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26/04/2016

Napoli, the dark side of the moon

All’indomani degli ennesimi morti di camorra.

Nella serata di venerdì 22 aprile a Napoli – nel cuore del quartiere Sanità a poco meno di un chilometro dal centro antico cittadino zeppo di turisti e visitatori – un nuovo raid di morte ha lasciato sul terreno due corpi senza vita ed oltre 10 feriti.

Si dirà – a Napoli e nel resto del paese – che queste morti per le strade, praticamente in tutti i quartieri della città, non sono una novità ma una sommessa e ordinarietà che, non da poco tempo ma da lunghissimi anni, segna la vita della metropoli partenopea.

Pletore di sociologi, di criminologi, cordate di aspiranti Roberto Saviano in sedicesimo, giornaliste prefiche e spocchiose ed ogni altra genia di cosiddetti esperti – puntualmente ad ogni episodio criminoso che si produce – si accapigliano attorno alle proprie tesi interpretative di questa fenomenologia e si lanciano in azzardate, e spesso bizzarre, ricette presuntamente risolutive.

Dal governo, poi, arriva – scandita con gli abituali tempi mediatici e dell’interessata polemica politica verso l’amministrazione cittadina – sempre la stessa soluzione: la presenza dell’esercito nelle piazze, negli snodi stradali più importanti e il pattugliamento con i blindati Lince dei “quartieri a rischio”.

Naturalmente il risultato di questo oneroso impegno dell’esercito in funzione di ordine pubblico è pari allo zero. Una media ridicola che è sempre la stessa dal 1993 ossia da quando (in Campania ed in Sicilia) fu utilizzato per la prima volta l’esercito per le strade con simili funzioni. Una pratica, presentata come eccezionale, divenuta, con il trascorre del tempo, un dato ordinario ed immanente.

Il lato oscuro della città

L’ossessiva metrica dei morti ammazzati per le strade di Napoli e della sua area metropolitana e l’intero corollario di chiacchiere su nuove aggregazioni camorristiche, paranze criminali e funamboliche baby gang rappresentano – al di là della ipocrita esecrazione dei media sempre alla ricerca di scoop e di sensazionalismi – l’iceberg di una complessa situazione sociale che perniciosamente alligna e si riproduce costantemente in un ampio spettro della società napoletana.

I morti e l’intera gamma di violenza e vessazioni che si consumano quotidianamente non cadono dal cielo, non sono manifestazioni eccezionali in un quadro sociale stabile, non sono improvvisi squarci di terrore in un universo sereno ed armonioso.

Questa narrazione da operetta è bene lasciarla a coloro i quali analizzano le cronache o sulla scorta dei freddi mattinali questurini o con la perversa logica dello sguardo, attraverso il buco della serratura, su ampie zone della metropoli conosciute, magari, solo attraverso la notorietà delle serie televisive sulle varie Gomorre post/moderne ed americanizzate.

La realtà, quella vera, quella impastata con il dolore, il sangue ed il pesante male di vivere in un territorio dove tutto è negato – purtroppo – ci dice altro.

Analizzando i vari dati statistici a disposizione a proposito di alcuni fondamentali indicatori ed osservando la cartografia produttiva ed economica della città e della sua conurbazione territoriale si può – senza timore di essere smentiti – affermare che esiste un ampio 50% della popolazione cittadina che vive/sopravvive in una condizione di atomizzazione e di disgregazione al di fuori di qualsivoglia anelito associativo (politico, sociale, religioso, sportivo, culturale).

Le cifre sulla partecipazione alle elezioni, i dati sulla disoccupazione ed il lavoro nero, gli indici di povertà assoluta e relativa, l’espansione dell’economia e dei circuiti criminali, la diffusione degli stupefacenti, l’enorme evasione scolastica e tanti altri segnali ci mostrano ampie zone del territorio e, quindi, centinaia di migliaia di persone che vivono costantemente escluse da ogni ipotesi di “cittadinanza”.

E’ evidente, dunque, che quando la dimensione sociale della crisi e della frantumazione umana ed economica raggiunge simili proporzioni lo sviluppo del degrado, della violenza gratuita, della disumanizzazione della vita e delle relazioni societarie ha facile gioco conoscendo una generalizzazione, anche in settori sociali che fino ad un po’ di tempo fa erano impermeabili a simili fenomeni, senza precedenti.

Certo in molti quartieri sono attivi centri sociali ed associazioni indipendenti che si cimentano su molti problemi; la Chiesa, e più specificatamente l’attivismo di alcuni parroci di frontiera, sollecita la formazione di esperienze di solidarietà e di resistenza interessanti e partecipate.

Sul versante istituzionale possiamo dare atto che l’amministrazione di Luigi De Magistris, in un contesto di tagli alle spese sociali ad opera dell’azione degli esecutivi nazionali, ha concretizzato alcune scelte in direzione di una nuova politica e di una possibile rivitalizzazione di alcune aree della città definite “a rischio”.

Ma l’insieme di queste, per molti tratti generose, imprese collettive non riesce a tamponare la terribile vigenza di una emergenza criminale strutturale che insanguina la città.

Anzi, occorre prendere atto che non si intravedono, al momento, strategie politiche e pratiche in grado di delineare una efficace controtendenza che non si affidi, unicamente, all’azione di polizia e magistratura ma anche all’enuclearsi di veri e propri anticorpi sociali tra i giovani, tra i lavoratori, i settori popolari e nell’insieme della società cittadina.

Del resto le scarse reazioni a questi continui episodi criminali e criminogeni che, comunque, apprezziamo, valorizziamo e, per ciò che è possibile fare, sosteniamo spesso rifluiscono – in mancanza di una prospettiva chiara e duratura in grado di prospettare un orizzonte di mutamento e di trasformazione – in micro ghetti, in terreno di caccia per il cosiddetto privato/sociale che, di fatto, sostituisce l’indispensabile azione delle politiche istituzionali (istruzione, reddito, assistenza alla persone, diritto alla salute).

Riaccendere la luce sul lato oscuro di Napoli, sui suoi soggetti in carne ed ossa, sui tanti senza volto che animano le periferie deve essere l’obiettivo di una politica che allude – per davvero – al cambiamento, alla trasformazione ed, in definitiva, alla emancipazione dei soggetti sociali.

Una politica fatta di atti e provvedimenti che non può demagogicamente prefigurarsi solo o all’indomani delle stragi o, come in questo periodo, nelle chiacchiere in libertà della campagna elettorale.

Questo impegno non è un compito facile, non è un atto politico che si può fare con un semplice decreto normativo, non è una pratica che può improvvisarsi, considerato anche la vischiosità culturale e politica di alcune questioni.

Tali controindicazioni, per chi professa la centralità del conflitto e dei movimenti di lotta, non è una dichiarazione di facciata o formale.

Questa linea di condotta è – sicuramente – un impegno di lunga lena che deve, sapientemente, coniugare e connettere azione sociale, inchiesta sul campo, sperimentazioni organizzative e, soprattutto, uno stile di intervento non spocchioso ed elitario.

Questa difficile materia sociale, da conoscere, trattare e, se ci riusciamo, riconfigurare è il terreno vero su cui immaginare una stagione – forse anche con profili e modalità inedite – di insediamento profondo nelle pieghe della metropoli per disvelare e sconfiggere, finalmente, una produzione di morte e di lutti insopportabile ed inaccettabile a cui non intendiamo rassegnarci.

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