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27/04/2016

Studiare costa, quindi ti vogliono ignorante e indebitato

Ci sono notizie che spiegano molto di più di un saggio o di una ricerca. Quella apparsa oggi su IlSole24Ore – Milletrecento miliardi: negli Usa esplode la bomba del debito degli studenti (raddoppiato in otto anni) – è una di queste.

Da sola spiega perché il “socialista” Bernie Sanders sia diventato la calamita del malcontento giovanile, tanto da costringere la cinica Hillary Clinton a cercare un vicepresidente “di sinistra”.

Spiega la dinamica lineare e distruttiva di un debito che non può, in quote rilevanti, essere ripagato e che inchioda milioni di giovani laureati senza occupazione a una condizione di miseria programmata. Una vera e propria partenza ad handicap nella corsa della vita, per i ragazzi della middle class (gli americani poveri non riescono neppure a concludere gli studi “medi”).

Spiega cosa significa privatizzare la conoscenza e la formazione, sottraendola al pubblico (nel doppio senso sia statale e di interesse pubblico) e facendone una merce qualsiasi. Col doppio risultato negativo di “secretare” la conoscenza potenzialmente più innovativa (facendone un segreto aziendale delle multinazionali, del Pentagno o delle varie “agenzie” federali) e di escludere quote sempre più ampie di popolazione dall’accesso all’istruzione superiore. Basti ricordare che tra il 1986 e il 2012, l’inflazione è stata del 115%, mentre il costo di una istruzione universitaria è cresciuto quasi del 500%.

Spiega come tutti i paesi che si siano incamminati su questa strada – e basta guardare alla scuola e università italiane per rendersene conto – siano attesi da risultati simili. Se non in termini finanziari (in Italia la follia del “mutuo” per gli studenti non ha mai peso piede), sicuramente in termini di conoscenza e capacità critiche di massa. Un esempio per tutti:

 
Ma spiega anche come questa soluzione inventata dai “creativi” del capitalismo finanziario sia tutt’altro che una soluzione efficace, per il capitale stesso. 1.300 miliardi di dollari non sono poi una cifra mostruosa, nella piramide di debiti e prodotti finanziari correlati che grava sul mondo e le generazioni future (altro che il debito pubblico!), pur rappresentando la metà del debito pubblico e i due terzi del Pil italiano. Ma sono comunque una “bolla” destinata ad esplodere se non altro per la sua “linearità” (aumenta di 10 miliardi ogni anno), esattamente inversa alla facilità di trovare un lavoro ben retribuito per un giovane laureato statunitense.

Invitiamo infine a riflettere sulla proporzione già indicata tra debito pubblico italiano e debito studentesco americano. Il primo si è accumulato, di fatto, nel corso di sette decenni e riguarda una popolazione nel frattempo cresciuta da 30 a 60 milioni di persone. Il secondo è il frutto di una decisione politica presa nemmeno 30 anni fa e riguarda pochi milioni di studenti (e le loro famiglie, ovviamente). In altri termini, la crescita distorta di una potenza industriale – considerata con qualche difficoltà ancora tra le prime dieci del mondo – ha accumulato proporzionalmente assai meno debito di un singolo programma “privatizzato” riservato a quella ridotta quota di giovani che intende accedere all’università pur in presenza di rette proibitive.

Un classico esempio di cosa sia la “razionalità” del capitale quando si può esprimere, come richiesto dagli opinionisti mainstream, in piena libertà.

Anche per questo, dunque, appare importante il convegno di sabato a Bologna.
 
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Milletrecento miliardi: negli Usa esplode la bomba del debito degli studenti (raddoppiato in otto anni)
 
Enrico Marro

Incredibile ma vero, esiste qualcosa al mondo in grado di relativizzare il problema del debito pubblico italiano (e non è quello giapponese). Arriva dai potenti Stati Uniti ed è enorme, sinistro e apparentemente incontrollabile: è il debito contratto dagli studenti che vogliono frequentare le costose – a volte costosissime – università americane.

La notizia del superamento dei mille miliardi di dollari fece scalpore: era il 25 aprile 2012, e tutti gridarono allo scandalo chiedendo urgenti provvedimenti. Quattro anni dopo gli Stati Uniti si ritrovano con gli student debts aumentati di oltre il 13% a quota 1320 miliardi di dollari: quattro volte il Pil della Danimarca, due volte e mezzo il deficit pubblico statunitense, 21 volte il patrimonio netto di Warren Buffett.

«Queste sono cifre enormi – spiega Maggie Thompson, executive director di Generation Progress, braccio “giovanile” di uno dei più importanti think thank americani – è necessario affrontare al più presto il problema, che non è un freno solo per le giovani generazioni ma per l’intera economia».

Gli studenti americani, infatti, si ritrovano appena usciti dall’università con un fardello medio di 35mila dollari da pagare, per lo più attraverso i famosi “prestiti Stafford” dal nome del programma federale che offre tassi di interesse e condizioni di rimborso favorevoli. Il vero problema – e lì non c’è piano di rimborso che tenga – è quando il neolaureato non trova lavoro: accade, secondo le statistiche, al 7,8% degli ex studenti, ai quali andrebbe aggiunto il quasi 17% degli “indefiniti” (quelli che lavorano meno ore di quante vorrebbero, che non lavorano ma sono in cerca di un’occupazione o che hanno abbandonato del tutto la ricerca di un impiego).

Per alcuni di loro c’è lo spettro del default, l’impossibilità di ripagare i prestiti, che colpisce per esempio quasi il 20% degli “studenti mutuatari” dell’Università statale del New Mexico e il 15% di quelli della Ohio University. Non stupisce veder spuntare alcune proteste, come la marcia di studenti dello scorso novembre a New York, condita da striscioni che recitavano “L’istruzione è un diritto” e “Cancellate il debito studentesco”.

Ma quello che preoccupa non è solo lo stock accumulato: il vero problema è che la crescita del debito studentesco è apparentemente incontrollabile – il ritmo è di circa 100 miliardi l’anno – almeno finché qualcuno non deciderà seriamente di metterci mano . E’ incredibile pensare che solo otto anni fa lo student debt fosse la metà di quello attuale. E se si traccia un grafico per visualizzarlo, si vede plasticamente una retta dritta come una spada che dall’angolino in basso a sinistra vola verso quello in alto a destra. Insomma una brutta bestia feroce, al confronto della quale la gestione del debito pubblico italiano – che pure sappiamo non essere un gioco da ragazzi – pare mansueta come un agnellino.

L’amministrazione Obama sta cercando di correre ai ripari, cercando di rendere meno pesante per gli studenti il fardello del “mutuo universitario” con piani di ammortamento più gestibili. Del resto, il presidente americano è alle prese col problema anche sul piano personale: come mostrano le sue dichiarazioni dei redditi, da bravo padre di famiglia Obama nel 2014 ha accantonato una cifra considerevole (tra 200mila e 400mila dollari) in quattro dei 529 “piani di risparmio” per pagare le spese dell’università alle figlie Malia e Sasha.

Anche i due candidati democratici (la Clinton e Sanders) hanno promesso di occuparsi del debito studentesco, e persino quelli repubblicani hanno sfiorato il tema durante la campagna. Ma la realtà è che una soluzione reale al problema appare lontana, anche perché le rette sono in aumento anche nelle meno costose università pubbliche: dopo la recessione, la spending review dei singoli Stati americani si è infatti tradotta in cospicui tagli all’istruzione. Ormai in molti definiscono quella del debito studentesco una vera e propria bolla finanziaria, e solo il futuro ci potrà dire quali record sarà in grado di infrangere prima di esplodere.

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