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28/04/2016

Il Lenin del prof. Leonardo Paggi

Su il manifesto dello scorso 24 aprile è comparso un intervento del prof. Leonardo Paggi, dal titolo “La memoria di Gramsci può andare in naftalina”, in buona parte condivisibile, soprattutto a proposito degli espedienti simbolici per tentare, attraverso la “istituzionalizzazione” di Antonio Gramsci, di legittimare un’inverosimile continuità tra l’attuale partito di governo e la tradizione politica anche soltanto degli “eredi” postumi del comunismo italiano.

Quell’intervento contiene però anche un passaggio, a dir poco non tanto chiaro. Il prof Paggi sembra voler contrapporre la visione o il metodo politico di Antonio Gramsci a quello di Vladimir Lenin. Scrive il prof. Paggi, che Lenin “risolse il problema della rottura con il passato con la scomunica ideologica, ossia dando a Kautsky la qualifica di “rinnegato”. Una scorciatoia foriera di interminabili regressioni teoriche e politiche”.

Quella qualifica, di rinnegato, sembra apparire “sbrigativa” al prof. Paggi; come è noto, essa si riferiva, nello specifico, alla posizione liberal-borghese, anticlassista, assunta da Kautsky sulla questione della democrazia e della dittatura del proletariato, dopo la rivoluzione del 1917; ma, più in generale, riguardava il suo intero regresso politico successivo al 1909, data del suo “La via al potere” in cui, in polemica con il revisionismo bernsteiniano, riconosceva ancora l’approssimarsi di una situazione rivoluzionaria in Europa.

Dunque, al di là di quell’aggettivo riferito a Kautsky, il prof. Paggi sembra dubitare, più in generale, della giustezza della scelta operata da quelle correnti dei partiti socialisti che, ad esempio, sottoscrissero il Manifesto di Basilea del 1912, circa i metodi di lotta da adottarsi in vista della guerra imperialista che sarebbe scoppiata di lì a due anni. Scelta che presupponeva un taglio netto coi capi opportunisti europei della 2° Internazionale, se si voleva davvero dar seguito ai principi di quel Manifesto, da cui scaturivano, tra l’altro, l’indicazione di “utilizzare la crisi rivoluzionaria per la propaganda rivoluzionaria sistematica e per la preparazione rivoluzionaria delle masse” (Lenin) e la formula di “trasformare la guerra imperialista in guerra civile”. Avrebbero forse dovuto i rappresentanti delle correnti rivoluzionarie interne ai partiti socialisti, che poi si sarebbero uniti nella Terza Internazionale, in nome di un’unità mortifera, rimanere attaccati a chi come Kautsky, Guesde, Plekhanov, Hyndman, pur riconoscendo a parole l’esistenza di una generale situazione rivoluzionaria in Europa, tacciava poi di avventurismo coloro che si dedicavano a organizzare le masse, affinché non arrivassero impreparate allo scontro sociale e, al contrario, chiamava alla difesa della patria e alla collaborazione tra le classi?

Se a parere del prof. Paggi, la polemica leniniana nei confronti sia dei capi socialisti che facevano appello alla “pace sociale”, sia di Kautsky e della sua teoria dell’“ultraimperialismo”, da cui discendeva una visione dei rapporti tra gli Stati e tra le classi che escludeva ogni conflitto, allora, ecco cosa scriveva Antonio Gramsci nell’agosto 1919: “Il movimento proletario italiano diventa ogni giorno più consapevole della sua missione di classe che deve instaurare il comunismo attraverso la dittatura proletaria, con la sistematica soppressione della proprietà privata e della classe borghese in tutte le sue forme di dominio: il Parlamento, i giornali, i partiti politici, le banche, l’esercito professionale, e con tutte le sue libertà di sfruttamento, di massacro, di inganno. La tattica collaborazionistica è quella di Kautsky in Prussia, di Adler in Austria, e che fu di Kurt Eisner in Baviera: è la tattica centrista dell’essere e del non essere, della maturità politica dei leaders socialisti opportunisti ad assumere il governo dello Stato”.

E, d’altronde, sempre Antonio Gramsci, non irrideva forse quei socialisti italiani che, una volta nata la nuova Internazionale Comunista e mettendosi al carro della corrente “kautskiana” europea, anch’essi in nome di un’unità letale, si ostinavano a restare incollati a un riformismo ministeriale che, quello sì, “aprì inevitabilmente la strada alla vittoria del fascismo”? E, ancora nel giugno 1920, Gramsci riproponeva chiaramente le linee tracciate da Lenin nel 1915 a proposito dello “stadio supremo del capitalismo”, ossia dell’imperialismo, scrivendo che “La struttura del capitalismo è caratterizzata nel momento attuale dal predominio del capitale finanziario sul capitale industriale, dal sovrapporsi della banca alla fabbrica, della borsa alla produzione di merce, del monopolio al capitano d’industria; è questa una struttura organica, una normalità del capitalismo e non già un ‘vizio contratto dalle abitudini di guerra’ come il compagno Tasca sostiene, d’accordo col Kautsky e contro la tesi fondamentale della Internazionale Comunista”.

In definitiva, avremmo avuto quel PCI che, durante il ventennio mussoliniano, rimase a lungo l’unica forza politica organizzata antifascista sul territorio italiano, se Antonio Gramsci non avesse rotto con quei riformisti e avesse condiviso le scelte strategiche leniniane? E, al contrario, non va forse ricercato in evidenti radici di classe il quarantennale “pidismo” del PCI che, proprio a partire da quelle impostazioni “kautskiane”, ha prima “rinnegato” ogni obiettivo comunista e poi, da una discesa sempre più precipitosa verso il ministerialismo “da bombardamento” (su Belgrado), si è ridotto a fare ciò che lo stesso prof. Paggi imputa al “compagno” Poletti? Non si addice forse all’intera compagine di cui Poletti è complice la frase – per l’appunto leniniana – per cui “Davvero non è conveniente per il signore avere un lacchè che giuri e spergiuri di fronte al popolo che il signore dedica tutta la sua vita alla cura del popolo e all’amore per esso?”

E non c’è forse oggi la necessità urgente, oltre che di un “bilancio storico” sul PCI, come auspica il prof. Paggi, di costruire un’organizzazione comunista che, fondandosi sull’esperienza leniniana, butti a mare sia quel “morto che continua a mangiare il vivo” (Paggi), sia gli eredi moderni di quella “Internazionale 2 e ½” che ebbe in Kautsky l’esponente simbolo e che oggi si incarna in quanti si ostinano ad ambire alla professione di “lacchè” del partito di governo? Oppure è proprio questo l’obiettivo cui il prof. Paggi cerca, anche lui, di costringere il pensiero di Antonio Gramsci, vale a dire di appioppargli, contrapponendolo a Lenin, una inesistente volontà di accordo con l’opportunismo che dovrebbe costituire il “retroterra storico” di un moderno compromesso o, per dirla più volgarmente, di un’ammucchiata tra tutti coloro che si autoproclamano “di sinistra”? Non pare, al contrario, che Antonio Gramsci si discostasse dal Lenin che scriveva “Noi non predichiamo l’unità all’interno degli attuali (che sono la maggioranza della II Internazionale) partiti socialisti. Al contrario, insistiamo per la rottura con l’opportunismo”.

Ci sembra che sia questo il Gramsci che nessuno, tantomeno la moderna “sinistra 2 e 1/2”, può pretendere di “mettere in naftalina”.

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