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25/01/2016

Toni Negri nel paese che non tollerava biografie

Nel corso delle ultime settimane ho dato qualche occhiata veloce alla autobiografia di Negri (Storia di un comunista, Ponte alle Grazie, Firenze 2015). Da quello che ho visto, ho trovato in Negri qualcosa di inalterato, nello stile e nella persona che lo ha reso particolarmente caro agli amici e particolarmente inviso a chi, per ragioni molto differenti, nella lista degli amici non ce l’ha certo messo. Mi riferisco a quella capacità sottile, velocemente creativa, ma non indolore di lanciare provocazioni che rimangono nella memoria. Come accade nel libro quando si parla del famoso passaggio sul brivido del passamontagna, presente nel Dominio e il sabotaggio, criticandone la forma retorica per difendere la sostanza del ragionamento. Difendere la legittimità del sabotaggio in un libro dei primi anni del XXI secolo fa l’effetto di una cannonata sparata dall’interno di un palazzo. O come accade quando, per rispondere alla accuse di essere un intellettuale radicale quando snob, nel testo Negri evidenzia e ribadisce qualche particolare legato ad amicizie, o frequentazioni altolocate. Per capirsi, Negri è la classica persona inimitabile che ti mette in difficoltà con gli amici perché una parte delle persone che stimi proprio non la può vedere. Ma, fin qui, si tratta delle classiche cose della vita che si sia a corte, in ufficio, al bar o alla borsa di Londra.

Il punto è che da quando Negri è diventato un personaggio mediatico, già con l’esplosione della copertura del movimento da parte del mainstream subito dopo il ’68. E, come da funzionamento classico dei media, tanto più copiosa è stata la sua produzione teorica tanto più alta è stata la marea di luoghi comuni che gli è stata montata contro. E tanto più la sua figura è diventata pop, avendo tutti i requisiti per esserlo, tanto più le immancabili critiche che ha ricevuto a sinistra hanno assunto il sapore deciso della virulenza settaria. Non sono oltretutto poche le persone che pur scrivendo critiche sensate e condivisibili nei suoi confronti hanno perso smalto, e capacità di argomentazione, proprio per essersi lasciate trasportare da questo flusso di virulenza. Immancabilmente la stampa ufficiale non poteva così rimanere indifferente ad una autobiografia, che è sempre costellazione di fonti su come si è vissuto che guarda con cura a chi leggerà in futuro senza gli occhi del presente, di un personaggio sul quale si sono voluti stampare, non proprio ad arte, tutti i luoghi comuni dell’intellettuale estremista: snob, lontano dal mondo del lavoro, mandante occulto, invasato, ideologico, vigliacco e astruso.

L’Italia istituzionale di oggi poi è ancora culturalmente più misera di quella che, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 mise in carcere diverse migliaia di persone. Ma, mentre l’Italia di allora non poteva ammettere, pena la perdita di legittimità e di credibilità, che i tentativi di insorgenza, da parte di diverse formazioni politiche, furono aperti dalla strage di Piazza Fontana, quella di oggi potrebbe farlo in maniera più serena. E invece no, basta leggere la recensione di Simonetta Fiori su Repubblica. Recensione inorridita dal fatto che si racconti come la strage di Piazza Fontana, col pericolo golpista che comportava, abbia rappresentato uno spartiacque nel comportamento di tanti gruppi dell’epoca legittimando lo scontro aperto con lo stato. E la recensione della Fiori rappresenta così la grande difficoltà di questo paese, ancora permeato dall’ossessione controriformata per il pentimento, di entrare nei fatti senza sguainare la bolla della condanna assieme a quella della richiesta al reo di chinare il capo. Nessuno chiede alla Fiori un giudizio, peraltro estremamente complesso, sulla sinistra del Pci in Italia. Ma la spiegazione del rapporto tra radicalizzazione di tanti gruppi e strage di piazza Fontana è una testimonianza vera. A prescindere da cosa si pensa degli anni ’70. Ma alla Fiori, e non certo solo a lei, manca lucidità di giudizio e non difetta la fretta di condannare qualsiasi fatto che non entri nei propri schemi. E quando i fatti rappresentano un problema figuriamoci se non lo sono gli atteggiamenti. Qualche anno fa Marco Travaglio si inorridiva a proposito di una certa solidarietà di Negri con Berlusconi. Sarebbe bastato capire che la frase, di Negri, “so cosa voglia dire il carcere” appartiene non solo ad esperienza personale ma anche a una cultura della abolizione del carcere complessa e radicata in un modo che i Travaglio non sospettano nemmeno. Perché questo è un paese dove la verità politica, e la legittimità del pensiero politico di qualcuno, viene giocata attorno all’interpretazione del significato dell’iscrizione nel registro degli indagati e di cosa avviene nei tre gradi di giudizio. Oppure attorno alla scomunica immediata emessa nei confronti di chi non ha requisiti di pio, onesto lavoratore manuale che sono tanto più paradossali in una società che non conoscerà più la piena occupazione così come era intesa quando questa morale aveva un certo riscontro concreto.

Eppure se si vuol giudicare il pensiero di Negri, cosa che sembrano voler fare tutti all’istante, tutta questa polvere fatta di livore e di luoghi comuni, che si è appiccicata a Negri come avviene per le popstar consapevoli di esserlo, la si deve lasciar diradare. A quel punto possono emergere i testi, gli articoli, i riscontri biografici, le tendenze teoriche, le aporie, le necessarie, e anche dolorose, discontinuità da operare come la tessitura, dove è possibile, della continuità di pensiero. Di pensiero va sottolineato. Ammesso, e non concesso, che in questo paese sia ancora legittimo pensare. Non lanciare un tweet o un post su Facebook su Spinoza, Leone Ebreo o Burckhardt ma proprio pensare. Si tratta, va ricordato volentieri un epoca di livoroso anti-intellualismo, di quella facoltà di immaginare, come diceva Bacone, divorzi legali o illegali tra le cose erroneamente attribuita alla sola estetica, se proprio qualcuno non inorridisce di fronte a questo genere di richiami. Una facoltà che va applicata al pensiero di Negri senza lasciarsi ingannare dalla polvere, con quei gesti, sia creativi che clinici, tipici di quando si fa teoria.

Ma c’è il punto forse più importante che va ricordato. E va fatto con una storia, vera, che riguarda Lucio Castellano. Imputato al processo 7 aprile, poi deceduto a seguito di un tragico incidente di moto. Al processo, Castellano fece notare ai magistrati che la ricostruzione probatoria dei ruoli in ciò che era stata l’area dell’autonomia non aveva alcun senso. Per il semplice fatto che i pm applicavano schemi di lettura (il capo, il braccio destro, il mandante, il cassiere, l’ideologo, l’eventuale armaiolo, il faccendiere) che andavano bene per il loro mondo, ma non per il mondo verso il quale indagavano. La cosa che meno accettava Castellano, infatti, era proprio il fatto che i pm avevano cercato di ricostruire Autonomia secondo gli schemi di un mondo che apparteneva solo alla cultura dei pm non a quello della dimensione reale del movimento di allora. Questo aneddoto vale, a maggior ragione, per capire la biografia, legandola ai testi, di Negri. Se nella biografia si cercano episodi da condanna in tempo reale (quelli che alimentano i luoghi comuni sull’intellettuale oggi) allora il libro in questione è come un deposito di Grana Padano per un branco di topolini. Le cose cambiano se invece si cominciano a disporre gli episodi biografici assieme ai fatti e ai testi, e se li si distende come a formare un labirinto che, per dare risposte, deve essere attraversato a fondo.

E’ vero, tutto questo è difficile in una epoca dove la verità coincide con il giudizio istantaneo su cosa viene raccontato nei processi, sui tabulati telefonici, nelle schermate di Whatsup, che a loro volta mirrorano Facebook in pieno barocco digitale. E così addirittura sembra tutto qualcosa di snob, un gioco per oziosi. Ma se si vuol capire, e fare, politica, cambiare il proprio mondo, è in queste storie che bisogna saper entrare. Mettendo in conto anche la paura di perdersi o quella di provare il tocco gelido di un mondo estraneo. Perché solo chi sa affrontare la paura di perdersi, e tornare dal confine che questa condivide col terrore, può mettere in conto la possibilità di trovare una strada in questi tempi difficili.

Per Senza Soste, nique la police

21 gennaio 2016


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