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23/06/2016

Lambro 1976-2016: Espresso, lascia perdere


“sono nato dove non c’erano costrizioni” (Geronimo)

L’Espresso è noto da sempre come strumento per hitman della comunicazione. In italiano, più o meno, significa che quando qualcuno vuol fare una campagna negativa, denigrante fino alla depressione può usare, come arma contundente, le pagine de l’Espresso. Naturalmente una campagna che vada negli interessi di ciò che comunemente si chiama centrosinistra. O meglio del pezzo di Italia che conta in quell’area di politica istituzionale, mica elettorato. Questa regola, aurea, valeva tanto più per gli anni ’70. Anzi peggio, perché all’epoca per L’Espresso era già suonata, in modo traumatico, l’ora della fine della ricreazione. Si a quell’epoca, si potevano denunciare le malefatte della Dc, i potentati della Nato, ma ormai il dado era tratto. Era cominciata l’epoca della difesa del governo di compromesso storico bisognava quindi attaccare gli “eccessi” degli operai e dei giovani.

Era il periodo in cui Repubblica nacque per liberalizzare il Pci ma da destra (anche se qualcuno, come al solito, capì il contrario). Bisognava contenere i salari, bloccare gli scioperi, aumentare la produzione, in un programma delle sinistre che, oltre alla produzione, salvava anche la Dc. Cominciava il periodo in cui la retorica dei diritti civili era giocata contro la contestazione al modello di sviluppo. Era quindi l’epoca delle operazioni da hitman che, con l’attacco al movimento del ’77 e successivi, costruirono vere e proprie pietre miliari della storia del giornalismo della denigrazione in Italia. I collettivi, gli studenti, i giovani politicizzati dovevano essere rappresentati come scoppiati, confusi, negativi, persi. Di contrasto c’era la “grande” politica, quella del presunto progressismo italiano. Quella che, come sappiamo, avrebbe portato, l’Italia nell’abisso, dall’epoca dell’abbraccio delle sinistre con la Dc ai governi Prodi, senza soluzione alcuna.

Ogni grande operazione di denigrazione, come sappiamo, ha un inizio e una fine. Una fine, per quanto riguarda l’Espresso e Repubblica nei confronti del movimento, la troviamo all’inizio degli anni ’80. Una volta sconfitti i collettivi, i movimenti, gli operai (alla Fiat, con la compartecipazione di Bertinotti e Fassino, nomi sinistri che sarebbero arrivati fino a noi), una volta terminato il passaggio nelle carceri di 16.000 persone (eh già, pochi sanno che Amnesty International nel marzo ’82 dichiarò di aver raccolto una “mole impressionante” di testimonianze sulle torture ai detenuti politici in Italia) la stampa progressista e di sinistra poteva ben dedicarsi alle culture underground giovanili del periodo. Le migliori, per quel genere di giornalismo: facevano look, di copertina ma impolitiche che lasciavano fare le cose serie alla sinistra disastro, quella che sarebbe arrivata fino ai nostri giorni. Ma se quel periodo è la fine, l’inizio di una campagna di denigrazione contro il movimento durata almeno un lustro (e rinverdita, anni dopo, contro “violenti”, “black bloc”, “hooligan”, “no-tav” etc.) lo troviamo al Parco Lambro, giugno 1976.

La campagna dell’Espresso, e della stampa progressista, sul Lambro è l’inizio di una vera, politicamente parlando, caccia all’uomo. E qui facciamo un utile flash back: in quel giugno, le elezioni più importanti dopo il ’48 si sono concluse, si va verso il governo, di compromesso storico, Andreotti, appoggiato dal Pci che aveva Napolitano come ambasciatore presso l’esecutivo. Programma chiaro: sacrifici, normalizzazione, solita vita di corte di sempre per le classi dirigenti, contenimento dei salari. Per il necessario recupero di competitività del paese in un modello di sviluppo già allora senza senso, ci mancherebbe. Il delirio che conosciamo, che si è snodato nel tempo da Andreotti, a Ciampi, a Prodi, a Monti. Il movimento che si riunisce al Lambro viene invece dalla fase delle lotte del proletariato giovanile e celebra il proprio festival. Dopo una stagione di conflitti del proletariato metropolitano dell’epoca, il cui acuto collettivo fu la rivolta dell’aprile 1975, verso quelli dell’autunno del 1976 che trovarono esplosione finale nella battaglia della Scala, all’inaugurazione della stagione teatrale milanese di quell’anno. Si trattava, ma è l’abc per chi è interessato alla storia reale, di un movimento molto diverso dal ’68, per composizione interna, per obiettivi, per cultura, per il conflitto aperto che esprimeva nei confronti della sinistra istituzionale ormai sistemica e povera di prospettiva. Ne “L’editore” di Nanni Balestrini si rappresenta bene questa situazione, quando nelle discussioni informali tra studenti, tra giovani, c’è un dialogo dove si rappresenta l’antifascismo come acquisito, e scontato, e dove si conviene apertamente che per conquistarsi la libertà si deve andare allo scontro frontale con il Pci e la Cgil. Si parla di dialoghi e di comportamenti che oggi non trovano nè traduzione nè spiegazione. La comprensione, va detto, non l’hanno mai trovata. Si tratta di linguaggi e comportamenti che risultano incomprensibili ad un’Italia contemporanea che non ha, né al momento desidera, le categorie per leggere adeguatamente tutto questo. Eppure allora, quaranta anni fa, era la pratica di movimento di tutti i giorni, di decine di migliaia di persone, in ogni angolo del nostro paese. Tra scuole, università, fabbriche e territori.

Ogni pratica, ogni generazione di lotta ha quindi la propria epifania. Quella generazione l’ebbe con il festival del parco Lambro del giugno del 1976. E qui c’è da capirsi su una cosa: se c’è un senso di libertà che è irrappresentabile oggi è quello di essersi liberati dal lavoro, dalla famiglia, dalle istituzioni, dalla disciplina, dalla morale, dal buonsenso e tutto assieme. Questo senso di liberazione è avvenuto, è stato vissuto, e collettivamente, in quel periodo. Qualcosa di impensabile per la sinistra istituzionale che viveva di etica del lavoro, timore reverenziale verso le istituzioni, il partito, la morale. Era una rottura, tra il movimento e la sinistra istituzionale, prima ancora antropologica che politica. Rottura che si celebrò al Lambro tra nudi, amori sui pratini, espropri contro gli stessi organizzatori del festival, incidenti, concerti, feste diffuse. Una rottura celebrata con splendori e miserie perché solo nei dipinti con gli angioletti e il cielo terso si fa vedere un mondo che osanna il creato e senza nubi all’orizzonte. Per la sinistra istituzionale, e quella giornalistica dell’Espresso, era troppo. La campagna di denigrazione dell’Espresso sul Lambro, che oggi la stessa testata online celebra con orgoglio, dette simbolicamente il via ad una operazione di denigrazione mediatica di una generazione lunga un lustro. Intrecciando questa operazione, sempre mantenuta, con servizi di denuncia sociale, di inefficienze della politica e di problemi sindacali. Ma sempre, sistematicamente, lavorando ai fianchi contro questo scandalo di decine di migliaia di persone in aperta secessione, e aperto conflitto, contro un paese provinciale e ottuso che stava precipitando in un lungo declino ampiamente annunciato proprio dal movimento di cannibali che la sinistra istituzionale demonizzava come tali.

A quarant’anni dal Lambro, l’Espresso torna sulle copertine, e i servizi, del delitto. Sul seno nudo in prima pagina di quaranta anni fa che, da un lato, faceva vedere che si trattava di un settimanale aperto mentre, dall’altro, serviva per aprirsi sì, ma alla denigrazione più banale, sistematica e deprimente di un movimento. Su committenza Pci, Cgil e, oggi si direbbe, gruppo Repubblica-Espresso. Oggi è chiara una cosa: l’Italia non era in grado di contenere qualcosa di diverso dal solito processo di civilizzazione scuola-lavoro-disoccupazione-casa-ufficio. Le stesse invocazioni, che si sentono persino ai giorni nostri, di un paese “normale”, onesto privo di scosse, che funziona sono indice di questa povertà culturale, e persino di quella economica (solo le anomalie producono innovazioni quindi ricchezza) che continua a permanere.

L’Espresso di oggi, riportando compiaciuto i servizi di allora, scrive del Lambro “l’esaltazione della libertà assoluta che avrebbe segnato il tramonto della speranza”. Prima questione: il Lambro non esaltava, esprimeva. La stessa idea di esaltazione era estranea a quel movimento che contestava ogni eccesso ideologico anche fino a divorare sé stesso: il militarismo, il maschilismo, il miltantismo, il freakketonismo, il pacifismo, il riformismo (quindi comportamenti opposti tra loro) erano messi regolarmente a critica. Gli esaltati si beccavano un coro di “scemo, scemo”, in una cultura collettiva dell’ironia estranea alla politica di oggi persino non in grado di sopportare una imitazione di un comico. Seconda questione: il movimento non aveva alcun assoluto perché nato contro il concetto stesso di idealismo. Terza questione: il concetto, nella subcultura politica di oggi, della speranza ha un’origine marcatamente cattolica. Si tratta di una sorta di orizzonte che mai si avvicina e che vuole la propria inavvicinabilità come consolazione di sofferenze reali. Il movimento era contro la speranza, orizzonte lontano. Come sappiamo voleva tutto e lo voleva subito.

Il titolo de L’Espresso del 2016 è un tutto un programma: “quando al Lambro finì il futuro”. Niente di più falso, il futuro finì nella connivenza e nell’ottusità di una sinistra alleata di Andreotti, dei Ciancimino, dei Gava, dei Fanfani che si immolò per un modello di sviluppo che non aveva alcun senso né prospettiva (come vediamo oggi) salvo per chi poté capitalizzare questo processo in termini di carriera. L’Espresso celebra quindi felice le proprie stupidaggini di allora, esaltando il proprio vuoto patrimonio culturale fatto anche di scuola della denigrazione, della disinformazione, dell’ignoranza. Per prepararsi a nuove stagioni contro il prossimo nemico, su ordine dei residui del centrosinistra e della proprietà della testata, ci mancherebbe. Resta solo da invitare la nobile testata, che vive agitata da incubi che si è creata da sola, a lasciar stare il Lambro. In fondo non ci ha capito nulla quaranta anni fa è impensabile lo faccia adesso. Senza voglia, senza strumenti, senza acume. La dimensione dell’Espresso sono i servizi sugli scontrini dei deputati, sul Ruby bis, gli articoli su chi sale e scende nel borsino del potere, le cronache del palazzo. O gli scandali per sostituire un Cda con un altro. Sul Lambro, su splendori e miserie di un festival che fu rito di una rottura antropologica rimandiamo invece all’estratto del girato di un grande regista di movimento, Alberto Grifi.


Se qualcuno avrà stropicciato gli occhi leggendo questo non è colpa nostra. Anzi abbiamo usato categorie narrative semplici, nessuna storiografica o analitica. Ma l’Italia è un paese dove il passato è talmente rimosso che, quando fuoriesce, appare inverosimile. Comunque, “Un tranquillo festival pop di paura”, quale fu il Lambro secondo Gianfranco Manfredi è poi una di quelle vicende non di facili letture. Di certo banalizzata dalle polemiche sugli espropri e sui nudi. Del resto si era agli albori di quella polemica sul frammento rispetto all’assieme, sul dettaglio scandalistico che è oro e petrolio, in termini di attenzione di pubblico e di fatturato pubblicitario, dei media di centrosinistra (e non solo). Resta da dire una cosa. C’è un disagio, parola usata spesso in redazioni come quelle dell’Espresso, che nella testata diretta da Vicinanza (passato di redattore presso l’Unità, il Centro, il Mattino, ha ricevuto il premio “per la legalità”, insomma non proprio Allen Ginsberg) nessuno mostra d'aver provato. Quello, rappresentato sempre nell’Editore di Balestrini. Quello di colui che ha provato quella libertà, quella rottura antropologica ed è costretto a tornare. Nel mondo dove comandano impresa, sopraffazione e denaro. E’ grave, oggi, vivere senza aver provato questo disagio. Significa non conoscere cosa vuol dire essere liberi. Visto che all’Espresso questo disagio, e con lui la libertà, è sconosciuto magari la testata potrebbe fare un piacere a tutti. Potrebbe non occuparsi più di vicende come il Lambro per tuffarsi in quell’entropia della comunicazione digitale che è la giusta, comoda, pietosa tomba per testate come L’Espresso.

Per Senza Soste, nique la police

22 giugno 2016


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