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19/07/2016

Varoufakis, ovvero gli errori del volontarismo

Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze della Grecia, ha pubblicato su il manifesto un articolo di critica alle posizioni di Stefano Fassina sull’Europa, sviluppate sull’onda di Brexit. Fassina propone “la riaffermazione della sovranità democratica a scala nazionale”, aggiungendo che “sono sempre più retoriche e astratte le invocazioni degli “Stati uniti d’Europa” e le mobilitazioni per democratizzare l’Unione Europea, proposte da Diem 25”.

Varoufakis, principale ispiratore del movimento Diem 25, ha definito “preoccupante” il discorso di Fassina, accusandolo di “ritirarsi dentro posizioni nazionaliste”, simili a quelle di esponenti della destra europea come Marine Le Pen. La soluzione di Varoufakis per risolvere la crisi attuale è “una ricostruzione democratica del continente” in modo da “ricostruire, attraverso lotte e conflitto, un demos europeo che possa richiedere una costituzione federale e democratica”. Quindi, mentre Fassina propende per il superamento della moneta unica, Varoufakis è per conservare l’area euro, pensando di poterla democratizzare.

In effetti, in questo Fassina ha ragione, la posizione di Varoufakis appare astratta. Per capire se è possibile operare una democratizzazione dell’Europa occorre guardare a che cosa è l’Europa oggi nel concreto, cioè alla sua struttura materiale. Tale struttura è data soprattutto dai meccanismi dell’integrazione valutaria, che rappresentano la gabbia che imbraca l’azione del movimento operaio e delle classi subalterne. Lo spostamento a livello sovranazionale di importanti competenze economiche, l’esistenza di una banca centrale europea indipendente da qualunque controllo e l’impossibilità a manovrare i tassi di cambio valutari, il tutto dovuto all’esistenza di una moneta unica, rappresentano dei vincoli di carattere materiale che non è possibile bypassare.

La questione centrale non sta tanto nel decidere se fare o meno una lotta a livello nazionale oppure a livello europeo o se combinare i due livelli. Il punto che, prima di tutto, va chiarito è l’indirizzo generale del movimento dei lavoratori a livello nazionale ed europeo. L’obiettivo della lotta non può non essere la disgregazione dell’area euro, dal momento che la moneta unica è il nocciolo attorno al quale ruota non solo l’applicazione delle politiche di austerity ma anche tutti i processi di riorganizzazione dell’economia e della società europee, indirizzati a scaricare la stagnazione secolare, in cui è inchiodato il modo di produzione capitalistico, sul lavoro salariato e sulle classi subalterne.

Quanto alla realizzazione di lotte europee che coalizzino, come dice Varoufakis, precari italiani, mini-jobbers tedeschi e chi protesta in Francia contro la Loi Travail, bisogna anche qui guardare alla realtà. L’integrazione valutaria determina non la convergenza dei Paesi europei ma la divergenza delle loro condizioni. Di conseguenza, anche se le politiche neoliberiste si sono sviluppate dappertutto, non dappertutto hanno avuto la stessa intensità e hanno determinato le stesse conseguenze. Di fatto, la classe lavoratrice europea, a partire dall’introduzione dell’euro e ancor di più dallo scoppio della crisi nel 2008, è molto più divisa che nel periodo precedente. Qui non si tratta di decidere se esista o meno un demos/popolo europeo, scomodando persino Gramsci come fa Varoufakis. Si tratta di guardare a come funzionano le cose. Se la strategia del capitale europeo è complessiva, essa però si articola in modo differenziato e in mercati del lavoro e condizioni istituzionali e politiche molto differenti. Infatti, non ci pare che, fino ad ora, sia stato possibile realizzare lotte a livello europeo.

L’errore principale di Varoufakis è il volontarismo, ossia pensare che la soluzione sia una questione di esercizio della volontà, che volere sia potere. Purtroppo non è così. Volere è potere se si parte dalle contraddizioni reali e soprattutto se nella proposta si tiene conto degli ostacoli reali. Altrimenti si va incontro alla sconfitta. Ed è esattamente questo che è accaduto in Grecia l’anno scorso, quando Varoufakis condusse lunghe e fallimentari trattative con la speranza di ottenere dalle istituzioni europee condizioni accettabili. Di fatto, Varoufakis sta proponendo la stessa ricetta che è fallita in Grecia e che lo ha condotto alle dimissioni. Ora, pensa che la ricetta possa avere successo se applicata su scala europea. Ma non è l’aumento della scala che annulla le condizioni oggettive. Del resto, il problema non sta nella ottusità delle regole europee, dovute alla miopia di qualcuno, come pensa Varoufakis, che rimprovera a Renzi la mancanza d’ambizione di richiedere un summit per riscrivere quelle regole. L’architettura dell’euro nasce strutturalmente con uno scopo preciso su indicazione di classi sociali e interessi economici precisi, dei quali Renzi, come altri politici europei, è espressione organica.

Oggi, difendere l’integrazione europea o, peggio ancora, pensare che la crisi si risolva con più Europa, cioè con uno stato federale, finisce per offrire una stampella, per quanto involontaria, a un progetto reazionario che sta vacillando per le sue contraddizioni interne e per l’ostilità di ampi settori popolari e salariati (come è stato evidente in Inghilterra), molto più che per l’azione di forze populiste, xenofobe o di destra. Anche ridurre il dibattito tra chi è per il superamento e chi è per il mantenimento dell’euro ad uno scontro tra nazionalisti, di destra, e internazionalisti, di sinistra, è una semplificazione che non favorisce il dibattito interno alla sinistra europea. Oggi, a differenza degli anni ’30, il capitale non punta strategicamente sul nazionalismo bensì sul cosmopolitismo. E questo sempre per ragioni oggettive, cioè perché il capitale è, nella sua fase storica di accumulazione globale, internazionalizzato.

La disgregazione dell’euro è sufficiente a risolvere le difficoltà dei lavoratori e della sinistra europea? Certamente no, perché l’uscita dall’euro non abolisce i rapporti di produzione esistenti né crea di per sé rapporti di produzione alternativi. Ma, d’altro canto, la disgregazione dell’euro è una condizione necessaria, per quanto non sufficiente, a ristabilire condizioni di lotta più favorevoli e a recuperare e allargare spazi di sovranità democratica e popolare, la cui eliminazione è stata determinata soprattutto dalla delega di importanti competenze economiche a organismi sovranazionali e ai meccanismi autoregolati del mercato e della moneta unica. L’inutilità del referendum greco dell’anno scorso ne è stata purtroppo esemplare dimostrazione.

Per questa ragione parlare di superamento dell’euro e, quindi, di recupero della sovranità democratica e popolare non può essere scambiato per nazionalismo. Al contrario, si tratta di un elemento imprescindibile per la ridefinizione di un posizionamento e di un profilo adeguato non solo della sinistra dei singoli Paesi ma soprattutto della sinistra europea. Il superamento dell’euro è forse l’unico elemento, in ogni caso il principale elemento, attorno al quale in questa fase storica si possano riaggregare i popoli europei e soprattutto la frammentata classe lavoratrice europea, i cui pezzi sono stati messi gli uni contro gli altri, e ricostruire così un vero internazionalismo europeo che oggi, non a caso, è pressoché inesistente.

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