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27/10/2016

Dal Pci al Pds e la “chiesa” che è santa anche quando ha perso memoria

Quando Occhetto annunciò, nella sorpresa generale, che aveva deciso di cambiar nome al partito, esternai le mie perplessità ad un amico che era militante più che ortodosso del Pci e che, con uguale ortodossia aderiva alla nuova linea. Lui fu sorpreso, ricordando le mie molte polemiche con il Pci (evidentemente poco capite, perché non era certo il nome comunista che mi dava fastidio) e proruppe in un “Ma tu allora non sei anti-Pci, tu sei anti-Noi!”.
 
E ricordò una battuta di “Cuore” (l’allora supplemento satirico dell’Unità”) nella quale Montanelli diceva in un telegramma: “Confermato il suffisso anti, per il seguito aspettiamo il nuovo nome del partito”.

Quella risposta mi illuminò: dunque, c’era un noi che prescindeva dall’identità comunista e che gli era sottostante, un noi che poteva chiamarsi in qualsiasi altro modo ma che restava uguale a sé stesso. Che il Pci fosse un partito, per così dire, in mutamento ideologico di sempre meno certa connotazione comunista era cosa che noi dell’estrema sinistra sostenevamo (a torto o a ragione) dagli anni settanta, ma, che quell’identità fosse diventata una sorta di giacca intercambiabile con tanta indifferenza, era cosa tale da sorprendere anche chi, come me, aveva sempre dubitato dell’identità comunista del Pci.

La cosa era sconcertante perché il Pci era il partito con la più radicata ed esibita identità ideologica, unico con scuole di partito, diffusissime riviste ideologiche, con frequentissime liturgie celebrative del comunismo (almeno sino al 1981 era regolarmente celebrata la ricorrenza del 7 novembre). Come era possibile che tutto questo si dissolvesse come un gelato a ferragosto?
Ben presto si capì che, con la sua tradizionale disciplina, il popolo comunista avrebbe ratificato a larga maggioranza la svolta. Questo era possibile solo ad una condizione: che sotto la “pelle” comunista ci fosse un’altra identità, quella sì, davvero radicata. E si poteva cambiar pelle senza troppi dubbi. Anche se ci fu la scissione di Rifondazione Comunista a Rimini, (e quella silenziosa di centinaia di migliaia di iscritti che non rinnovarono la tessera e non aderirono a nessuna altra formazione politica), nel complesso, la maggioranza degli iscritti seguì disciplinatamente il gruppo dirigente. In nome di cosa?

Mi posi il problema di capire a quale “noi” si stava rivolgendo Occhetto, quando esortò tutti gli iscritti a non temere la svolta perché “sarebbero rimasti sempre gli stessi di sempre”. Certo, il Pci aveva assorbito pezzi delle più diverse culture politiche (socialisti riformisti e massimalisti, cattolici, liberali, azionisti, persino anarchici o sinistra fascista) amalgamando tutto in una base ideologica genericamente “socialista”, ma non si trattava di quello: non era l’irrompere di culture politiche altre che, per anni,  avevano covato sotto la cenere comunista, se così fosse stato avremmo assistito ad una esplosione, una diaspora. Invece si trattava di un flusso ordinatissimo: le sezioni cambiavano la targa all’ingresso con la massima naturalezza, gli iscritti si adattavano rapidamente al nuovo linguaggio e ai nuovi simboli, la routine delle feste, del tesseramento ecc. riprendeva come se nulla fosse.

Alcuni pensavano che, in realtà, si trattava di un astutissimo espediente tattico per superare la conventio ad exludendum ed andare finalmente al governo, ma la maggioranza capì perfettamente che non si trattava solo di questo e fu ben lieta di togliersi di dosso quel nome troppo pesante da portare. Quello che reggeva tutto era quel “Noi” che cercavo di identificare.

Ben presto capii che esso era il frutto del racconto che il partito aveva fatto della sua storia: il “popolo comunista” era, l’unica vera sinistra, possibile, la parte migliore del paese, quella immune da scandali e corruzione e caricata di una “missione storica”, quella di “salvare l’Italia”. L’identità comunista era stata funzionale a questo disegno, ma, almeno dal 1956 (se non dal 1944)  non corrispondeva ad un particolare indirizzo ideologico (come dimostra il fatto che, ad un certo punto scomparve dallo statuto  il riferimento al marxismo) e, insomma, non era affatto indispensabile essere comunisti per aderire al Pci.

D’altra parte la leggenda del “comunismo italiano” diverso da tutti gli altri (in parte vera ma in parte no) venne ripetuta all’infinito sino a cancellare tanto la radice comunista quanto anche solo quella socialista, lasciando solo il senso di appartenenza ad un soggetto che si sentiva chiamato a “salvare l’Italia” perché diverso e migliore di tutti gli altri italiani (la “diversità comunista” di Berlinguer, ricordate?), anche se la perdita della cultura di origine, faceva si che non si sapesse più da cosa si dovesse salvare il paese e come.

La nuova identità era nuda ideologicamente, nutrita solo da una autocelebrazione ormai priva di senso. Era la “chiesa” che è santa anche quando ha perso memoria delle sue origini e del messaggio evangelico da cui era sorta.

Fonte

Gattopardi che hanno mandato a puttane la parte migliore del Paese. 

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