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21/04/2016

Siria - Yarmouk in mano all'Isis ma i due fronti della guerra civile guardano altrove

di Chiara Cruciati

A Ginevra collassa il negoziato, in Siria la guerra morde come prima della tregua. Simbolo del fallimento del dialogo è il campo profughi palestinese di Yarmouk che ad un anno dall’ingresso dell’Isis torna ad essere teatro di scontro tra gruppi islamisti rivali.

Questa mattina Anwar Abdel-Hadi, capo dell’Olp in Siria, ha fatto sapere che gli scontri tra Stato Islamico e Fronte al-Nusra nel campo a sud di Damasco sono tuttora in corso e calcolato che ora il 70% di Yarmouk  è sotto il controllo islamista. Una situazione molto simile a quella di un anno fa quando gli uomini di al-Baghdadi entrarono e occuparono buona parte del campo prima di venir ricacciati indietro dai gruppi armati palestinesi. Ma da Yarmouk non se ne sono mai andati e ora tornano ad avanzare.

La situazione è drammatica: decapitazioni, torture e stupri, questo starebbe avvenendo a Yarmouk secondo Abdel-Hadi. Le famiglie ancora presenti (in pochi anni il campo si è svuotato, solo 16mila i residenti sui 180mila originari) sono bloccate nelle case dagli scontri a fuoco. Cinque persone, tra cui due bambini, sono state uccise nelle ultime due settimane, un bilancio a cui l’Olp aggiunge altre 20 vittime dell’Isis, residenti decapitati dai circa 3mila islamisti presenti a Yarmouk.

Mentre l’Onu stamattina riusciva ad avviare l’evacuazione di 500 persone da quattro città siriane, Zabadani, Fuaa, Kefraya e Madaya, diventata tristemente famosa – come prima Yarmouk – per le decine di morti causati dalla fame, a Ginevra le Nazioni Unite erano costrette ad assistere al collasso di un dialogo che mai ha avuto basi comuni. L’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc), federazione delle opposizioni creata dall’Arabia Saudita a dicembre, venerdì ha sospeso la propria partecipazione ufficiale al tavolo, accusata dal governo di “assurdo teatrino” e “immaturità”. La decisione era maturata a seguito degli scarsi progressi sul terreno o meglio degli arretramenti: una serie di attacchi da entrambe le parti ha ucciso 22 civili a Aleppo, poco più tardi 44 siriani perdevano la vita nella provincia di Idlib per missili del governo secondo quanto riportato dall’Osservatorio Siriano, organizzazione anti-Assad basata a Londra.

Ma alla base dell’ennesimo fallimento c’è la distanza insanabile tra le posizioni delle due parti che non accettano compromessi di sorta per giungere alla formazione di un governo di unità e transizione. Damasco non intende sacrificare il presidente Assad, le opposizioni – su indicazione dei loro creatori, Arabia Saudita e Turchia – non vogliono sentir parlare di un esecutivo congiunto, neppure fino alle elezioni presidenziali che lasceranno ai siriani l’ultima scelta. Il capo della delegazione governativa e ambasciatore siriano all’Onu Jaafari ha ribadito la volontà di creare un governo “con membri dell’attuale esecutivo, rappresentanti delle opposizioni, tecnici e figure indipendenti”. Il fronte anti-Assad rifiuta l’offerta. Ed è stallo.

E se in Svizzera è tutto bloccato, in Siria gli equilibri vengono definiti dalle armi. Secondo il Wall Street Journal, che cita fonti statunitensi, la Russia ha mosso alcune unità di artiglieria a nord e l’Iran ha inviato centinaia di truppe nei pressi di Aleppo. Intanto emergono i piani B del fronte internazionale anti-Assad: nuove armi, stavolta più efficaci, ai gruppi di opposizione saranno inviati da Usa e Golfo nel caso il negoziato si chiuda senza risultati e la fragile tregua in corso venga definitivamente accotonata.

A monte sta l’assenza di volontà nel porre fine al conflitto da parte di entrambi gli schieramenti che vedono nella guerra civile siriana lo strumento per ridefinire a proprio favore gli equilibri di potere in Medio Oriente. In Siria, cuore politico e culturale del mondo arabo, ci si gioca il futuro degli assetti internazionali in un periodo di crisi per il Golfo e la Turchia – sostenitori delle opposizioni – e il reingresso trionfale dell’Iran nella comunità internazionale. Sopra, a muovere le fila, sono le due super potenze, la Russia e gli Stati Uniti che in Siria stanno combattendo una guerra fredda diplomatica camuffata da lotta allo Stato Islamico. 

Eppure proprio l’Isis (che dovrebbe rappresentare il nemico comune intorno al quale unire le forze per salvaguardare il paese) è lasciato in un angolo. E nonostante le sconfitte subite in Rojava e a Palmira e nelle città irachene di Tikrit, Ramadi e Sinjar, non arretra perché il suo messaggio di propaganda non è stato scalfito.

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