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28/04/2016

Trump e Hillary vedono la nomination

di Michele Paris

Sull’onda dei risultati delle primarie di New York della settimana scorsa, gli stati del nord-est americano che si sono recati alle urne martedì hanno consegnato vittorie piuttosto nette sia a Donald Trump che a Hillary Clinton, consolidando le rispettive posizioni nella corsa a una nomination ormai a portata di mano di entrambi.

Viste anche le modalità di assegnazione dei delegati in palio previste dal Partito Repubblicano, in prevalenza con il metodo maggioritario, l’affermazione in cinque stati su cinque ha permesso a Trump di fare un passo quasi decisivo verso l’obiettivo finale. Trump ha superato la soglia del 50% dei consensi in Connecticut (58%), Delaware (61%), Maryland (54%), Pennsylvania (57%) e Rhode Island (64%), mentre nella prima fase delle primarie aveva quasi sempre vinto solo con la maggioranza relativa dei voti.

Un dato, quest’ultimo, particolarmente significativo e legato in parte a condizioni elettorali e demografiche a lui più favorevoli nel nord-est degli Stati Uniti, ma dovuto probabilmente anche ai riflessi delle recenti polemiche con i vertici del partito e degli attacchi che gli sono stati rivolti nel tentativo di ostacolare la sua corsa alla nomination. Una dinamica solo apparentemente insolita e che conferma invece il forte sentimento anti-sistema che anima anche gli elettori Repubblicani.

Del tutto deludente è stata ancora una volta la prestazione dell’unico vero sfidante di Trump rimasto in gara, il senatore del Texas di estrema destra, Ted Cruz, in grado di superare il 20% solo in Pennsylvania. A parte questo stato, Cruz è finito alle spalle anche del governatore dell’Ohio, John Kasich, in tutte le competizioni di martedì.

Il saldo di Trump dopo il più recente appuntamento elettorale è ormai di oltre 950 delegati. Per assicurarsi automaticamente la nomination Repubblicana ne sono necessari 1.237 e, secondo gli osservatori americani, a Trump sarebbe sufficiente ottenere successi anche modesti in due stati a questo punto decisivi: Indiana e California.

Una manciata di altri stati che ancora mancano all’appello in queste primarie sembrano già orientati piuttosto nettamente a favore di Trump o di Cruz, mentre Indiana e California – al voto rispettivamente martedì prossimo e il 7 giugno – risultano a tutt’oggi in bilico, anche se i sondaggi più recenti assegnano un leggero margine a Trump.

L’unica ambizione di Cruz, e ancor più di Kasich, resta in ogni caso quella di impedire al miliardario newyorchese di raggiungere la maggioranza assoluta dei delegati alla chiusura del calendario delle primarie. In questo caso, nella convention Repubblicana di Cleveland a luglio i delegati avranno facoltà di scegliere il candidato preferito alla Casa Bianca senza essere vincolati ai risultati del voto nei vari stati.

In Indiana, Cruz si giocherà così il tutto per tutto e, per impedire la vittoria di Trump, nei giorni scorsi aveva annunciato il raggiungimento di un accordo con Kasich. I termini di questa intesa già traballante prevedono che quest’ultimo rinunci a correre in Indiana, in modo da favorire Cruz, il quale, a sua volta, sospenderebbe di fatto la campagna elettorale in Oregon e New Mexico in modo da spingere i suoi sostenitori a votare per Kasich.

Il cammino di Trump continua ad ogni modo a disorientare sia l’establishment Repubblicano sia i media ufficiali. Nelle ultime settimane, l’imprenditore e showman è passato da probabile vittima delle macchinazioni del partito a super-favorito inarrestabile, come lo era stato già a inizio anno, da “outsider” con propensione alle gaffes a candidato sulla via del politicamente corretto dopo un rimpasto del suo staff.

Al di là di tutto, Trump rimane un candidato difficilmente inquadrabile per la politica di Washington, vista la ovvia mancanza di esperienza in questo ambito. A una prima analisi, è chiarissimo il suo tentativo di capitalizzare le frustrazioni dell’elettorato di destra – quasi sempre decisivo nelle primarie Repubblicane – con una retorica populista e in odore di fascismo.

Soprattutto il relativo successo tra la “working-class” bianca si spiega però in maniera differente, a meno di non volere etichettare quest’ultima come un blocco demografico e sociale con tendenze prevalentemente razziste e fasciste.

Assieme alle sparate contro gli immigrati, Trump ha saputo comunicare un messaggio che ha fatto presa su una parte considerevole, ancorché disorientata, delle classi più colpite dal degrado economico e sociale che affligge gli Stati Uniti, grazie principalmente alla completa trasformazione del Partito Repubblicano nella casa dei ricchi e potenti e al drastico spostamento a destra di quello Democratico.

Come ha commentato mercoledì il Washington Post, Trump “ha dato voce alle frustrazioni che sono state in incubazione per anni tra molti elettori, promettendo di trasformare Washington e agire in maniera ferma per smantellare i trattati di libero scambio e rilanciare le città industriali che hanno visto sparire posti di lavoro ben pagati”. Che, poi, queste aspettative siano destinate a essere deluse su tutti i fronti appare evidente, ma nella dinamica delle primarie di questi mesi hanno indubbiamente giocato un ruolo fondamentale nell’affermazione di Trump.

Sul fronte Democratico, la sfida era apparsa già segnata dopo il successo di Hillary Clinton a New York settimana scorsa. Con tutti i giornali “liberal” impegnati a proclamare la sostanziale fine della corsa alla nomination, molti potenziali sostenitori di Bernie Sanders hanno probabilmente deciso di disertare le urne. Ciò sembra essere almeno in parte confermato dal sensibile calo della percentuale degli elettori più giovani che hanno votato martedì rispetto a quasi tutte le primarie precedenti.

Sanders ha comunque vinto in maniera netta in Rhode Island, non a caso l’unico stato tra i cinque chiamati a esprimersi questa settimana che prevedeva primarie aperte, cioè non limitate ai soli elettori registrati come Democratici. Il senatore del Vermont ha fatto segnare fin qui numeri migliori rispetto all’ex segretario di Stato tra gli “indipendenti”, una fetta di elettorato solitamente considerata cruciale nelle elezioni presidenziali vere e proprie.

La strada di Sanders verso la nomination è dunque ormai di fatto chiusa, visto che dovrebbe conquistare circa il 70% dei delegati ancora in palio per superare Hillary, cosa impossibile se non altro per il fatto che nelle primarie Democratiche vige il sistema proporzionale. Un numero consistente di delegati sarà comunque in gioco soprattutto il 7 giugno prossimo, quando voteranno sei stati, tra cui California e New Jersey, ma la matematica e soprattutto la campagna a favore di Hillary dell’apparato del partito e della stampa avranno probabilmente già decretato la fine sostanziale della competizione con Sanders.

Dopo il voto di martedì, Hillary si è dedicata in gran parte al prossimo sfidante Repubblicano per la Casa Bianca, ignorando Sanders sia pure senza giungere a chiederne il ritiro dalle primarie. Il faccia a faccia che sembra ormai profilarsi con Trump farà dell’elezione di novembre la prima negli Stati Uniti tra due candidati visti con sfavore dalla maggioranza degli americani.

Per quanto riguarda la Clinton, la macchina del Partito Democratico si è già attivata non solo per convincere Sanders ad abbassare i toni e a sostenere senza riserve la beneficiaria della nomination, ma anche per ripulire l’immagine di una candidata ampiamente screditata agli occhi di decine di milioni di elettori.

Le manovre in questo senso stanno procedendo in due direzioni. Da un lato sono chiari gli sforzi di minimizzare gli strettissimi legami della famiglia Clinton con Wall Street e i poteri forti americani, da cui dipende interamente la fortuna politica e la ricchezza dell’ex presidente e della candidata alla presidenza. Dall’altro, visto il successo di Sanders e il desiderio di buona parte dell’elettorato di politiche veramente progressiste, c’è invece il ricorso a una retorica “liberal” da parte di Hillary, sia sui temi domestici sia, almeno a giudicare dalle ultimissime uscite, su quelli relativi alla politica estera.

L’uscita di scena di Bernie Sanders sembra quindi sempre più vicina. Il candidato auto-definitosi “democratico-socialista” ha per ora promesso di rimanere in corsa fino al termine del calendario delle primarie, anche se martedì ha lasciato intendere che le speranze di conquistare la nomination sono ormai svanite. In un comizio in West Virginia davanti a migliaia di sostenitori, Sanders si è impegnato a presentarsi alla convention Democratica della prossima estate “con il maggior numero possibile di delegati” e soltanto “per battersi per una piattaforma progressista” del Partito Democratico.

Con la fine delle ambizioni di nomination, insomma, Sanders e il suo team mostrano di essere pronti a tornare a svolgere il ruolo che i vertici del partito auspicavano oltre un anno fa, cioè quello di intercettare e dare sfogo alle frustrazioni degli elettori potenzialmente di sinistra, per poi convogliarle in maniera inoffensiva verso il candidato alla Casa Bianca preferito dall’establishment Democratico.

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