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26/04/2016

Verso una riforma alla tedesca del “patto di stabilità”

Visto da fuori, in particolare attraversi i media mainstream italiani, il vertice Ecofin – che comprende i ministri finanziari dell’Unione Europea – avrebbe fatto segnare uno stop per le velleità tedesco-olandesi di introdurre al più presto un tetto ai titoli di stato posseduti dalle banche private come misura precauzionale e preventiva a un – eventuale, non certo – fondo europeo di garanzia dei depositi privati fino a un massimo di 100.000 euro. La cosiddetta “terza gamba” dell’unione bancaria, senza cui il sistema non sta in piedi.

L’intento era fin troppo chiaro: costringere le banche con troppi titoli di stato a liberarsene, svalutandoli di fatto, e quindi stringere più ferreamente il cappio al collo di quei paesi – i Piigs in primo luogo, a cominciare dall’Italia – che continuano ad applicare con esitazioni, ritardi e qualche resistenza di troppo le “prescrizioni” dettate dalla stessa Germania e dal suo tirapiedi olandese, Jeroen Dijsselbloem. Questi paesi, infatti, avrebbero trovato più difficoltà a rifinanziare il proprio debito pubblico ricorrendo al mercato.

Congelare questa richiesta, con discreta maggioranza, non è stato troppo difficile. Ogni capo di stato o banchiere centrale ha potuto infatti indicare con certezza quel che sarebbe accaduto il giorno dopo una decisione del genere: un balzo in cielo degli spread, un intervento negativo delle agenzie di rating, la riapertura di quella crisi del debito pubblico che nel 2012 aveva portato la moneta unica sull’orlo del baratro.

Sia chiaro, però: non è stata affatto accantonata. Dijsselbloem, sul tema, ha ribadito che «alcuni ministri hanno sottolineato l’importanza di agire a livello globale, con i nostri partner nel comitato di Basilea, altri hanno sostenuto che nella zona euro ci sono argomenti per andare avanti anche separatamente se necessario». Si riferisce ad un’altra obiezione contraria alla richiesta tedesca – “non si possono anticipare, come sola Unione Europea, le regole che a livello planetario verranno prese nei negoziati di Basile sulla stabilità bancaria” – che viene però superata ricorrendo a una cadenza temporale più lunga. Dijsselbloem ha infatti precisato che «si tratta di una questione che non deve essere trattata rapidamente, da attuare dal giorno alla notte, ma che va gestita nel lungo periodo; penso ci sia la possibilità di procedere parallelamente al Comitato di Basilea e in Europa». Tradotto: non si tratta di approvarla oggi, mettendo in apprensione i mercati e dando campo libero alla speculazione contro l’euro o i bond di singoli paesi, ma la proposta resta sul tavolo e verrà imposta, in qualche modo...

Sbaglia comunque chi crede che l’offensiva boero-tedesca sia finita qui.

Nello stesso vertice, infatti, è stato aperto un dossier ancora più importante: la necessità di “riformare” il cosiddetto “patto di stabilità”, ossia l’insieme di regole e trattati che vincolano il bilancio dei vari stati sotto la supervisione della Commissione europea (con il valido supporto di Bce e Fmi). Stiamo parlando della “regola fondamentale” dell’Unione, quella che decide della vita e della morte di uno o più paesi.

Naturalmente questo non significa affatto che si stia “riformando” l’Unione Europea, né – come ha subito twittato Renzi – che si sia affermata la visione italiana che pretende maggiore flessibilità sui conti.

AD aprire il cantiere è stato infatti il cerbero dell’Eurogruppo, Dijsselbloem, che in questo semestre ricopre anche la carica di presidente dell’Ecofin: bisogna infatti migliorare «la prevedibilità e l’efficacia» di un trattato ritenuto ormai «complesso».

Come si vede non c’è alcuna valutazione di merito, ma solo di “applicabilità”. Un trattato troppo “complesso” è infatti abbastanza aggirabile, appellando a questo o quel codicillo per aggirare le norme più stringenti o sgradite, per trovare insomma quei margini di “flessibilità” che sono diventati una specialità italiana negli ultimi anni.

C’è anche un problema di “comunicazione”, evidenziato da Pier Carlo Padoan in numerose interviste: un trattato troppo complicato è difficile da spiegare alla popolazione nazionale, quindi mette i governi nella scomoda posizione degli sceriffi di Nottingham conto terzi, capaci di mettere le mani in tasca ai cittadini per scopi imperscrutabili ma indiscutibili. Nel montante euroscetticismo che attraversa il continente – e con la spada di Damocle della Brexit, che ha costretto addirittura Obama a un viaggio in più per scongiurarla – ci sarebbe insomma la necessità di avere regole più chiare, più comunicabili, su cui provare a raccogliere il consenso popolare con maggiore facilità.

Quando si parla di “semplificazione”, però, è bene prepararsi al peggio. È infatti fin troppo prevedibile che, dal punto di vista dei poteri centrali dell’Unione Europea, si tratterà di impedire le scappatoie; mentre da quello dei Piigs di aumentarle. E non si può dire che finora i paesi più deboli abbiamo ottenuto regole favorevoli, nei vari trattati.

La partita sarà aspra, ma parte già ora con un segno preciso. Il primo problema riguarda l’individuazione del parametro da considerare centrale – tra i tanti – per indirizzare le varie leggi di stabilità nazionali. Fin qui è stato adottato quello relativo al deficit strutturale, effettivamente molto “volatile”, dipendendo spesso da variabili che si gonfiano o riducono per fattori imprevedibili. Ma è Dijsselbloem ad aver dato l’idea per il nuovo baricentro: «Vogliamo ridurre il numero di indicatori e focalizzarci su quello più semplice, per esempio l’evoluzione della spesa pubblica».

Semplicissimo, in effetti. Se il debito pubblico deve – come obiettivo – diminuire, allora la dinamica della spesa dovrà seguire una “evoluzione” coerente, riducendosi a sua volta nella misura ritenuta “necessaria”. Un laccio più stretto, insomma, e con poche variabili per allentarlo.

Anche la seconda indicazione segue la stessa logica: la prospettiva temporale entro cui valutare i conti pubblici nazionali. Si vuol passare da una analisi fondata sui dati a breve termine ad una orientata al medio periodo. Il che spazza via, metodologicamente, la possibilità di appellarsi a “circostanze eccezionali” (per definizione di brevissimo periodo) e istituire controlli più cogenti, al netto delle “stagionalità”.

Cosa dobbiamo ricavarne? La richiesta, non solo italiana, è quella di sempre: per ridurre i rischi dei singoli membri dell’Unione bisogna esser disposti a condividerli. La posizione boero-tedesca è diametralmente opposta: prima si riducono i rischi fino a un livello da renderli quasi uguali per tutti, poi si potrà pensare a come condividerli. Ed è chiarissimo che in una situazione di perdurate crisi economica, la “riduzione dei rischi” derivanti dal debito pubblico implica misure di austerità feroci che aggravano la crisi stessa, per i paesi più deboli, e trasferiscono risorse verso quelli più forti.

Questo scontro prenderà dunque le forme istituzionali della “riforma del patto di stabilità”. Ma ricordatevi sempre che, nella definizione dei trattati, contano i rapporti di forza, non la “battute brillanti” sparate via Twitter.

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