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29/04/2016

La gestione del petrolio determinerà il futuro della Libia

di Francesca La Bella

Ormai da molti anni, ogni qualvolta si scrive di Libia, sembra che la condizione di frammentazione e di disequilibrio del Paese sia giunta ad un punto di frattura tale da non permettere di immaginare una soluzione positiva né nel breve né nel lungo periodo. L’avvicendamento di Governi e milizie incapaci di mantenere un efficace controllo territoriale, la continua ed, apparentemente, inarrestabile avanzata dello Stato Islamico (IS) e il progressivo decadimento delle strutture economiche hanno fatto pensare, più volte, che si fosse giunti ad un punto di non ritorno e che un nuovo intervento internazionale fosse ormai alle porte.

In questi giorni un simile copione si è riproposto. Lunedì il presidente in carica, Fayez al Sarraj, avrebbe chiesto alla comunità internazionale di intervenire a supporto del Governo libico per difendere le risorse petrolifere del Paese dall’azione dello Stato Islamico. Dopo lunghi mesi di attesa in cui la possibilità di intervento veniva vincolata ad una preventiva richiesta di un Governo legittimo, la richiesta di aiuto del Governo di Accordo Nazionale (GNA) aprirebbe le porte alle potenze internazionali. La realtà è, però, meno lineare di quanto possa apparire. Da un lato, il GNA, creato a tavolino a Tunisi con il supporto delle Nazioni Unite ed insediatosi ormai da alcune settimane a Tripoli, mantiene una legittimità limitata in tutto il Paese e, in particolare, nelle aree amministrate dall’IS e nell’area di Tobruk dove le forze del Generale Khalifa Haftar conservano un discreto controllo territoriale. Dall’altra, gli attori internazionali che dovrebbero guidare l’intervento di supporto sembrano porsi, nuovamente, in una posizione attendista rispetto agli eventi.

Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, dopo le indiscrezioni del Corriere della Sera secondo le quali Roma avrebbe previsto l’invio di un contingente tra i 600 e i 900 uomini a sostegno dell’azione del GNA a difesa dei terminal petroliferi, fonti della Difesa e del Governo hanno immediatamente ridimensionato l’entità dell’intervento subordinandolo all’esistenza di un’azione internazionale coordinata e rivendendone i numeri al ribasso. Allo stesso modo il G5 (Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia), riunito ad Hannover proprio mentre la richiesta di Sarraj veniva resa pubblica, pur affermando la vicinanza al GNA e la legittimità della richiesta, non sarebbe giunto a delineare una chiara strategia di intervento o delle definitive tempistiche di azione.

In questa fase, come in passato, le scelte degli attori internazionali sembrano guidate da forze opposte che determinano un atteggiamento ambivalente ed ambiguo rispetto alla questione. Se da un lato, in una logica strettamente neo-coloniale la comunità internazionale sembra voler proteggere i propri investimenti nel Paese, in primo luogo in ambito petrolifero, ed impedire che la crisi libica tracimi al di fuori dei confini andando a incidere sulla sicurezza e la stabilità europea, dall’altro il ricordo del fallimento dell’intervento contro Gheddafi induce alla cautela. Il timore che un nuovo coinvolgimento bellico in terra libica possa minare i rapporti commerciali e portare ad una recrudescenza degli scontri, ha indotto i Governi europei, l’ONU e gli Stati Uniti ad attuare una politica di soft power che, attraverso l’investitura di un nuovo Governo ed un supporto militare di medio profilo alle forze locali, ambirebbe a mutare la situazione locale senza la necessità di un’ufficiale azione bellica.

Un’ulteriore problematica che incide sulle scelte internazionali è sicuramente il ruolo ricoperto dal Governo di Tobruk e da Haftar nelle dinamiche libiche in generale e negli eventi di questi ultimi giorni in particolare. Negli scorsi mesi, molto si è discusso sulla possibilità di spartizione della Libia lungo linee di demarcazione regionali con la supervisione degli Stati Uniti: Tripolitania affidata alla gestione italiana, Fezzan sotto protettorato francese e Cirenaica controllata dalla Gran Bretagna. Sotto il controllo di Tobruk ricadrebbe, però, un’area approssimativamente sovrapponibile alla Cirenaica e, anche grazie al sostegno dell’Egitto di Al-Sisi, il Generale Haftar sarebbe riuscito, nonostante l’estromissione dal GNA, a mantenere un effettivo controllo di buona parte delle forze armate e a respingere l’avanzata dell’IS nelle aree limitrofe. L’ostilità degli attori locali, ma anche solo la mancanza di relazioni con questa controparte, potrebbe indebolire il progetto di “ri-costruzione” della Libia e portare ad un irrimediabile fallimento sia dell’opzione unitaria sotto la guida di Sarraj sia dell’opzione di protettorato internazionale.

A rendere ancor più evidente la distanza tra GNA e Tobruk ha contribuito la scelta di quest’ultimo, di esportare petrolio dal Paese senza l’autorizzazione del Governo centrale a prescindere dai divieti ONU espressi nella risoluzione 2278. La petroliera Distya Ameya, battente bandiera indiana, avrebbe lasciato il porto di Hariga lunedì sera con un carico di 650.000 barili di greggio in direzione di Malta. Dopo la denuncia della violazione, mercoledì sarebbe giunta la sanzione delle Nazioni Unite e il bando dal territorio libico della nave. Il Governo di Tobruk avrebbe, inoltre, promosso la creazione di una Libyan National Oil Company (NOC) orientale, concorrente e non allineata rispetto al NOC nazionale che, all’arrivo di Sarraj in territorio libico, aveva dato il proprio benestare al GNA.

La concomitanza tra la richiesta di intervento per difendere i pozzi dallo Stato Islamico e la crisi petrolifera con Tobruk, induce a pensare che i timori di Sarraj siano equamente ripartiti rispetto alle potenzialità disgregative dell’azione dei gruppi jihadisti e del Governo di Tobruk. In tal senso, risulta significativa la richiesta di Sarraj alle forze di Haftar e a quelle di Misurata di bloccare l’offensiva contro lo Stato Islamico a Sirte “fino a quando non verrà nominato un comando congiunto per l’offensiva”. Sotto questa luce, appare evidente che il reale oggetto del contendere tra le diverse forze sia sempre più il controllo delle fonti di profitto piuttosto che la legittimità politica o il futuro del Paese.

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