così come gli avvertimenti circa la catastrofe che avrebbe investito il paese in caso di un suo insediamento alla Casa Bianca.

Da ormai due settimane, tra gli oppositori di Trump lo shock del suo successo ha lasciato il posto per lo più a promesse di collaborazione, sforzi per garantire una transizione senza scosse, come ha affermato di voler fare Obama, e al massimo impegni ad attendere le prime iniziative del neo-presidente prima di esprimere un giudizio nei suoi confronti.

Questo atteggiamento accomodante contrasta con il profilo dei membri che Trump ha già scelto per occupare alcune posizioni all’interno della sua nascente amministrazione e con quello di molti altri che sono in fase di valutazione e che potrebbero ricevere un qualche incarico a breve.

Alla settimana scorsa risalgono le nomine a ministro della Giustizia (“Attorney General”) del senatore dell’Alabama, Jeff Sessions, a direttore della CIA del deputato del Kansas, Mike Pompeo, e a consigliere per la sicurezza nazionale del generale in pensione, Michael Flynn. Tutti e tre sono attestati su posizioni di estrema destra e, visti i ruoli che andranno a ricoprire nel prossimo futuro, lasciano intravedere un’involuzione reazionaria nell’ambito della politica estera, della sicurezza nazionale e dei diritti democratici sul fronte domestico.

Sessions è uno dei senatori considerati più a destra della camera alta del Congresso di Washington ed è stato il primo tra i suoi colleghi Repubblicani a sostenere Trump in campagna elettorale. Più volte autore di commenti apertamente razzisti durante la sua carriera giuridica e politica, nel 1986 Sessions era stato proprio per questa ragione uno dei pochissimi nominati alla carica di giudice federale nella storia degli Stati Uniti a essere bocciato dalla commissione Giustizia del Senato, oltretutto a maggioranza Repubblicana.

Pompeo, da parte sua, ha sempre manifestato la propria approvazione sia per i metodi di tortura utilizzati dall’agenzia che andrà a dirigere negli interrogatori di presunti terroristi dopo l’11 settembre, sia per la sorveglianza indiscriminata delle comunicazioni elettroniche dei cittadini condotta dalla NSA. Flynn, infine, è un fanatico anti-islamico, rimosso nel 2014 da Obama dall’incarico di direttore dei servizi segreti militari per l’imbarazzo e il caos provocati dalle sue convinzioni.

La scelta di questi individui aveva fatto seguito all’ingresso alla Casa Bianca come “stratega” presidenziale di Stephen Bannon, ex direttore del sito web di ultra-destra, Breitbart News, e con legami ben documentati con gli ambienti fascisti del suprematismo bianco.

Le nomine più recenti di Trump sono state accolte invece dalla gran parte dei media d’oltreoceano come un tentativo di diversificare gli orientamenti ideologici della sua amministrazione oppure di offrire posizioni di rilievo a donne, dopo che in campagna elettorale si era alienato molte americane a causa delle varie denunce di molestie sessuali che erano emerse.

In realtà, finora i prescelti di entrambi i sessi da Trump continuano ad avere sostanzialmente in comune posizioni di destra, se non di estrema destra. La prossima ambasciatrice USA alle Nazioni Unite sarà ad esempio la governatrice della South Carolina di origine indiana, Nikki Haley, la quale, oltre a non avere nessuna esperienza nell’ambito degli affari internazionali, è una convinta anti-abortista e nel suo attuale incarico ha promosso politiche fiscali ed economiche improntate all’austerity più estrema e al taglio dei servizi pubblici.

Ancora più preoccupante è stata poi la nomina a ministro dell’Educazione di Betsy DeVos, miliardaria ed ex numero uno del Partito Repubblicano in Michigan che ha dedicato la propria vita alla distruzione della scuola pubblica nel suo stato. Anche la stampa americana “mainstream” in questi giorni ha insistito sulle sue attività volte alla promozione delle cosiddette “charter schools”, ovvero scuole private a fini di lucro sovvenzionate con denaro pubblico, e al contenimento dell’attività sindacale degli insegnanti nel settore pubblico.

Betsy DeVos, sorella di Erik Prince, fondatore di Blackwater, la famigerata compagnia che offriva servizi di sicurezza al governo americano in teatri di guerra, nonostante come Nikki Haley abbia talvolta espresso giudizi critici nei confronti di Trump nei mesi scorsi, minaccia di mettere in atto le idee di quest’ultimo in ambito scolastico, fondate sul trasferimento di fondi pubblici agli istituti privati, tramite ad esempio l’erogazione di “voucher” agli studenti che scelgono di frequentarli.

Già nelle prossime ore potrebbero arrivare altre nomine per ricoprire importanti incarichi nell’amministrazione Trump e le prospettive non appaiono migliori. Per il dipartimento della Difesa, il neo-presidente sta valutando, tra gli altri, l’ex generale dei Marines, James Mattis.

Alto ufficiale con incarichi di comando in Iraq e in Afghanistan, Mattis ha mostrato più volte la propria predisposizione al fanatismo ed è associato a numerosi massacri di civili, come le battaglie di Fallujah nel 2004 e, nello stesso anno, il bombardamento su una festa di nozze nella località irachena di Mukaradeeb che fece più di 40 vittime, tra cui 13 bambini.

Più in generale, Trump si è consultato in queste due settimane con svariati ex generali, offrendo probabilmente ad alcuni di loro incarichi governativi. Ciò conferma, al di là di quelle che saranno le scelte definitive, come la nuova amministrazione intenda orientare le proprie iniziative verso un marcato militarismo, con buona pace di quanti si attendono una de-escalation dell’impegno americano all’estero.

Nonostante la prevedibile piega che sta prendendo il processo di transizione di Trump verso la Casa Bianca, come già anticipato, molti esponenti Democratici hanno manifestato aperture nei suoi confronti, soprattutto in merito al piano di costruzione di infrastrutture per centinaia di miliardi di dollari che era al centro della sua campagna elettorale.

Anche se molti “liberal” sostengono di avere trovato un importante punto in comune con il populismo trumpiano, il suo non è un progetto di lavori pubblici che ricordi il New Deal di Roosevelt, ma prevede piuttosto massicce sovvenzioni a imprese private che saranno le principali beneficiarie delle opere che verranno eventualmente realizzate.

Il Partito Democratico sostiene inoltre di poter trovare un’intesa con la nuova amministrazione Repubblicana sulle misure di “nazionalismo economico” propagandate da Trump. La “sinistra” Democratica e i sindacati sono ad esempio sulla stessa lunghezza d’onda del presidente eletto per quanto riguarda la lotta ai trattati di libero scambio, accusati di avere causato l’emorragia di posti di lavoro dagli Stati Uniti negli ultimi decenni. Poca attenzione viene però prestata al pericolo di scatenare una guerra di dazi con gli altri paesi, conseguenza inevitabile del protezionismo propagandato da Trump.

Oltre alla necessità di serrare i ranghi nella classe dirigente americana per far fronte alle tensioni sociali che attraversano il paese, è anche l’illusione di poter lavorare con Trump in questi e altri ambiti ad aver probabilmente convinto i leader Democratici ad astenersi, se non in rare occasioni, dal fare riferimento al margine di vantaggio di Hillary Clinton nel voto popolare. Cosa che avrebbe potuto mettere in dubbio la legittimità dell’agenda reazionaria che si prospetta a partire da gennaio.

Malgrado abbia perso il voto dei “collegi elettorali”, su cui si basano le presidenziali negli Stati Uniti, l’ex segretario di Stato di Obama ha raggiunto un margine di due milioni di voti su Trump quando mancano ancora centinaia di migliaia di schede da scrutinare in stati come la California. Questo risultato è senza precedenti nella storia americana, visto che, tra la manciata di elezioni nelle quali il candidato vincente ha perso il voto popolare, il margine più grande era stato registrato nel 2000, quando Al Gore ottenne circa 540 mila consensi in più di George W. Bush.

L’atteggiamento di deferenza nei confronti di Trump, a fronte della deriva a destra che fa prevedere la selezione dei membri della sua amministrazione, è apparso particolarmente evidente nei giorni scorsi da due episodi che hanno coinvolto i media americani.

Trump si è recato martedì presso la sede del New York Times, cioè il giornale che aveva condotto la battaglia più dura contro la sua candidatura durante la campagna elettorale, giungendo spesso a distorcere i fatti riportati per favorire Hillary Clinton. L’incontro tra il presidente eletto e l’editore e alcuni reporter del giornale newyorchese è stato fin troppo cordiale e non ha toccato le questioni più scottanti relative a Trump, in linea con il proposito fatto recentemente ai lettori di seguire in futuro le vicende politiche in maniera più “equilibrata”.

In precedenza, lo stesso Trump aveva invece convocato nella sua residenza di New York dirigenti e principali “anchormen” dei più importanti network privati nazionali di notizie (ABC, CBS, CNN, FoxNews, MSNBC e NBC), verosimilmente per lamentarsi delle critiche rivolte da molti di loro nei suoi confronti e forse per dare indicazioni sulla copertura giornalistica della nuova amministrazione.

L’evento è decisamente senza precedenti in una democrazia e sembra essere stato caratterizzato da furiose invettive da parte di Trump contro i presenti. Frammenti della discussione sono filtrati solo in forma anonima per essere riportati da alcuni giornali, mentre nessuno dei partecipanti all’incontro si è fatto alcuno scrupolo per l’accaduto, decidendo di rispettare il vincolo di segretezza invece di denunciare gli attacchi del neo-presidente contro quella che dovrebbe essere ancora a tutti gli effetti una stampa libera e indipendente.

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