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26/06/2016

Buona Brexit per tutti

Non si governa contro il popolo. Neanche le dittature più feroci possono stare in piedi senza essere sostenute da un blocco sociale, magari minoritario ma consistente. Tanto più in regime di democrazia parlamentare, per quanto svuotata, sfibrata, derisa da politiche concrete sempre differenti o opposte a quelle promesse.

Il voto britannico è un voto storico perché dimostra concretamente che la gabbia di trattati su cui è costruita l’Unione Europea può esser rotta solo per decisione di un intero popolo, ovvero di una sommatoria di figure sociali differenti ma convergenti.

È un voto popolare per dimensioni dell’affluenza al voto (oltre il 72% in un giorno di pioggia e mezze alluvioni) e per dislocazione sociale del leave. È stato chiaro fin dai risultati di Sunderland, il secondo collegio ad esser scrutinato, città industriale e dunque operaia, dove il pernacchio a Cameron e alla Ue ha superato il 60%.

È un voto che dimostra come non esista alcuna possibilità di “riformare dall’interno” questa tecnostruttura disegnata sul misura del capitale finanziario multinazionale, deterritorializzato e pronto a cambiar sede ad ogni stormir di fronda. Proprio la Gran Bretagna aveva ottenuto, fin dalla fondazione, uno statuto speciale, che la sottraeva a molti obblighi comunitari. Statuto allargato ancora pochi mesi fa, con ben quattro nuovi capitoli di eccezione (dal welfare negato ai lavoratori comunitari all’esenzione dal partecipare a una “unione sempre più stretta”). Un paese “privilegiato”, sede della più grande piazza borsistica del Continente, teatro del 50% degli scambi finanziari globali, che poteva godere contemporaneamente dei vantaggi dello stare nell’Unione e di quelli dell’indipendenza di fatto.

La notte delle streghe, la notte di Faust e Walpurga, ha stabilito che persino questa adesione riluttante era invivibile per più della metà di un popolo, quella che ritiene di averci rimesso già troppo.

A niente sono valsi gli appelli “europeisti”, a nulla le minacce. Alla fin fine è risultato insufficiente anche l’omicidio di Jo Cox, deputata laburista pro-Ue ma filo-palestinese e contraria all’intervento in Siria, ad opera di un neonazista inglesissimo (dunque mai definito “terrorista”). Le emozioni negative che avrebbe dovuto suscitare erano state messe nel conto di un voto “conservativo” per paura, della serie “potrebbe succedere di tutto, meglio restare”. Fermi.

Ora tutto può accadere, certo. E il crollo immediato dei mercati sottolinea che il capitale finanziario sta rivedendo le sue “posizioni” (di investimento), spostando migliaia di miliardi dalla City e dall’Europa verso altri lidi. Ma in quel vuoto di progetto che si è improvvisamente aperto occorre infilare la leva di una mobilitazione generale mirante ad allargare consapevolmente quella falla. Una mobilitazione di popolo, certamente complicata e spuria, così come complicati e spurii sono i popoli (classi diverse, tante diseguaglianze o contrapposizioni, spesso a geometria variabile, e solo qualche punto di convergenza forte).

Il voto inglese non rimarrà infatti senza risposta “istituzionale”, oltre che economico-finanziaria. “In is in, out is out”, hanno ripetuto ossessivamente i maggiorenti del capitale (fino a George Soros!), della tecnocrazia brussellese e dei vertici governativi dell’Unione. Come per la Grecia, l’orgoglio di un popolo che osa fare il contrario di quanto prescritto deve essere spezzato da una serie luttuosa di conseguenze negative, fino a ridurlo a più miti consigli. E le borse si stanno incaricando di predisporre i bombardieri adatti.

Come per la Grecia, si dimostra qui che la democrazia parlamentare è un abito istituzionale che non calza affatto bene per le esigenze del capitale multinazionale. Nata e pensata come soluzione equilibrata dei conflitti tra interessi sociali diversi (imprenditori, lavoratori, commercianti, professionisti, ecc.) all’interno di un ambito nazionale (unità di lingua e tradizioni, prima ancora che sicurezza dei confini), è di fatto un ostacolo per la libera operatività di capitali che non hanno affatto quel limite. E che pretendono venga eliminato.

Ne abbiamo ogni giorno la prova nel dibattito politico europeo, dove le esigenze della stabilità e della rapidità decisionale (chiama anche “efficienza”) vengono sempre più decisamente contrapposte alle movenze flemmatiche e riflessive di procedure parlamentari o legislative improntate – storicamente e necessariamente – alla mediazione conflittuale tra diversi interessi. Primi germi di una volontà da tempo esplicita nelle “istituzioni sovranazionali” e nello spirito stesso dei trattati: sottrarre le decisioni politiche rilevanti alla volontà delle popolazioni che dovranno subirle. Un vero e proprio governare contro il popolo, senza contrappesi e senza possibilità di feedback. Dunque senza possibilità di “riforma”, se non dall’alto.

Il voto inglese rappresenta dunque uno stop clamoroso su questa strada.

Certo, nonostante l’evidente ma occultata presenza di una sinistra britannica “euroscettica” (la campagna Lexit ­– Left più exit – è stata molto attiva e partecipata), il segno principale di questo stop è spesso nazionalista, di destra, con forti connotazioni razziste anti-immigrati. Ma questa constatazione si ferma al risultato prodotto da scelte politiche suicide delle sinistre storiche e dei sindacati; se il malessere del nostro blocco sociale viene lasciato senza risposte, è assolutamente ovvio che quel malessere vada a incontrare l’offerta politica bastarda che finge di interessarsene. Non si eviterà questa saldatura disastrosa rinunciando a difendere gli interessi dei nostri e allineandosi silenziosi dietro “l’europeismo” dei governanti corrotti, in nome del “meno peggio”. Non si eviterà questo disastro, insomma, perpetuando le scelte che hanno portato alla dissoluzione della “sinistra radicale” e del “movimento antagonista”.

Certo la pochezza strategica degli attuali leader del Leave non lascia spazio a fantasie sulla loro capacità di guidare la corazzata britannica in acque improvvisamente tempestose. Certo, sostituito Cameron, anche Boris Johnson dovrà piegarsi a cento compromessi per non perdere del tutto quei vantaggi che un rapporto stretto con la Ue comunque comporta (e se non lo capirà da solo, glielo spiegheranno i magnati della City, in poche ore).

Ma è inutile camminare con la testa rivolta all’indietro. Inutile e pericoloso. Davanti a noi – il mondo del lavoro, precari e disoccupati, giovani e pensionati di tutti i paesi europei – si stagliano con nettezza due sole strade: a) la blindatura dell’Unione Europea contro i popoli, con una secca riduzione a un “nucleo duro” (l’Eurozona, forse neanche tutta, ovviamente cercando di tenere in vita il massimo di rapporti economici con la “nuova” Gran Bretagna) che traccia la strada senza perdere troppo tempo in mediazioni con chi non si è ancora sottoposto a tutte le forche caudine (Ungheria, Polonia, paesi baltici, ecc; “tanto, dove volete che vadano, da soli?”), ma inchiodando le classi deboli al solito percorso fatto di austerità, taglia alla spesa e al welfare, alla struttura dei diritti residua; b) l’apertura di una fase conflittuale aperta, al livello delle “grandi masse”, per rovesciare i governi nazionali espressione diretta del grande capitale multinazionale e per costruire forme di coesione internazionale fondate su interessi opposti a quest’ultimo.

L’unica strada interrotta per sempre è quella dalla “riformabilità”. E non ci stupisce poi troppo che Grillo, per esempio, vi sia approdato con un tempismo suicida nelle ore appena precedenti la Brexit.

L’Italexit, l’obiettivo lanciato dalla campagna Eurostop, è da stamattina un obiettivo politico concretissimo, raggiungibile, praticabile. Non sarà una passeggiata, ovviamente. Ma tutti gli obiettivi più “facili” hanno il pesante difetto di non cambiare in nulla il quadro; ossia di essere soluzioni subordinate alle scelte che farà il capitale multinazionale.

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