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21/02/2016

Una pura formalità. La dimensione informale del «mondo-nave»


Una versione abbreviata di questa recensione è stata pubblicata su «Il Manifesto» del 19 febbraio 2016 con il titolo Le ciurme sono in alto mare.

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Nel ventre della balena, sotto la linea di galleggiamento, dove Valentina Longo, sociologa ricercatrice, ha vissuto come hostess di crociera, il lavoro assume la sua forma più brutale, tanto che la mediazione contrattuale è una pura formalità, pensata esclusivamente per garantire all’azienda forza lavoro disponibile, just in time, senza costi aggiuntivi al nudo salario. Lei stessa racconta come inizia la sua inchiesta (Lusso low cost. Vita in crociera sopra e sotto la linea di galleggiamento, Milano, JacaBook, 2015): «scendiamo nel suo ufficio, mi porge il contratto – un prestampato standard – e mi dice “ma sì, tanto il contratto è solo una formalità”». Lo sciopero è vietato, il sindacato è assente, ferie e straordinari sono compresi nel salario mensile prestabilito, non esistono contributi pensionistici e in caso di malattia superiore a cinque giorni è prevista la sospensione del contratto e, a discrezione, anche il rimpatrio del marittimo. Durata del lavoro e periodo di imbarco sono indicativi: la compagnia ha un controllo assoluto sulla vita dei lavoratori.

Già a partire dal reclutamento, il mondo-nave si configura come un mercato del lavoro globale estremamente frammentato al suo interno, attraversato da confini nazionali, di classe e di sesso che vengono scomposti e ricomposti all’interno della nave: filippini, malgasci, italiani, brasiliani, rumeni sono tra i gruppi più numerosi. La stessa nave è materialmente il frutto di processi di produzione e di legislazione transnazionali. La «bandiera ombra» issata a poppa sottrae la nave ai confini geografici, facendone uno Stato globale: «la nave è una fabbrica che può essere dislocata».

L’organizzazione del lavoro in crociera è caratterizzata da una pluralità di figure lavorative ed è fissata da una gerarchia verticale ferrea e da una orizzontale più subdola che crea un’economia sommersa a bordo, dove i lavoratori si vendono il lavoro tra loro per sottrarsi ai ritmi estenuanti o per guadagnare di più. I livelli salariali sono molto differenziati e variano soprattutto in base alla provenienza: i confini di classe passano attraverso un processo di stereotipizzazione che riflette l’economia mondiale; classe e razza vengono destrutturati e ristrutturati nel mondo parallelo della nave da un «razzismo istituzionale» imposto dall’alto, dall’organizzazione a bordo. La presenza delle donne in crocieristica, sebbene fenomeno recente, più che sommarsi alle altre linee di divisione definisce in modo predominante la divisione sessuale del lavoro sulla nave, perché attraversa di fatto tutte le altre linee di segregazione, riproducendo catene globali della cura.

In cima alla gerarchia troviamo i lavoratori dei paesi tardo-industriali, ma per tutti, ad eccezione del capitano e degli ufficiali, vige un’assoluta incertezza sia dell’impiego sia del salario, che è in gran parte «esternalizzato», ovvero pagato dalla mance dei passeggeri. In questo modo, la compagnia offre un servizio ai passeggeri che di fatto è pagato non dai biglietti all inclusive, ma dall’esborso extra che i lavoratori si guadagnano attraverso un lavoro extra: ovvero, quello di mantenere intatta e «autentica» la finzione della crociera, offrendo ai passeggeri ciò per cui hanno più o meno consapevolmente pagato, una realtà ideale, un immaginario esotico, una «bolla ambientale» dove tutto sembra gratuito, anche la felicità. Il denaro a bordo scompare dietro la tessera magnetica, il feticismo delle merci può realizzarsi senza turbamenti di sorta. L’unica cittadinanza che conta sulla nave è quella del consumo. Il passeggero è il più delle volte qualcuno che investe un periodo di non lavoro in un’esperienza da cui vorrebbe essere risarcito da una vita stressante o da cui pretende di ottenere lo status sociale che gli viene negato sulla terra ferma. La crociera diventa così un simbolo pieno di simboli.

La nave è anche un luogo paradossale in cui la potenza tecnologica è sacralizzata al punto che il passeggero dimentica il potenziale pericolo della vita in mare. Alla frammentazione anche violenta che pervade i rapporti sociali sia tra consumatori sia tra lavoratori si oppone l’esperienza turistica come tentativo di costruzione di un’unità perduta, autentica e quindi necessariamente falsa e artefatta. Per i passeggeri-consumatori si tratta di costruire ad hoc il divertimento o il lusso come identità in cui riconoscersi. Longo delinea con precisione quei rituali borghesi che pur essendo di massa offrono il gusto dell’esclusivo, l’appartenenza a una classe media internazionale e contemporaneamente l’illusione di una ritrovata aristocrazia.

L’interessante ricerca di Longo, che ha vissuto il mondo-nave anche sopra la linea di galleggiamento, da passeggera, è una fotografia attenta dello spettacolo crocieristico e dei suoi angoli nascosti, ma è anche una narrazione a più voci, quella dei lavoratori, marittimi e alberghieri, e quella dei passeggeri. La nave è un palcoscenico che include le quinte dove si mette in scena il lavoro come rito di autenticazione, il che significa che il lavoro vivo, nella sua forma più classica di produzione fordista, deve sparire: sforzo, fatica e stress non possono mai trapelare dalle divise, dai volti, dai corpi. La divisa sostituisce i corpi, neutralizza i conflitti. Longo definisce perciò la nave un’istituzione totale, dove anche la libera espressione, la vita privata, la personalità dei lavoratori è segregata, riservata ai luoghi angusti in cui vive l’equipaggio. Con una battuta si può dire che il lato oscuro della «forza comune» – così è chiamato il grosso dell’equipaggio che lavora a contratto – è imbrigliato nella divisa e imbavagliato dai sorrisi, che fanno parte della divisa. Solo in cabina – luoghi molto piccoli in acciaio e plastica e senza finestre – i «morlock» possono abbandonarsi a qualche commento sui passeggeri o sui superiori. Della cosiddetta forza comune fa parte anche il «personale di contatto», il cui lavoro è agganciare i passeggeri sui ponti o nei corridoi e intavolare conversazioni amichevoli. Questa attività viene svolta senza divisa per dare al passeggero l’illusione che hostess e camerieri siano disponibili anche nel loro tempo libero e, contemporaneamente, lasciando intendere che il lavoro sia tutto sommato un divertimento. Camerieri, hostess, cleaner, animatrici, cabinisti formano caste diverse nella stessa «classe internazionale» e sono definiti dalla loro prestazione, dal loro grado, dall’adeguatezza corporea ed emotiva al ruolo che interpretano: per il consumatore-passeggero il lavoro delle hostess è un feticcio, quello degli animatori un’attrazione, quello dei cleaner – donne e uomini di «un terzo mondo» che sulla nave prende nuova vita – è addirittura immateriale, invisibile, disincarnato. Il personale di bordo sperimenta un’alienazione a un doppio livello: è forza-lavoro e mezzo di produzione da cui è interiormente alienato. Il suo corpo, le sue capacità relazionali, la sua recita sono il prezzo del suo salario e sono la fonte di una schiavitù che appare priva di un unico padrone. L’astrazione dei lavoratori compiuta dai passeggeri, che pagano per credere, e l’estraniamento da se stessi messo in atto per rispondere all’immagine astratta dei clienti, per produrre la loro fiducia nel sogno, produce a sua volta un corto circuito che rende difficile per il lavoratore riconoscere abuso, sfruttamento, violenza simbolica e quindi, di conseguenza, individuare un nemico, o almeno una controparte con cui battersi per migliorare le proprie condizioni sulla nave.

Questo tipo di lavoro «emotivo» produce certamente meccanismi di autodisciplinamento, di interiorizzazione della logica aziendale, ma emerge dai diari di bordo dei lavoratori raccolti dall’autrice, una sotterranea difesa, sebbene spesso individuale, della propria sfera non lavorativa: permane un conflitto, che non può essere sottovalutato, tra la finzione di un completo annullamento della vita privata e gli spazi di libertà che i lavoratori riescono a sottrarre alla vita lavorativa, nella sua totalizzante invadenza: «selezionare» i passeggeri meno impegnativi e più discreti, limitare il «lavoro emotivo» all’indispensabile, lavorare cioè, come scrive Longo, a risparmio energetico, ma anche costruirsi uno spazio proprio all’interno della nave, di sospensione, ancorché temporanea, del comando dei superiori, della socializzazione forzata.

Per le donne questa sottrazione ha un doppio significato perché comporta la gestione di un piano di rapporti simbolici, specie con i superiori, ai limiti della violenza fisica. Non si tratta tanto del nesso tra genere e sessualità, della norma somatica e della norma del genere, quanto della presenza sulla nave di un sesso che è corpo, anche oltre la divisa, e che viene costantemente messo al lavoro, naturalizzato, costretto a mettere in mostra la sua autenticità, ma che resta concreto, materiale. Indipendentemente dall’orientamento sessuale, dalla nazionalità e dalla posizione gerarchica, contegno e disponibilità sessuale delle donne al lavoro sono tanto gradite, quanto richieste. Qualsiasi ribellione a questa norma mette in questione l’intera organizzazione a bordo e ha quindi un potenziale dirompente.

Il mondo-nave è luogo di un’informalità imposta dall’alto, o scavata dal basso dai lavoratori, che si scontra con la formalità di rigide norme di disciplinamento. Il confine tra formale e informale è però labile. Nella realtà parallela della nave può essere facile dimenticare che se la vita dei lavoratori è nelle mani di un’agenzia che ha sede alle Isole Vergini, sempre pronta a sostituirli, la vita della nave e di tutti i suoi passeggeri è nelle mani di quella forza comune che si pretende di addomesticare. L’unico potere di contrattazione, l’unico modo per riappropriarsi della propria forza (comune) passa perciò, necessariamente, attraverso uno squarcio nella divisa e un riconoscimento tra chi è, letteralmente, sulla stessa barca.

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