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28/06/2016

Dopo Brexit. Avanti alla cieca, verso dove nessuno vuole

Quando le cose si rompono, c’è sempre la tentazione di semplificare cercando un colpevole. La cosa più difficile da comprendere, in un mondo dove si è abituati a pensare in modo binario (si o no, favorevole o contrario, bene o male, ecc.), è che i processi storici sono assolutamente impersonali. Naturalmente ci sono molti uomini e donne che agiscono e prendono decisioni, ma le prendono in condizioni che loro non determinano e che, anzi, li costringono a decidere in un modo o nell’altro.

Stupisce, in tanti commenti “antagonisti”, “comunisti”, ecc, di questi giorni post-referendum britannico, che questa considerazione base sia sempre dimenticata, preferendo prendersela con chi “vuole” la rottura dell’Unione Europea e “non vede” che i populismi sono spesso (non sempre) “orientati a destra”.

Odiamo fare citazioni teoriche nel bel mezzo di analisi politiche, ossia, di natura “tattica”, ma qualche volta è necessario:
Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia. (Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte). 
Il giorno dopo il voto britannico, in effetti, pare proprio che tutti i protagonisti della scena politica di quel paese si siano svegliati sorpresi che sia accaduto qualcosa che nessuno di loro voleva davvero.

David Cameron pensava di aver fatto una genialata indicendo un referendum per l’uscita dalla Ue, in modo da togliere ai “populisti” di Nigel Farage e quelli interni al partito conservatore l’arma dell’euroscetticismo. Per esser certo della vittoria aveva rinegoziato con l’Unione Europea – disponibilissima solo in questo caso – ben quattro “esenzioni” dagli obblighi comunitari, aggiuntive rispetto a quelle già ottenute nei trattati precedenti. Tra queste, l’obbligo a un’“Unione sempre più stretta” e la concessione del welfare locale ai lavoratori “comunitari” (italiani, francesi, ecc, insomma). L’omicidio di Jo Cox aveva infine sollevato sufficiente commozione e spavento (“meglio darsi tutti una calmata, altrimenti finiremo per sparaci tra di noi”), al punto da convincere anche “i mercati”, che utilizzano strumenti di indagine molto più sofisticati dei sondaggi, di una vittoria del remain. Magari non plebiscitaria, ma vittoria.

I campioni di destra del leave, gli unici ad ottenere audience sui media di tutta Europa (della campagna della sinistra chiamata Lexit pare ci siamo occupati soltanto noi...), coltivavano la stessa previsione. Obiettivo massimo: ottenere una “sconfitta onorevole” – il 52 a 48 dei sondaggi finali – in modo da negoziare un posto di prima fila nell’establishment, ma senza il pericolo di dover gestire davvero una Brexit.

La Storia si diverte a mettere tutti, furbi e pagliacci, geni autonominati e cretini conclamati, davanti all’imprevisto. Che Brexit sia, ha deciso l’elettorato, soprattutto nella sua parte povera, disoccupata, rovinata materialmente da quel poco di scelte “europee” che si sono sommate alle politiche neoliberiste dei conservatori (“sette anni di dolore”, di tagli al welfare e alla spesa pubblica, aveva promesso lo stesso Cameron al congresso dei conservatori di Manchester, nell’ottobre del 2013; ed è l’unica promessa che certi governanti sanno mantenere...).

Ora tutti stanno cercando di correre ai ripari. Cameron, dimissionario ma senza lasciare Downing Street, spiega che non sarà lui, ma il per ora ignoto successore, a chiedere l’attivazione della procedura di uscita dalla Ue prevista dall’art. 50 del Trattato di Lisbona. L’Unione Europea farà finta, fino alla richiesta formale, che non ci sia stato alcun referendum, anche se tutti i leader – in pubblico – dicono che “bisogna far presto”, ovviamente per ridurre l’incertezza sui mercati, ma sotto sotto lavorano per vanificare il voto referendario.

Cosa peraltro non impossibile, vista la potenza delle forze che lo pretendono (dal capitale multinazionale alle principali cancellerie del mondo, da Obama alla Cina, alla Russia), ma che certo consegnerebbe le procedure della democrazia agli archivi più polverosi.

In ogni caso, l’involucro si è rotto, e ripararlo non si può. Banalmente, o si rinuncia alla parvenza della democrazia (invalidando in qualche modo un voto referendario), quindi all’unica legittimazione almeno formale degli assetti vigenti, oppure si rinuncia a tenere insieme una complicata baracca che fin qui ha prodotto il contrario di quel che prometteva (“più benessere per tutti”) e sta alimentando un odio unitario in tutti gli strati medio-bassi della popolazione continentale.

Una riflessione appena un poco marxista, insomma, porrebbe l’accento sulle cause di questo evidente processo di dissoluzione della “Ue democratica”, ovvero su come la crisi sistemica sta minando le basi di una neoformazione politica che sembrava poter sfidare il normale procedere della Storia (prima si costituisce uno Stato e una volontà di unione condivisa, poi la moneta; non viceversa). Si sarebbe in questo caso capito che chi, come noi, pone da tempo l’obiettivo della rottura dell’Unione Europea, sta fondamentalmente cogliendo un movimento tettonico della struttura esistente (oggettivo e dunque incontenibile) e indicando il superamento possibile e necessario per evitare la catastrofe generale (progetto soggettivo, fallibile come ogni cosa umana, ma almeno non rassegnata passività di fronte all’evoluzione negativa della situazione).

La stessa Brexit, vogliamo dire, è il venire alla luce di movimenti tettonici profondi, non il risultato di “parole d’ordine irresponsabili”, “ambizioni personali di personaggi infidi” (e lo sono certamente, ma perché hanno successo invece di scomparire subito nel ridicolo?), ecc.

Non ci sorprende che per vedere consapevolezza della dimensione dei processi in corso – in mezzo a tanto pattume che invoca ormai apertamente il “superamento del suffragio universale” – occorra leggere, per esempio, l’analisi impietosa di uno dei pochi osservatori professionali che non usa coprirsi gli occhi davanti all’approssimarsi dell’orrore.

***** 

da Il Sole 24 Ore

Ipotesi balcanizzazione per l’Europa

Alberto Negri

Le guerre di solito sono precedute da crisi finanziarie ed economiche. Se questa crisi non sarà frenata potremmo assistere a una balcanizzazione dell’Europa perché i valori numerari crolleranno e di conseguenza nessuno sarà più in grado di prevedere quale deriva prenderà il continente. Paradossalmente ma non troppo i governi europei dovranno salvare l’euro e quel sistema bancario e finanziario dominante che è una delle cause di distacco tra cittadini e istituzioni. In poche parole se vorranno salvarsi gli europei, con qualche necessaria riforma, dovranno delegare dei superpoteri alla Banca centrale e a Mario Draghi.

L’Europa a due o a tre velocità non esiste: il sistema crolla tutto insieme, magari a due o a tre velocità ma tutto insieme.

Già largamente divisa sulle politiche da adottare dentro e fuori dell’Unione, se si sgretola anche il collante dell’euro, l’Europa scompare come soggetto politico. Non sarà soltanto la rinascita degli stati nazionali ma una corsa al “si salvi chi può”: gli stati più deboli come l’Italia, la Spagna, la Grecia potrebbero diventare nuove entità o preda di appetiti altrui, per non parlare di quello che può accadere a Est dall’Ucraina alla Polonia all’Ungheria.

La Russia di Putin può approfittarne? Può darsi, ma quando comincia il caos alle porte di casa di solito entra anche nella “tua” casa: quanto avviene nel Mediterraneo e in Libia è storia recentissima. L’Italia del Nord che viaggia con un Pil alla tedesca potrebbe decidere di separarsi e unirsi al Nord europeo, così come la Catalogna in Spagna dove si vota oggi. Questi eventi sono possibili, come del resto è già in discussione il distacco della Scozia dalla Gran Bretagna: e pensare che i sostenitori del “leave” durante la campagna referendaria hanno fatto appello persino ai Tudor come dinastia di riferimento per indicare il destino eccezionale dell’Inghilterra.

Il voto inglese è stato una sorta di dichiarazione di guerra o di ostilità: e infatti lo stiamo pagando con perdite enormi sui mercati soprattutto nei Paesi più vulnerabili. Tanto è vero che gli stessi inglesi se ne stanno pentendo e pensano di correre ai ripari rimandando al Parlamento la decisione di uscire dall’Unione senza invocare l’articolo 50.

La Brexit non è certo la causa della crisi dell’Europa ma potrebbe diventare come Sarajevo il colpo di pistola che innesca la fine della corsa europea. E’ in sostanza la presa d’atto di un fallimento percepito a livello popolare, del disagio esistenziale di vivere in società diverse da quelle in cui gli europei sono nati e che non distribuisce più ricchezza ma povertà e disoccupazione.

Il conflitto può essere esterno ma il più delle volte in questi casi parte da dentro utilizzando gli strumenti ben noti del populismo e della crisi di identità. La Brexit ha trasferito all’esterno il disagio interno vissuto dalla popolazione britannica ma i conflitti esterni al continente possono costituire una miscela micidiale. Se l’Europa comunica destabilizzazione anche fuori è finita.

La disgregazione della Jugoslavia è stata emblematica: è iniziata con la morte di Tito e la crisi economica ed è esplosa quando nessuno volere pagare più per i debiti degli altri per tenere in piedi la Federazione. Il colpo di pistola fu il discorso iper-nazionalista sull’identità e la missione storica dei serbi di Milosevic a Kosovo Polje nel 1989: ma gli europei vi prestarono poca attenzione e qualche mese dopo si ubriacarono di felicità con la caduta del Muro. Non era il mondo nuovo o la fine della storia come scrisse qualche incompetente ma l’ingresso del vecchio mondo, emarginato dalla cortina di ferro che entrava nelle nostre case, così come poi sono entrati gli altri immigrati fino all’ondata dal Medio Oriente, dove si sta aprendo tra Stati Uniti, Russia e gli attori locali l’ultimo capitolo della battaglia per Aleppo che definirà le nuove zone di influenza nella regione e oltre.

Il salvataggio dell’euro e dell’Europa non sarà comunque l’inizio di una nuova era di benessere ma il tentativo estremo di evitare la balcanizzazione, le guerre e i conflitti. Questa è la posta in gioco. Quanto all’economia è la fine delle illusioni: il sistema attuale non produce posti di lavoro, che scompaiono o diventano sempre più precari, numeri effimeri buoni per le statistiche. La fine del lavoro come lo abbiamo conosciuto accompagna quello del welfare europeo. E’ un processo che ormai abbiamo capito tutti: la rinascita europea, se ci sarà, avrà un altro nome.

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